Pare che il presente sia l’era del visual. Si sente spesso dire che un’immagine vale mille parole, ma anche che i “giovani”, trasferitisi prima su Instagram poi su TikTok, hanno de facto rinunciato all’uso delle parole a favore di foto e video. Poi però accade che una foto scelta con poca accuratezza provochi un disastro mediatico. Ne abbiamo numerosi casi: dal contestatissimo maglione di H&M con la scritta coolest monkey in the jungle fatto indossare a un bambino di colore (Thomas, 2018) all’immagine della nazionale femminile di pallavolo, arrivata seconda ai Mondiali, in cui la bottiglia di acqua dello sponsor copre “casualmente” proprio le due giocatrici di origine africana (Pinna, 2018). In questi casi, il danno viene riparato ricorrendo a uno strumento più antico, evidentemente più funzionale, più preciso: le parole; fiumi di parole, per l’esattezza.
La competenza della parola è centrale, per l’essere umano. La parola ha anche la capacità di adattarsi alle nostre esigenze, che possono variare nel tempo. L’adattamento è continuo ed è il segnale di una lingua sana. Scrive David Foster Wallace in un bel saggio che si occupa di lingua:
La lingua è stata inventata per servire certi scopi specifici: “Quel fungo è velenoso”; “Se batti insieme queste due pietre puoi accendere un fuoco”; “Questo riparo è mio!” e così via. È evidente che, poiché le comunità linguistiche si evolvono nel corso del tempo, esse scoprono che certi modi di usare la lingua sono migliori di altri – non migliori a priori, ma migliori relativamente agli scopi della comunità. (Wallace, 2005)
Quel “non migliori a priori” deve farci riflettere: deve ricordarci che la lingua cambia, e che abbracciarne il cambiamento non solo come inevitabile, ma come naturale, è fondamentale. Ma prima di vedere alcuni dei mutamenti più evidenti degli ultimi tempi, occorre fare un passo indietro e riflettere sugli scopi per i quali usiamo la nostra competenza comunicativa, così complessa, così unica, che permette a noi, unica specie tra tutti gli animali, di esprimere non solo il presente, ciò che è cogente, ma anche il passato e il futuro, tutto ciò che non è immanente (Faloppa, 2019).
Prima di tutto, con la parola esprimiamo noi stessi. Viviamo compiendo costanti atti di identità (Le Page, Tabouret-Keller, 1985), la maggior parte dei quali è involontaria (come quando esibiamo un accento regionale, che possiamo minimizzare con l’esercizio, ma quasi mai nascondere del tutto); una parte invece è volontaria (per esempio, la scelta di usare determinate parole e non altre: più volontarietà c’è in questa scelta, migliore sarà il nostro controllo sulla nostra stessa comunicazione e anche sulla nostra performance.
Secondariamente, comunichiamo con gli altri, giacché l’atto di identità di cui sopra è compiuto all’interno della società di cui facciamo parte, volenti o nolenti. L’uomo è un animale sociale, anche quando non vorrebbe esserlo, e per la sua vita la parte relazionale è importantissima. Dunque, quell’atto identitario personale diventa un atto identitario collettivo, attraverso il quale si identificano i membri e i confini della propria tribù e, di conseguenza, anche gli estranei a essa; e per quanto possiamo pensare di avere superato logiche di una certa natura, la nostra comunicazione serba ancora molte caratteristiche tribali, magari con la differenza, rispetto al passato, che solitamente facciamo parte in contemporanea di molte tribù, dai confini non sempre del tutto definiti: la famiglia, il gruppo di lavoro, la classe, gli amici, ecc.
In terzo luogo, la parola ci serve per descrivere la realtà. È il nostro mezzo per comprenderla e interpretarla. È evidente quindi che non solo la realtà influisce sulla lingua (la quale avrà bisogno di termini nuovi per definire cose nuove), ma anche che la lingua influisce sulla realtà. Senza scomodare l’ipotesi Sapir-Whorf (Gheno, 2019a), da tanti considerata superata, basta notare che chi conosce poche parole avrà difficoltà a dipingere la realtà con pennellate precise, perché avrà meno colori a disposizione.