Hiroshima, la Guerra Fredda e i Futures Studies
Perché l’umanità divenisse consapevole del fatto che il progresso (Bury, 1932; Paura, 2017a) non avesse soltanto connotazioni positive, ci volle lo choc della bomba d’Hiroshima, anche se non erano mancate, in anni precedenti, importanti riflessioni sui possibili risvolti disumanizzanti di un certo tipo di approccio scientifico (Russell, 1931)[1]. I sempre più forti timori, soprattutto nella comunità scientifica, per i rischi connessi alla diversa velocità dell’evoluzione tecnologica (che del progresso scientifico è diretta conseguenza) rispetto a una troppo più lenta presa di coscienza, da parte dell’umanità, dei propri limiti, trova espressione nel Manifesto Russell-Einstein (firmato anche dagli scienziati Born, Bridgman, Infeld, Joliot-Curie, Miller, Pauling, Powell, Rotblat e Yukawa), presentato nel 1955, quando ormai si era nella Guerra Fredda (timori, forse, non condivisi dall’intera comunità scientifica, se poi nel mondo proseguirono i progetti legati allo sviluppo di nuove armi di distruzione; ma la spiegazione di questo aspetto è, probabilmente, molto complessa). Proprio in questo clima e da questi timori prendono avvio i Futures Studies, disciplina che, partendo dalla riflessione sui cambiamenti (sociali, culturali, tecnologici, scientifici), pone il suo accento su quanto le azioni di oggi pesino nel domani; anzi, nei futuri possibili (Barbieri Masini, 2000), e su come qualsiasi azione e decisione intrapresa nell’oggi si ripercuota nelle possibili declinazioni di un tempo che non appartiene a noi, ma a coloro che prenderanno il nostro posto. È evidente come il concetto di responsabilità sia uno dei termini-chiave, un elemento fondante (epistemico) della disciplina; soprattutto quando si consideri un ambito specifico dei Futures Studies, l’Anticipazione (Poli, 2010; Arnaldi e Poli, 2012), il cui obiettivo è quello di elaborare decisioni che abbiano una ricaduta (positiva, nelle intenzioni) proprio sui futuri possibili.
…E adesso? La lezione di Hans Jonas e i robot
In questo senso, mi sembra, oggi, molto importante tornare sulla riflessione del filosofo Hans Jonas (1903-1993), che nella sua opera Il principio responsabilità (Jonas, 1979) – scritta in un momento in cui si iniziava a discutere sui possibili sviluppi (e rischi possibili) della genetica – pone una distinzione fondamentale tra le conseguenze del progresso scientifico e quelle del progresso tecnico. Per lo studioso, soggetto della conoscenza scientifica non è più, come in passato, lo spirito individuale, ma, in misura crescente, lo spirito collettivo della società che memorizza il sapere. Un passaggio che ha un costo importante: la specializzazione del sapere, che porta alla frammentazione delle conoscenze, con una sempre maggiore difficoltà di tradurre in termini comprensibili linguaggi sempre più specializzati:
…l’intero processo diventa sempre più esoterico, sempre meno comunicabile ai non addetti ai lavori, finendo così per escludere la maggior parte dei contemporanei… Il divario aumenta e nella lacuna che si apre si diffondono surrogati del sapere e superstizione. Tuttavia nessuno si augura che venga meno un tale processo. Procedere nell’avventura della conoscenza è un dovere supremo e se questo è il suo prezzo, lo si deve pagare (Jonas, 1979)