Le dimensioni culturali del futuro
Di recente le scienze sociali hanno prestato crescente attenzione alle dimensioni culturali del futuro. Come ha sostenuto Arjun Appadurai nel noto saggio Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale (2013), valori, norme e credenze, da sempre centrali nello studio delle culture, hanno un ruolo cruciale non solo nella comprensione delle tradizioni e delle eredità provenienti dal passato, ma anche rispetto alla formazione di scenari e visioni del futuro che orientano l’azione nel presente. Così come il modo in cui ricordiamo è collettivamente costruito, anche le modalità in cui immaginiamo i futuri possibili e plausibili prendono forma in un «clima di attese sociali», ovvero quell’insieme di discorsi, atteggiamenti, previsioni e preoccupazioni sul futuro prevalenti in una società (Jedlowski, 2017). In questa chiave il futuro ha a che fare con l’immaginazione, specialmente nella sua dimensione collettiva. Sempre Appadurai, in Modernità in polvere (1996), sosteneva che «l’immaginazione è una palestra per l’azione», dunque contribuisce attivamente alla costruzione del futuro. Successivamente l’autore ha proposto uno slittamento dal piano dell’immaginazione a quello delle aspirazioni. Gli aspetti innovativi che l’antropologo attribuisce all’atteggiamento di chi nutre aspirazioni sono essenzialmente tre: l’aspirazione è una capacità culturale; ha natura necessariamente collettiva; è socialmente distribuita in maniera diseguale. È una capacità culturale perché per aspirare a qualcosa bisogna partecipare alla visione che la società ha del futuro possibile, ciò che è probabile e desiderabile che accada; ed è una capacità perché non è sufficiente immaginare ciò che è desiderabile, bisogna al tempo stesso mettere in atto delle pratiche e individuare i corsi d’azione necessari affinché il desiderio si trasformi in qualcosa di realizzabile. È chiaro a questo punto perché le aspirazioni, secondo questa impostazione, hanno carattere collettivo: non si aspira in maniera individuale, rimanendo del tutto slegati dal contesto sociale. Si nutrono delle aspirazioni che la società in cui si vive, o almeno una parte di essa, considera legittime. Infine, la capacità di aspirare proprio perché ha delle forti basi culturali e sociali, è distribuita in maniera diseguale tra i gruppi sociali che compongono la società: essa è correlata positivamente con le risorse economiche, sociali e culturali. Le fasce più deboli, povere di una o più di tali risorse, hanno più difficoltà nell’elaborazione di aspirazioni sul proprio futuro. Tuttavia, proprio la capacità di aspirare costituisce per Appadurai uno strumento essenziale per uscire da situazioni di svantaggio (Appadurai, 2004).
A partire dalle riflessioni di Appadurai sulle dimensioni culturali del futuro, e sulla capacità di aspirare nello specifico, alcuni sociologi italiani hanno reinterrogato il concetto di aspirazione per utilizzarlo anche in contesti differenti. Il risultato di queste riflessioni è raccolto nel volume collettivo Il futuro nel quotidiano. Studi sociologici sulla capacità di aspirare (De Leonardis e Deriu, 2012). In uno di questi saggi Enzo Colombo (2012), articolando le riflessioni di Appadurai rispetto a quanto accade oggi nelle società occidentali, nota come un nodo particolarmente problematico possa essere individuato non tanto (o comunque non solo) nella distribuzione diseguale della capacità di aspirare, quanto nel rapporto tra immaginazione e aspirazione: in una situazione di crescente incertezza la difficoltà ad immaginare un futuro, a breve e a lungo termine, nel quale le proprie aspirazioni possano trovare soddisfacimento, ha generato un’incrinatura nel rapporto tra immaginazione e aspirazione in quanto capace di generare nel presente un agire orientato al futuro.
Si potrebbe dunque ipotizzare che, più ancora che un’equa distribuzione della capacità di aspirare – comunque necessaria per ridurre le diseguaglianze sociali – ciò che occorre è una rivitalizzazione della capacità di aspirare. A partire dall’approccio “culturale” al futuro, così come sinteticamente delineato, è possibile elaborare alcune riflessioni su quello che appare come un intreccio sempre più problematico tra la crisi dell’immaginario sul futuro che caratterizza le società occidentali contemporanee e la diffusione di un immaginario sempre più ostile ai fenomeni migratori e alle differenze culturali, nonché incline ad abbracciare l’ideologia dello scontro di civiltà.
Crisi del futuro, cultura del rifiuto
Se alla fine del XX secolo la coesistenza delle diversità sembrava inevitabile e auspicabile nelle società occidentali, e il razzismo – specialmente dopo l’Olocausto – era diventato qualcosa che si riteneva appartenere al passato, negli ultimi decenni si è verificato un rapido cambiamento di prospettiva. A partire da questa considerazione, Colombo ha individuato una convergenza tra la frustrazione derivante da un senso di insicurezza generalizzato e l’ostilità nei confronti del diverso, convergenza che ha sintetizzato attraverso l’espressione immaginario sociale (anti)multiculturale. Quest’ultimo è, a suo avviso, caratterizzato dai seguenti elementi: incertezza diffusa che genera solidarietà dell’ansia e ossessione della sicurezza; reificazione delle culture ed enfasi sul passato; percezione dell’alterità visibile come una minaccia; esaltazione di un individualismo che riduce la capacità di immaginarsi insieme agli altri (Colombo, 2012). In questo contesto si diffondono aspirazioni egoistiche, fondate sul ripiegamento su di sé e sul desiderio di ritorno a un passato ritenuto migliore, più sicuro, piuttosto che aspirazioni solidali, attraverso le quali immaginare una società futura basata su apertura, coesistenza tra differenze e pratiche di ibridazione culturale.
La diffusione di sentimenti come ansia, insicurezza e incertezza, legati principalmente ai processi di destrutturazione delle biografie individuali, finanziarizzazione dell’economia e precarizzazione del mercato dal lavoro, sono da tempo al centro dell’interesse sociologico. Una serie di espressioni che circolano nell’ambito delle scienze sociali non fanno che sottolineare la diffusione di un senso di incertezza e precarietà che sembra caratterizzare le contemporanee società occidentali. Si parla di “società del rischio” (Beck, 1986), “società dell’incertezza” (Bauman, 1999), “epoca delle passioni tristi” (Benasayag e Schimt, 2003). Si tratta solo di alcuni dei più noti titoli che richiamano processi sociali, spesso opachi, che contribuiscono a costruire un immaginario al ribasso sul futuro e influiscono sulle aspettative e le aspirazioni individuali, generando un senso di sfiducia collettivo che, spesso, sfocia in rancore e risentimento. Due sentimenti che potrebbero essere letti come una reazione alla presa di consapevolezza che il benessere non riguarderà tutti. Se nella prima modernità l’ideologia del Progresso aveva rappresentato il quadro collettivo nel quale collocare le aspettative e le aspirazioni individuali, cambia ora il “clima delle attese”: il sospetto che la realizzazione del progresso e del benessere non sia egualmente distribuita, genera risentimento: «la fiducia nel progresso generalizzato includeva. La prospettiva di un progresso selettivo divide» (Jedlowski, 2017).
Nella sfera semantica ed emotiva del rancore e del risentimento si può individuare un primo punto di intersezione tra il discorso sulla crisi del futuro e le reazioni di chiusura e ostilità rispetto ai fenomeni migratori. A tal proposito risulta particolarmente indicativa la raccolta di immagini diffuse nella società italiana effettuata da Cronache di ordinario razzismo, significativamente intitolata Galleria degli orrori, così come la disamina di una serie di episodi di aggressività nei confronti della popolazione migrante residente sul territorio presentata nei Libri bianchi sul razzismo, curati dall’associazione Lunaria. Nel più recente di questi rapporti, pubblicato nel 2017, l’antropologa Annamaria Rivera definisce il razzismo popolare non come una “guerra fra poveri” – espressione mediaticamente diffusa, incline a giustificare reazioni xenofobe, se non razziste, a partire dalla situazione di crisi economica che ha colpito le classi più svantaggiate – ma come “rancore socializzato”, fondato su sentimenti di frustrazione e insicurezza causati dalla precarizzazione delle biografie individuali, poi alimentato e messo a frutto da attori sociali e politici che si muovono nella sfera pubblica e infine indirizzato verso coloro che vengono considerati estranei al territorio e alla “cultura” italiana.
In questo quadro, le cornici prevalenti attraverso le quali si parla dei fenomeni migratori oggi riguardano la questione sicurezza/criminalità da un lato, e quella dell’incompatibilità/contaminazione dall’altro. Ne consegue la costruzione di vere e proprie “antropologie dell’altro”: l’invader, rappresentato dalla figura del clandestino e dalle cifre e dalle parole che raccontano l’“emergenza sbarchi”; l’alien, originario di una cultura talmente diversa dalla nostra da portare con sé il rischio della “contaminazione”. Il primo è il nemico che minaccia i confini esterni, il secondo è il nemico già all’interno del territorio nazionale (Binotto, 2007; Binotto, 2015). L’ossessione per la sicurezza può essere intesa allora come un secondo elemento che accomuna l’incertezza rispetto al futuro e l’ostilità nei confronti dei fenomeni migratori. Si tratta di una tendenza che, in un certo senso, denota l’incapacità collettiva di immaginare, e dunque progettare, un futuro che non sia solo sopravvivenza. Vincenza Pellegrino, rilevando la sempre più scarsa attitudine a immaginare collettivamente il futuro, parla di una “dominanza simbolica del presente” generata da “un indebolimento dei processi di acculturazione al futuro”: «È come se – dicono molti studiosi – si riducesse tanto la capacità collettiva di condividere ciò che “dovrebbe essere”, quanto la capacità individuale di identificare soggettivamente le mancanze del presente, di collocarle rispetto a un autentico desiderio soggettivo» (Pellegrino, 2013).
Sarebbe tuttavia troppo semplicistico sostenere che la percezione negativa dell’alterità sia causata dalla crisi dell’immaginario sul futuro; piuttosto si potrebbe dire che i due immaginari si alimentano reciprocamente in un rapporto di circolarità. Secondo Lyotard (1979), tra le grandi narrazioni che hanno sostenuto l’universalizzazione della modernità europea in quanto futuro desiderabile ovunque, quella del Progresso ha giocato un ruolo cruciale. Egli fa coincidere la fine della modernità – e l’inizio della postmodernità – con l’insostenibilità di questa grande narrazione a causa della mancata realizzazione della promessa dell’emancipazione per tutti. Il disorientamento che ne deriva può portare a un’apertura alla pluralità o, e questa sembra la tendenza prevalente, alla formazione di nuove rigidità e di narrazioni troppo coerenti, non più guidate dal desiderio di emancipazione, e dunque orientate al futuro, ma dal bisogno di sicurezza, e di conseguenza finalizzate al mantenimento dello status quo. Il Progresso è stato una vera e propria ideologia, la grande narrazione su cui si è costruita tutta la modernità europea e che ha legittimato, tra le altre cose, l’espansione coloniale europea nel resto del globo, senza la quale l’Europa non avrebbe raggiunto quel livello di sviluppo materiale e tecnologico che le ha consentito di definirsi “moderna”. In questo senso la modernità si fonda sulla relazione coloniale e non si sarebbe potuta verificare senza questo incontro asimmetrico (Bhambra, 2007).
Ma la relazione di dominio e sfruttamento che, in nome del Progresso e della diffusione della civiltà, l’incontro coloniale ha avviato non ha riguardato solo il piano materiale, ha anche aperto uno spazio epistemologico fortemente eurocentrico, necessario a legittimare lo sfruttamento del lavoro e delle risorse dei territori colonizzati, e che ha funzionato attraverso dicotomie oppositive: l’altro/a, descritto sempre in termini di mancanza, rappresentava di volta in volta lo speculare negativo dell’Europa (Said, 1978; Spivak, 1988; Todorova, 1997). Riconoscere la centralità che la schiavitù e il colonialismo hanno giocato nella storia europea – al pari di Illuminismo, rivoluzione francese e rivoluzione industriale – è un passo che non può più essere rimandato. Né per questi eventi, né per l’Olocausto, si è trattato di incidenti storici, ma di esperienze costitutive della modernità (Chambers, 1994; Bauman, 1989). Nonostante la conquista dell’America e lo sterminio delle popolazioni native, la schiavitù, il colonialismo in Sud America, in Africa e in Asia, lo sterminio degli Ebrei, genocidi e pulizie etniche, il neo-colonialismo liberista, è ancora possibile che, prospettando un inevitabile “scontro di civiltà” (Huntington, 1996) tra mondi pensati in maniera fin troppo omogenea e compatta al proprio interno, l’Occidente sia additato come il faro della civiltà, lo stadio più avanzato che l’umanità abbia raggiunto nella storia in quanto “storia del progresso” (Chambers, 2005).
Riportare il colonialismo al cuore della storia europea getta perciò una nuova luce rispetto alla riproduzione e alla trasformazione delle gerarchie razziali contemporanee su scala globale (Bhambra, 2013). «Il razzismo dunque è un dato profondamente radicato nel contesto a cui apparteniamo (l’Europa, il mondo occidentale), ricorrente nella nostra storia, prende forme diverse e – per effetto di una varietà di meccanismi – sopravvive e si riproduce. Soprattutto, c’entra con il nostro futuro» (Balbo, 2006). Ed è ampiamente connesso all’ideologia del progresso di stampo positivista (e dunque a un certo immaginario sul futuro), sebbene si sia verificato nella contemporaneità uno slittamento dalle gerarchie fondate sulla razza a quelle costruite sulle culture (Taguieff, 2001; Siebert, 2003). In merito a quanto accade all’interno dell’Europa, la proliferazione e la sempre più diffusa legittimazione dei discorsi razzisti e nazionalisti presentati da forze politiche reazionarie e antieuropeiste in Francia, in Austria, in Germania, in Olanda, in Danimarca, in Italia, nel Regno Unito e in Ungheria non dovrebbero essere intese esclusivamente come «a discourse against Europe, but also a European discourse» (Ponzanesi e Colpiani, 2016).
Si potrebbe dire che la fiducia nel progresso è andata di pari passo col dominio dell’alterità da parte dell’Occidente, laddove la crisi e la sfiducia ne provocano la paura e il rifiuto.
Forme di sapere alternativo
Narrazioni egemoniche, come quelle della crisi del futuro, dell’insicurezza e della paura del diverso, atrofizzano la capacità collettiva di immaginare e costruire un futuro fondato su aspirazioni solidali. Enzo Traverso, intervistato da Régis Meyran in un recente saggio-intervista, sostiene che tipica della nostra epoca sia l’incapacità di costruire progetti sulla società futura: «Viviamo in un’epoca di transizione: il XX secolo si è concluso; abbiamo avuto un assaggio del nuovo con l’11 settembre, con le diverse guerre che hanno devastato il mondo arabo, con una crisi finanziaria in Europa. Tutto questo non fa che aumentare la nostra preoccupazione. Di fronte a nuovi scenari sconosciuti, disponiamo solo di un vecchio vocabolario, ereditato dal secolo scorso. Le sue parole sono logore, ma non ne abbiamo ancora create di nuove. […] Sappiamo che il XXI secolo non sarà un’età felice ma, diversamente dai nostri padri, non riusciamo a definire un progetto per il futuro. Cerchiamo di scongiurare il peggio, di difendere le conquiste del passato, di preservare una democrazia che ogni giorno si svuota un po’ di più della sua sostanza. Non sappiamo ancora immaginare un mondo nuovo e diverso» (Traverso, 2017).
Il punto messo in luce da Traverso è particolarmente rilevante: manca la capacità di immaginare modelli di società alternativi; viene meno la tensione verso il futuro e prevale la tendenza a difendere quanto ereditato dal passato. Occorre allora praticare ciò che Laura Balbo, citando Spivak, definisce come un change of imagination (Balbo, 2012). In questo senso può essere interessante prestare attenzione alla pluralità di narrazioni alternative o contro-narrazioni che attraversano le società contemporanee. Se la grande narrazione del Progresso ha legittimato una concezione inferiorizzante dell’alterità, lo strumento narrativo – diversamente utilizzato – può avere anche una grande efficacia nel promuovere spazi di riflessione, conoscenza, e messa in discussione delle visioni dominanti. Rispetto a tale possibilità, le donne e gli uomini migranti che vivono oggi in Italia possono dare un importante contributo. I processi migratori, infatti, oltre a essere oggetto di narrazione ne sono anche fonte. Si pensi, ad esempio, alla presenza sempre più consistente di donne e uomini che, dopo essere emigrati in Italia, si sono dedicati alla scrittura letteraria in lingua italiana. I testi che producono e le pratiche narrative che agiscono sono rilevanti non solo rispetto alla qualità e all’innovatività letteraria di cui sono espressione, ma anche perché sfidano l’idea della purezza delle culture, mettendone invece in luce la porosità; e ci invitano, essendo scritti in italiano, a considerarcene destinatari.
La letteratura del resto può avere un vero e proprio carattere performativo. Il concetto di performatives mette in discussione l’idea che il linguaggio sia solamente rappresentazione della realtà di cui parla e ne sottolinea invece la forza performativa, ovvero la possibilità che attraverso il linguaggio si compia un’azione vera e propria (Duranti, 2007). L’agentività performativa può essere attribuita alla letteratura nella misura in cui i testi letterari si mostrino capaci, attraverso la creatività del linguaggio di cui si servono, di elaborare slogan, richieste e analisi giuridiche, sociali e politiche (Marino, 2015). La letteratura diventa così uno spazio simbolico nel quale sembra possibile esprimere una serie di criticità che non trovano riscontro altrove. Le narrazioni di matrice eurocentrica e occidentalista che hanno fondato la modernità europea hanno prodotto relazioni di dominio materiale e simbolico-culturale i cui effetti non sono esauriti e che, si è detto, in un clima di incertezza e precarietà, si intrecciano con spinte securitarie e nazionaliste. Si può tuttavia ipotizzare che nei testi di autori e autrici migranti trovi espressione un universo di senso non fondato su assunti eurocentrici e occidentalisti. In questa prospettiva la capacità del mezzo letterario e, più in generale, dei linguaggi artistici, di ampliare l’immaginario potrebbe stimolare un’interessante riarticolazione di diverse concezioni di senso comune proprie della società italiana, invitando i lettori a sviluppare forme di pensiero alternativo, e dunque a nutrire la propria abilità immaginativa orientata al futuro in ottica interculturale.
In linea con l’impostazione proposta da Appadurai, l’immaginazione è un elemento centrale del futuro in quanto “fatto culturale”. In questo senso appare importante lavorare sul piano simbolico e dei significati diffusi in una società. Anche in questa direzione si muovono le narrative di autori e autrici migranti che propongono una riarticolazione della comprensione del passato e del presente. Diversi testi narrano storie legate a crimini, violenze e discriminazioni che si sono verificate nei loro contesti d’origine e rispetto alle quali l’Europa e l’Occidente vengono chiamati in causa; si pensi ad esempio ai romanzi che invitano a ripercorrere segmenti distorti o rimossi del passato coloniale italiano, come Madre piccola (Ali Farah, 2007), Regina di fiori e di perle (Ghermandi, 2007), Lontano da Mogadiscio (Ramzanali Fazel, 2013). Molti altri raccontano una quotidianità per tanti italiani ancora non sufficientemente familiare e recano traccia della pluralità di sguardi che attraversa le biografie di persone che hanno esperienza della migrazione verso l’Italia, mettendone in luce gli aspetti positivi quanto le difficoltà quotidiane. L’occasione che questo tipo di letteratura fornisce è la possibilità di ampliare l’immaginazione sociale, tendendo conto di «altri commentatori», laddove invece il rifiuto dell’incontro che quotidianamente si ripropone nella società italiana comporta il rischio del «totalitarismo culturale» e la produzione di «narrazioni onnicomprensive e rigide» (Rebughini, 2014). Si tratta di narrazioni che, mettendo in discussione una serie di pregiudizi e convinzioni radicate tanto sui fenomeni migratori quanto sull’alterità, potrebbero contribuire a disarticolare il nesso percepito tra il peggioramento delle aspettative sul futuro e l’ostilità nei confronti dei migranti.
Per la riflessione e la ricerca sociale queste pratiche narrative, e l’attenzione per le biografie di chi le mette in atto, possono configurarsi come un importante stimolo al fine di sviluppare un’immaginazione sociologica postcoloniale (Bhambra, 2013), capace di riformulare la visione del passato, generando così effetti importanti sulla comprensione del presente e l’immaginazione del futuro. Nonostante il termine “postcoloniale” richiami necessariamente il passato e la Storia della modernità europea, diversi pensatori si sono soffermati sul legame tra il “postcoloniale” e il futuro. Secondo James Clifford la società postcoloniale è una società desiderabile, che deve essere immaginata a partire dalle pratiche contro-egemoniche messe in atto nel presente: «Il termine postcoloniale (come il postnazionale di Arjun Appadurai) ha senso solo in un contesto emergente o utopistico. Non ci sono culture o luoghi postcoloniali: solo mutamenti, tattiche, discorsi. “Post” è sempre oscurato da “neo”. Tuttavia, “postcoloniale” descrive rotture reali, anche se incomplete, con le passate strutture di dominio, descrive siti di lotta attuale e di futuri immaginati» (Clifford, 1999). A sua volta Bill Ashcroft sostiene che per “futuri postcoloniali” bisogna intendere l’agency contro-discorsiva dei soggetti postcoloniali e il potere trasformativo del discorso postcoloniale (Ashcroft, 2001).
La possibilità che certe pratiche narrative abbiano un effetto rivitalizzante sulla capacità collettiva di immaginare il futuro riporta al punto di partenza, ovvero alla proposta di non trascurare le dimensioni culturali del futuro. Per Appadurai infatti il futuro non deve essere anticipato o previsto, ma progettato. Ciò implica uno slittamento dall’etica della probabilità a quella della possibilità: «Dobbiamo essere mediatori, catalizzatori e promotori dell’etica della possibilità a fronte dell’etica della probabilità. [Un] impegno morale fondato sulla convinzione che una politica genuinamente democratica non può basarsi sulla valanga di numeri circa la popolazione, la povertà, il profitto e il saccheggio che minaccia di soffocare ogni ottimismo street-level circa la vita e il mondo. Occorre, piuttosto incrementare l’etica della possibilità, che può offrire una base più estesa per il miglioramento della qualità della vita sul pianeta e accogliere una pluralità di visioni della buona vita» (Appadurai, 2013).
L’etica della possibilità implica dunque una rivitalizzazione della capacità di aspirare a partire da una riattivazione dell’immaginazione collettiva circa la società in cui vorremmo vivere. L’esempio proposto, quello delle narrazioni prodotte dai soggetti migranti, è una delle tante pratiche non egemoniche in atto nella società italiana che potenzialmente possono contribuire a generare un cambio di immaginazione, essenziale per la progettazione del futuro.
Le scienze sociali, se intendono lavorare sul futuro, possono certamente proseguire sulla strada della critica decostruttiva che le caratterizza fin dal loro nascere. Ma possono anche contribuire a rendere visibili, nella loro complessità, tutte quelle forme di sapere alternativo, non dominante e contro-egemonico, elaborate nelle società che intendono comprendere, forme di sapere cruciali perché la capacità immaginativa e progettuale del futuro possa esprimere il suo potenziale.
Riferimenti
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