L’Europa sta vivendo una crisi che lambisce questioni identitarie ed economiche. La classe media è disorientata perché alla crescita economica non corrisponde più, in parallelo, un aumento del benessere, anzi c’è la percezione di un continuo arretramento sul piano del welfare e dei diritti sul piano lavorativo. Noi europei ci troviamo così a fronteggiare con sempre meno protezioni la globalizzazione e la concorrenza sul libero mercato: Russia, Asia e Stati Uniti in particolare.
Senza conoscerne il significato stiamo cominciando a familiarizzare sempre più spesso con slogan asiatici legati al mondo del lavoro, cosa che gli Stati Uniti hanno imparato a fare già da diversi decenni. Gung-ho, ad esempio, è un’espressione di origine cinese che ha una storia interessante (cfr. Moe, 1967). Oggi è ormai in disuso ma per un bel po’ di tempo veniva utilizzata dagli americani con un paio di accezioni che spiegano molto bene le differenze tra Occidente e Oriente in tema di lavoro: la prima accezione è una specie di slogan ovvero “lavorare insieme, lavorare in armonia”; la seconda è una espressione satirica rivolta a chi è troppo entusiasta e zelante rispetto alle mansioni lavorative. Senza entrare nelle implicazioni filosofiche, è da notare che l’origine dell’espressione viene da una abbreviazione del nome dato alle cooperative industriali cinesi nel corso della Seconda guerra mondiale. All’epoca la Cina era sotto i bombardamenti giapponesi e le organizzazioni dovevano fronteggiare continui traslochi di persone e macchinari per tenere in vita la produzione. L’espressione tornò di attualità per un po’ negli anni Ottanta con il film di Ron Howard Arrivano i giapponesi, in cui un gruppo di rilassati e sindacalizzati operai americani pretende di salvare dalla delocalizzazione e dal fallimento la propria fabbrica facendosi rilevare da capitali nipponici. Erano gli anni in cui si affermava su scala planetaria lo strapotere produttivo della casa automobilistica Toyota. Oggi qualsiasi ambito lavorativo sembra vivere costantemente in un contesto Gung-ho: senso di perdita dei privilegi e dei diritti acquisiti in passato; entusiasmo isterico di dipendenti che aderiscono alle pratiche di team building più folli pur di conservare il posto di lavoro; continua smobilitazione e delocalizzazione delle attività produttive nel nome della flessibilità. La flessibilità è ormai diventata una divinità astratta invocata ovunque: la crisi economica che non finisce mai; il costo del lavoro che è sempre più basso altrove; la concorrenza con una forza-lavoro robotizzata sempre più presente.
Oggi sembra inevitabile chiudere qualsiasi discorso sulla progressiva automazione del lavoro invocando la creazione di nuovi mestieri per gli umani. Come una danza della pioggia di… nuovi mestieri. L’ottimismo viene dalla constatazione che in passato è sempre andata così: nuove macchine uguale nuovi mestieri per l’uomo. Ma questo lieto fine non è così certo, per la forza-lavoro umana. O almeno non per gli umani come li conosciamo oggi. Quello che oggi si comincia a intuire è: sì, ci saranno nuovi mestieri ma alcuni di questi verranno ricoperti totalmente o in parte da macchine dotate di intelligenza artificiale oppure da umani “aumentati” da congegni artificiali. Se c’è una cosa di cui possiamo stare certi è che la cornice organizzativa e culturale capitalistica spingerà sempre il sistema economico a cercare di ottimizzare i costi della forza lavoro. Le macchine andranno sempre d’accordo con il capitalismo perché sono prevedibili. Perché, ad esempio, oggi chi investe di più in automazione sono proprio paesi come la Cina che, teoricamente, hanno ancora il vantaggio competitivo di una forza-lavoro più economica? Probabilmente ci si rende conto che, da quel punto di vista, gli esseri umani non sono affidabili quanto le macchine. La disoccupazione tecnologica è un danno collaterale prevedibile e da gestire.
Una delle prospettive che si stanno materializzando per ridurre l’impatto della disoccupazione tecnologica è, ad esempio, il reddito di cittadinanza per chi resta senza lavoro. Una specie di premio per il fatto di essere umani e, soprattutto, consumatori. A parte il dettaglio della sostenibilità economica, un simile sistema non è totalmente inimmaginabile per il futuro: è un gioco win-win per il Capitale perché da una parte esso si mantiene libero di sperimentare macchine sempre più efficaci, dall’altra si tengono vivi i consumi rimettendo in circolo una parte della redditività. Ma è ancora presto per parlare di sostituzione degli umani e loro trasformazione in consumatori. Oggi per noi c’è ancora una buona notizia: abbiamo un po’ di anni per riflettere e trovare soluzioni (o altre collocazioni).
Lavoratori umani contro macchine: quattro campi di battaglia
Andiamo con ordine e senza farci prendere dal panico. Quali sono le attività produttive che si svolgono oggi? Volendo semplificare al massimo possiamo arrivare a dire che in un’azienda o in un ente pubblico i processi implicano sempre la presenza di quattro tipi di task: 1) lavoro manuale; 2) comprensione dei numeri e applicazione di formule; 3) comunicazione; 4) gestione e ottimizzazione.
Posto che il processo di automazione prosegua e avremo robot sempre più sofisticati, probabilmente operai e magazzinieri diventeranno tecnici più o meno specializzati pronti a intervenire nel caso in cui le macchine dovessero bloccarsi. Tipicamente avremo una piccola minoranza di ingegneri e progettisti molto specializzati sul piano informatico e del problem solving che, in remoto, saranno in grado di guidare i tecnici presenti sul campo interagendo con essi. Uomini come interfacce per visualizzare i problemi e risolverli. Le dotazioni di questi droni umani saranno sempre più sviluppate sul piano della sensoristica per consentire a chi si trova in remoto di avere un quadro preciso in maniera tempestiva. Il momento classico che nobilita l’intervento manuale del tecnico è quando si scopre che da qualche parte c’è un cavo staccato oppure quando occorre riavviare una macchina staccando e riattaccando l’alimentazione. Largo a esoscheletri e mezzi di locomozione veloci per consentire l’accesso alle location più difficili. Diventa fondamentale la portabilità di computer indossabili, visori e sensori che, in realtà aumentata, riescano a inquadrare le situazioni e a restituire agli operatori manuali dei feedback veloci dalla sala di controllo.
Un possibile mestiere per il futuro potrebbe essere l’ammaestratore di droni: figura specializzata nel coordinare uno stormo più o meno grande di droni al fine di svolgere mansioni di sorveglianza e analisi di un territorio o di una serie di spazi interni. Bisogna tener presente che già oggi esistono prodotti informatici e servizi volti alla gestione di flotte aziendali di computer. Sistemi sempre più sofisticati di Network Access Control consentono la gestione centralizzata di insiemi più o meno grandi di macchine collegate in rete. Tipicamente si tratta di software dotati di pannelli che consentono all’operatore di effettuare qualsiasi operazione su qualsiasi computer arruolato. Ad esempio inviare una notifica a un cellulare oppure spegnere un computer se necessario. In futuro, quando le automobili a guida autonoma prenderanno il sopravvento, sarà sempre più prezioso il ramo informatico che si occuperà della logistica e della gestione delle risorse.
Programmare da ubriachi
Gli ingegneri e i programmatori del futuro potrebbero diventare figure ibride subissate di responsabilità. Se da una parte intelligenze artificiali e framework che non lasciano niente al caso alleggeriscono il lavoro di chi scrive codice, dall’altra queste figure devono giustificare la loro funzione nei processi. Ponte tra umani e macchine, saranno probabilmente sempre più impegnati nel rendere i prodotti digitali usabili e comprensibili per un pubblico sempre più pigro e sempre meno acculturato sul piano informatico. Significativo il caso recente di uno sviluppatore che ha cominciato a testare siti web e applicazioni da ubriaco per capirne i margini di miglioramento sul piano della facilità di utilizzo (cfr. Wiener, 2015). Questo nella misura in cui restino sempre gli umani a ricoprire la parte del pubblico pagante. In quest’ottica non dobbiamo pensare alla programmazione informatica come a qualcosa di intrinsecamente manipolatorio nei confronti del pubblico. Certo esisterà sempre un pubblico mainstream, pecorelle smarrite di cui il lupo chiamato “impostazioni di default” potrà disporre a piacere. È il popolo di quelli che i programmatori chiamano “u-tonti”, ovvero utenti che per un motivo o per l’altro si trovano ad affrontare l’utilizzo di un software in fretta o senza una adeguata formazione. Dall’utilizzo frettoloso o poco consapevole si possono ricavare azioni redditizie per chi sviluppa software: tipico il caso delle inserzioni pubblicitarie o delle opzioni a pagamento attivate con più facilità utilizzando dispositivi mobili per il semplice fatto che lì il visus è estremamente ridotto.
Largo dunque a figure professionali ibride che si assumono il compito di anticorpi che si oppongono ai meccanismi di profitto più beceri e automatizzati del web. Esempio tipico è il software di blocco delle pubblicità nei browser. Seguendo questa scia potrebbero trovare spazio tante altre forme di protezione del cliente sempre più in balia di forze malevole che cercano di carpire informazioni personali e accessi più o meno trasparenti a portafogli elettronici. La stessa guerra che si sta combattendo contro la privacy dei cittadini del web nel nome dei big data e del machine learning potrebbe aprire spazi per il fronte ribelle di chi propone soluzioni per anonimizzare e tutelare dati. Tra l’altro il trend della raccolta dei dati a tutti i costi potrebbe distogliere l’attenzione dal fatto che la pubblicità algoritmica rischia di diventare sempre più costosa e inefficace. Facile constatare quanto la gente sia diventata allergica ai banner e ai riquadri pubblicitari (cfr. Kurfehs, 2018). Con questo in mente, come immaginare una intelligenza artificiale in grado di programmare autonomamente un sito web o un software? Insomma, potrebbe essere sempre più prezioso l’apporto di professionisti in grado di inventare soluzioni per tenere pulite e in una certa misura trasparenti e snelle le transazioni comunicative.
Comunicazione come rapporto tra codici e creatività
La tecnologia corre e le macchine sono destinate a sostituire l’uomo in qualsiasi tipo di lavoro, compreso quelli non manuali. Accade già oggi. Pensiamo alle traduzioni oppure ai software che sono in grado di produrre articoli giornalistici mettendo insieme i fatti nudi e crudi in una struttura linguisticamente minimale. In fondo il vasto bacino delle mansioni legate alla comunicazione può essere semplificato e ridotto al trattamento di codici e convenzioni tramite l’atto del leggere, capire e scrivere testi. Quanto spazio c’è ancora per la progettualità e la creatività dell’uomo? Bisogna coltivare la comunicazione come scienza della percezione e contemporaneamente avere una visione della rete. La conoscenza delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione è cruciale se si vuole abitare questo futuro come nodi attivi e non come terminali passivi. Certo le pubbliche relazioni, la creatività in pubblicità e la capacità di vendere sono doti che non conosceranno mai crisi. Il punto è che le macchine possono colpire molti più target in molto meno tempo e il venditore rischia di ridursi ad accompagnatore o badante del computer. D’altro canto, a proposito di creatività, oggi per un genitore potrebbe sembrare ancora un po’ strana la circostanza di dover consigliare al proprio figlio la carriera del poeta o del fumettista. Eppure, se c’è un campo in cui le intelligenze artificiali non danno ancora segni di vita quello sembra essere proprio la creatività artistica. Qui si parla con un certo ottimismo di una sostituzione integrale dell’uomo lontanissima nel tempo ma tenendo sempre in mente una costante: il binomio uomo-tecnica è inscindibile ormai da tempo e quindi l’uomo dovrà comunque stare al passo e imparare a utilizzare gli avanzamenti tecnologici come strumenti che alleggeriscono i carichi di lavoro più ripetitivi.
Un grande aiuto dalle macchine potrebbe arrivare sul fronte della selezione delle fonti e delle informazioni rilevanti per un certo percorso di informazione e di divulgazione. Tra questi perché non contemplare un’espressione della creatività così genuina come lo sguardo satirico? Proviamo a immaginare una società futura in cui la realtà fattuale è talmente noiosa e deprimente da lasciare spazio a un nuovo genere di intrattenimento: le fake news. Il saper scegliere su cosa giocare e come sarebbe un vantaggio competitivo notevole sul mercato del “lavoro di concetto”.
Fare formazione con e per la società delle macchine
Si intuisce facilmente che all’informare, al vendere e al fare pubblicità c’è un territorio attiguo che è quello del fare formazione. Qui ci sono ancora le prospettive più ottimistiche per gli umani perché le asimmetrie di un sistema lasciano sempre spazio a vuoti conoscitivi da colmare. La sfida per i formatori sarà sempre quella di individuare tempestivamente questi vuoti e capire come colmarli. Anche qui i processi implicheranno sempre la presenza di macchine perché i casi saranno due: o bisogna formare sulle tecnologie, o bisogna avvalersi delle tecnologie per tenere aperti o aprire canali comunicativi.
Bisogna superare la paura che si avverte di fronte a una curva di apprendimento. Come quando abbiamo davanti un librone pieno di pagine: pensateci, a volte i libri sono semplicemente più grandi perché tendono a presentare più metafore che spiegano sempre gli stessi concetti. Da studenti siamo stati abituati a prendere appunti e a studiare da riassunti. Cogliere schemi e costanti anche tra discorsi diversi. Bisogna anche proporre una didattica che presenti il computing come qualcosa di vicino alla vita quotidiana e non staccato da tutto e chiuso in tecnicismi inaccessibili ai più. Il formatore sarà sempre più spesso chiamato a interpretare i contesti e trovare nuovi terreni fertili partendo dall’uso concreto delle macchine.
Manipolare il tempo per massimizzare i profitti
Molti task all’interno dei processi lavorativi si basano su codici in qualche misura strutturati, misurabili e riproducibili. In quel “più o meno” c’è il margine in cui può operare l’umano. Ma c’è anche un altro aspetto della corsa tecnologica che vede gli umani protagonisti: il decidere in che direzione puntare la corsa tecnologica. E non possiamo dare per scontato che tale direzione sia sempre la stessa. Finora il valore delle macchine è stato fondamentalmente impiegato nel risparmio sul fattore tempo. Con l’affermazione del piano tecnologico, il capitalismo ha gradualmente spostato il proprio focus dall’accumulo di capitale alla manipolazione del tempo (cfr. Castells, 2014). Un investimento che si aspetta un ritorno in futuro è già di per sé una forma di negoziazione con il fattore tempo. Del resto il succo del management è sempre quello di fiutare i segnali dal futuro. Ma anche rivolgendo lo sguardo all’interno delle imprese il tempo è fondamentale nell’ottica di ottimizzare i processi e massimizzare i profitti. Il timesheet ad esempio è un dispositivo centrale in tutte le compagini organizzate. È il succo stesso dell’organizzazione perché permette di conoscere analiticamente la consonanza di quanto si fa realmente rispetto ai processi e alle performance prefigurate. E questo vale anche per l’individuo libero professionista.
Altro terreno fondamentale della cultura aziendale è il customer service, la gestione dei rapporti con il cliente. Nelle aziende medio-grandi oggi è impensabile andare avanti senza scegliere bene il tool di CSM (o CRM) più adatto. Zendesk è un caso interessante: software molto usato dalle startup americane ma anche dalle multinazionali; agisce completamente in cloud su server esterni alle aziende clienti. Zendesk offre a chiunque la possibilità di farsi un’idea di cosa significhi introdurre aspetti quantitativi in una relazione. Si tratta di un primo passo verso quelle relazioni umani-cyborg fantasticate dalla fantascienza. Traducendo le richieste dei clienti in ticket, tutti i software di CSM finiscono con il collocare al centro non solo aspetti quantitativi ma anche il fattore tempo. Lo dimostra l’immancabile spruzzata di gamification che spinge il lavoratore a una sempre maggiore attenzione alle proprie statistiche (cfr. Ismail, 2015). La macchina e il sistema dettano il ritmo del lavoratore e quasi mai viceversa. Lo snodo principale di questo discorso è costituito dalle classifiche che mostrano a tutti i dipendenti i dati quantitativi di chiunque utilizzi il software per gestire ticket. In questo modo non si crea solo una implicita promozione della competizione ma anche l’idea che ogni singolo gesto del lavoratore va monitorato, misurato e migliorato. In questi software, tra i parametri maggiormente focalizzati c’è il tempo di risposta alla prima apertura di un ticket. Interessante come il sistema automatizzato tenti di simulare una parvenza di umanità costituita dal fatto che una prima risposta fulminea denota attenzione, cura per il cliente, sollecitudine nel reagire alle difficoltà. Poco importa che molto spesso questi tempi di reazione possono essere tenuti bassi solo in virtù dell’utilizzo di modelli precompilati di risposta e macro varie che in pratica circoscrivono la reazione dell’operatore alla pressione di una manciata di bottoni da scegliere in base alle circostanze. Anche qui si caratterizza un nuovo margine di manovra per gli umani: quale dei bottoni è più adatto? Soprattutto, cosa fare se nessuno dei bottoni è adatto alla richiesta?
Il recente successo delle interfacce basate sulla logica dialogica della chat (cfr. Bruno, Correnti, L’Episcopo, 2008) dimostra quanto sia importante non perdere la traccia del bisogno umano di semplificazione della tecnologia. Lo schema della domanda e della risposta in fondo è molto simile alle traiettorie messe in atto dai software di customer care con le macro e le risposte semi-automatizzate. Esistono dei casi tipici e delle risposte frequenti che vanno sfruttate per ottimizzare e velocizzare lo scambio di informazioni. Il riconoscimento della voce e le interfacce vocali, una volta perfezionati i problemi linguistici, daranno uno slancio fondamentale al varo di intelligenze artificiali che corrono in nostro aiuto quando abbiamo un problema o stiamo effettuando una ricerca. Per le macchine saranno sempre una risorsa indiscutibile nell’aiutarci a raffinare le nostre query perché hanno la possibilità di analizzare le nostre cronologie, le nostre preferenze e tenerle a mente meglio di come potremmo mai fare noi che ci perdiamo anche solo nel tentare di organizzare un efficace sistema di bookmark in un browser.
Il destino dell’uomo post-umano
Dopo aver sorvolato velocemente i territori dove si misurerà il rapporto uomo-macchina, bisogna considerare che la nostra simbiosi con la tecnica è irreversibile (cfr. Longo, 2005), ormai da diversi secoli, anche al di là del capitalismo. L’uomo non può e non potrà mai vivere e sopravvivere senza tecnica. Tenendo a mente ciò, bisogna fronteggiare il fatto che sia il far di conto che il saper leggere/scrivere sono due attività che si basano su codici ovvero qualcosa di (più o meno bene, più o meno facilmente) riproducibile. In quel “più o meno” ci sono (per ora) i margini di attività dell’uomo. L’organizzazione sociale dovrebbe capire le frontiere future tenendo d’occhio quel punto dove finisce la macchina come strumento e dove comincia la macchina come sostituto integrale dell’uomo.
Riferimenti
- Raimondo Bruno, Dario Correnti, Andrea L’Episcopo, Chatbot e interazione uomo macchina. L’intelligenza artificiale dal pattern matching alle ontologie, La Moderna, Enna, 2008.
- Manuel Castells, La nascita della società in rete, Università Bocconi Editore, Milano, 2014.
- Salim Ismail, Exponential Organizations. Il futuro del business mondiale, Marsilio, Venezia, 2015.
- Rob Kurfehs, The New Age Of Digital Advertising, “MediaPost”, 2018.
- Giuseppe O. Longo, Homo technologicus, Meltemi, Roma, 2005.
- Albert F. Moe, Gung Ho, “American Speech”, vol. 42 n. 1, 1967.
- Sophie Weiner, Reviewing UX Designs While Drunk Makes Way More Sense Than You Think, “FastCodesign”, 2015.