Parlare di Eleonora Barbieri Masini equivale a parlare della singolare vicenda di una passione intellettuale, di una domanda di ricerca che si è tradotta in instancabile azione; di una vita dedicata alla costruzione di una disciplina. Si può parlare di lei, senza esagerazioni o retorica, in termini di beruf, nell’accezione weberiana del termine. Magda Cordell McHale la definì “la madre dei futures studies”, attribuendo alla sua energia e al suo entusiasmo buona parte del merito dell’esistenza della World Futures Studies Federation (Stevenson, 2006).
Eleonora Barbieri Masini, di madre scozzese, è nata in Guatemala: paese nel quale suo padre, ingegnere idraulico che non voleva aderire al fascismo, aveva preferito trasferirsi con la famiglia, accettando l’incarico di un progetto di bonifica per la Rockefeller Foundation; lì si era occupato di depurazione delle acque, pianificazioni di ospedali e campagne antimalariche. La famiglia tornò tuttavia in Italia nel 1933; la fine della Seconda guerra mondiale, il periodo della Ricostruzione precedente il boom economico, sono gli anni in cui si compie la formazione culturale della studiosa, che si laurea in diritto costituzionale, specializzandosi poi in diritto comparato e, successivamente, in sociologia. Intorno alla fine degli anni Sessanta Eleonora Barbieri Masini è all’Irades (Istituto Ricerche Applicate Documentazione e Studi), istituto cattolico fondato da don Pietro Pace (che ne è il segretario generale) e il cui presidente è Flaminio Piccoli, esponente della Democrazia Cristiana. Il compito che le viene affidato da don Pace è quello di impostare all’Istituto – che fino ad allora si era occupato esclusivamente dei temi della pastorale in Italia sotto un profilo sociologico – un centro di studi di previsione, il primo nel suo genere in Italia. Un’occasione ulteriore per comprendere cosa si stia facendo nel mondo riguardo i futuri le viene offerta dall’invito di Hidetoshi Kato a partecipare, nell’ottobre del 1970, al Meeting di Kyoto “Challenges from the Future”, in cui si riunisce per la seconda volta quella che di lì a poco, nel 1973, sarebbe divenuta la World Futures Studies Federation (WFSF).
Al suo ritorno avvia all’Irades un importante lavoro di documentazione, creando una biblioteca alla quale aggiunge libri e testi che le venivano inviati costantemente da tutto il mondo, «nella convinzione che una tale fonte di informazione sarebbe stata assai utile per i giovani che volessero occuparsi di questi studi», e avviò una serie di corsi con docenti quali Hugues De Jouvenel, figlio di Bertrand e più tardi direttore dell’organizzazione Futuribles a Parigi, Jacques Delors, John McHale, Yehezkel Dror (Barbieri Masini, 1998). Tra le iniziative dell’Irades, in questo irripetibile periodo di effervescenza culturale e creatività, va ricordato anche il convegno, tenuto in parte a Roma in parte a Frascati, “Bisogni umani, nuove società, tecnologie di supporto”, che si tenne nel settembre del 1973 e riunì tutta la comunità mondiale degli studiosi; per la prima volta, anche quelli di paesi in via di sviluppo, come Romesh Thapar dall’India e Madhi Elmandjra dal Marocco. Tra le personalità che supportarono con la loro esperienza l’Irades, vanno senz’altro ricordati anche Aurelio Peccei e Bruno de Finetti. A sua volta, Eleonora Barbieri Masini collaborerà ai convegni CIME promossi da de Finetti negli anni Settanta e collaborerà con Peccei, sicuramente tra le personalità che più profondamente segnarono il suo percorso intellettuale. Il loro primo incontro era avvenuto a Stoccolma, nel 1971, in occasione di un meeting del Consiglio Europeo per la Cultura (nel quale sono gli unici due italiani presenti); Peccei la inviterà a far parte del Club di Roma già dal 1975, anno in cui la studiosa viene anche eletta segretario generale della WFSF. Purtroppo, nello stesso anno iniziano i problemi dell’Irades, che fu chiuso – dopo un periodo di problemi economici, ma in realtà per ragioni a tutt’oggi non chiarite e probabilmente di ordine politico – tra il 1975 ed il 1976. Misteriosa oltremodo la sorte subita dalla biblioteca dell’Istituto, scomparsa da un giorno all’altro, forse mandata al macero, nonostante vi fossero state persistenti richieste, sia dalla Luiss che dalla Pontificia Università Gregoriana, di rilevarla. Fino al 1980, anno in cui fu nominato il nuovo segretario generale, Eleonora Barbieri Masini riuscì a gestire la WFSF, pur con questa ulteriore difficoltà. Al tempo stesso, ebbe modo di continuare la sua attività didattica e di ricerca; su invito di padre Pietro Beltrao Calderon, uno degli ispiratori della riflessione filosofica alla base dei futures studies (Beltrao Calderon, 1977), iniziò dal 1976 l’attività presso la Pontificia Università Gregoriana, presso la facoltà di Scienze Sociali. Al corso di previsione umana e sociale si aggiunse successivamente, nel 1991, quello di ecologia umana.
Considerando il suo contributo a livello internazionale, l’attività in organizzazioni come l’Università delle Nazioni Unite, l’Unesco, l’International Sociological Association, il Club di Roma, il WWF, la World Academy of Arts and Sciences, la stessa WFSF (di cui è stata, dopo la presidenza, chairperson dal 1990 al 1993), di certo non sono mancati i riconoscimenti al suo impegno non comune. Nella sua lunga – a tutt’oggi ininterrotta – esperienza, Eleonora Barbieri Masini non si è di fatto limitata alla riflessione teorica, ma ha pure applicato le sue conoscenze nella pratica della ricerca. Tra i progetti più importanti da lei coordinati vanno ricordati “Household, Gender, and Age” che diresse dal 1981 al 1991 nel contesto di un programma dell’Università delle Nazioni Unite, e il successivo programma Unesco “WIN (Women’s International Network), Emergency and Solidarity”, condotto dal 1995 al 2005, a confermare il suo impegno nel ribadire la centralità del ruolo della donna nel cambiamento sociale, in particolare nei paesi in via di sviluppo. Progetti che, nel loro altissimo livello, rendono appieno la densità del lavoro sul campo nei futures studies “in azione”; l’impatto che tali ricerche possono avere sugli ambiti sociali analizzati, su quello che, assai puntualmente, è stato definito contesto tempo-luogo-cultura (Campelli, 2004).
Strutturare una disciplina: il quadro teorico
Nel suo rappresentare il “raccordo” intellettuale, a livello mondiale, tra gli studiosi di futures studies, a Eleonora Barbieri Masini va riconosciuto l’indubbio merito di aver “messo ordine” all’interno di una disciplina che, prima del suo contributo, si presentava frammentata, sia nella sua struttura teorica che metodologica. Nelle sue opere, la più nota delle quali è Why Futures Studies? (Barbieri Masini, 1993), la studiosa si fa carico di individuare le basi epistemologiche, le figure filosofiche di riferimento, i modelli teorici alla base delle scelte da operarsi nella ricerca.
Per certo Eleonora Barbieri Masini riconosce il debito dei futures studies al classico filone del pensiero utopico, ma sottolinea al tempo stesso il contributo di intellettuali e scienziati sociali come Ossip Flechtheim (che coniò il termine futurologia, volendone fare una vera e propria scienza) il quale, a sua volta, faceva riferimento a studiosi come Harold D. Lasswell. Tra gli scienziati sociali americani cui i futures studies debbono molto in termini di apporto concettuale, Eleonora Barbieri Masini ricorda anche Robert K. Merton, per la fondamentale analisi sulle self-fulling e self-defeating prophecies (Merton, 1949), come pure sottolinea l’importanza degli studi sul mutamento sociale di William F. Ogburn (Ogburn, 1922). I futures studies prenderanno corpo in America come disciplina autonoma grazie a studiosi come Wendell Bell, teorico di spicco tra i molti che nel tempo andranno a costituire la rete che la stessa Eleonora Barbieri Masini contribuirà a creare e rinforzare; nell’ambito europeo, la studiosa sottolinea, in particolare, i contributi di Robert Jungk, Gaston Berger, Bertrand De Jouvenel, Johan Galtung.
Tuttavia, è nel pensiero di un teologo del XVI Secolo, la cui opera viene riscoperta nell’Ottocento, che Eleonora Barbieri Masini individua la prima, vera figura filosofica di riferimento, il fondamento epistemico dei futures studies. Si tratta del teologo e filosofo gesuita Luis de Molina, nato in Spagna nel 1535, attivo nelle università portoghesi di Coimbra ed Évora e successivamente, al suo ritorno in Spagna, in quella di Madrid. Il lavoro cui fa riferimento la riflessione di Masini è il saggio teologico di de Molina sul libero arbitrio, che egli inizia a scrivere nel 1563, intitolato De Liberi Arbitrii cum Gratiae Donis, Divina Praescientia, Providentia, Praedestinatione et Reprobatione Concordia (Concordia di seguito), opera controversa che a suo tempo scatenò una querelle teologica tra Gesuiti e Domenicani. La tesi di de Molina riguarda la libertà della volontà umana: l’uomo è agente attivo, libero di agire o di non agire. Al tempo stesso, Dio pre-conosce la libera volontà dell’uomo e la illumina con la Sua grazia. Nella tesi che de Molina esprime in Concordia, la salvezza dell’uomo, che Dio desidera, dipende comunque dalla volontà dell’uomo, dalla sua capacità di decidere il bene. Dio dà agli uomini tutti i possibili mezzi per la salvezza, sia pure non nella medesima misura: «Questo è ciò che viene chiamato “futuro contingente”, che è quindi legato alla prescienza di Dio, perché possiamo attribuire a Dio una certa conoscenza futura dei futuri contingenti senza compromettere la libertà umana» (Barbieri Masini, 2009).
Nella teorizzazione di de Molina, la Barbieri Masini trova dunque l’aggancio filosofico tra pensiero del futuro, azione umana diretta al futuro e questione etica: di fatto, la base teoretica dei futures studies. Ricordando la riflessione di Martinetti[1], è proprio nel pensiero di de Molina che si opera la distinzione tra l’infinita sapienza di Dio, in grado di conoscere il futuro degli uomini e i loro futuri contingenti (tali in quanto generati da situazioni contingenti), lasciando tuttavia Dio agli uomini la libertà di scegliere all’interno delle situazioni in cui verranno a trovarsi e che determineranno le loro scelte. C’è dunque un ulteriore, importante salto teorico in de Molina: quello che porta ai futura, al concetto di futuro al plurale, al ventaglio delle possibilità che, in base ai valori, vengono dall’uomo scelte o lasciate cadere. In de Molina, la conoscenza di Dio è infinita e riguarda tutte le alternative possibili; non lo è quella delle sue creature, che ignorano a volte le potenzialità che potrebbero condurle verso altre azioni e dunque a futuri differenti. Futuri che Dio conosce, senza tuttavia intervenire, lasciando all’uomo il libero arbitrio, nel bene e nel male.
Se nel pensiero di Luis de Molina viene individuata la base epistemica dei futures studies, Eleonora Barbieri Masini, in un lavoro di molti anni precedente, aveva peraltro cercato anche di tracciare le linee filosofiche che guidavano la pratica della ricerca negli studi di previsione. Nel contributo, la studiosa sottolinea come dietro la prevalenza di una base filosofica o di un’altra ci sia qualcosa di più che non una semplice speculazione teorica: ogni quadro rappresenta infatti le linee guida che suggeriranno di fatto le scelte tecniche e determineranno i pregi e i limiti della ricerca. A riguardo: «Se tutto ciò è assai importante per qualsiasi approccio scientifico, e in questo senso molto è stato fatto dalla filosofia della scienza, lo è ancora di più per lo studio sul futuro, che ha una così pressante incidenza sull’azione; purtroppo lo studio sul futuro ben poco ha fatto in questa direzione» (Barbieri Masini, in Marbach, 1980).
Sottolineando di tener conto, nello specifico, del pensiero occidentale, considerato peraltro non esaustivo, anzi auspicando che presto la disciplina giunga a elaborare metodi previsionali e approcci al futuro alternativi, sulla base della conoscenza delle filosofie orientali – forse in questo sentendo l’influenza di Eric Jantsch – Barbieri Masini parte dalla considerazione che storicamente, almeno fino a Hegel, le impostazioni storico-filosofiche rivolte al futuro sono state basate sul dogma religioso e tenta di individuare «i pensatori che hanno cercato di considerare il futuro dell’umanità come dipendente dalle azioni dell’uomo e come indipendente da influenze ad esso esterne, anche se questo non è così chiaramente possibile e anche se le influenze esterne appaiono indirettamente, nella ricerca di leggi che governano queste azioni» (Barbieri Masini, in Marbach, 1980).
In John Locke – e nello specifico del suo Saggio sull’intelletto umano del 1690 – Barbieri Masini individua dunque la base teoretica degli studiosi di futuro che basano le proprie analisi sull’estrapolazione da dati empirici. Per Locke infatti non esiste un modello aprioristico: una teoria è convalidata empiricamente sulla sola base dei risultati dell’osservazione. Nei modelli empirici «L’a priori è nei dati, i quali soli possono giustificare una teoria e non il contrario», ammettendo una ipotesi di probabilità, quella cui peraltro si rifanno «tutte le estrapolazioni di tendenze, sia pure nelle loro forme più sofisticate, come i modelli di rapporti casuali, le analogie storiche, la pianificazione contestuale, l’approccio morfologico ed in certa misura lo scenario e l’approccio aggregativi» (Barbieri Masini, in Marbach, 1980). A Leibniz e al suo principio di “ragion sufficiente”, principio per il quale nessuna enunciazione può ritenersi conforme a verità, se non c’è una ragione per la quale l’oggetto dell’enunciazione sia così e non altrimenti, sono da ricollegarsi, secondo la studiosa, tutti quegli approcci che tendono ad adeguare il dato al modello: «Il pensiero leibniziano può essere considerato come il modello di un sistema, “la ragion sufficiente” che regola il reale, infatti nessun dato grezzo del mondo può dare ad esso un senso o un confronto. Quindi, il “modello”, la “ragion sufficiente” è separato dai dati» (Barbieri Masini, in Marbach, 1980). Le linee leibniziane emergono dunque nei modelli globali, facendo riferimento innanzi tutto ai primi, sui quali si erano basati i rapporti del Club di Roma I limiti allo sviluppo (Meadows et al., 1972), come pure Strategie per sopravvivere (Mesarovic, Pestel, 1974). La studiosa considera, ad esempio, come nel concetto di sviluppo organico si possa cogliere proprio quella “ragion sufficiente” che fa vivere l’organismo, il pianeta stesso; l’uomo, facendo del male alla natura, crea una disarmonia dalla quale si evince la distanza dall’armonia, che è la legge naturale, ovvero, per Leibniz, la legge di Dio. Così pure le critiche ai modelli globali si basano su un approccio legato allo stesso principio:
Le critiche maggiori fatte a questi due modelli è di aver scelto alcune variabili ritenendone altre inesistenti o, peggio, statiche, come, ad esempio, quelle socio-politiche, con la scusante della difficoltà di reperire i dati, soprattutto nel riferimento al futuro. Tali critiche, e la giustificazione addotta, dimostrano sempre più l’indipendenza, la separazione dalla realtà da parte del modello che sottende, secondo noi, l’approccio ai modelli proprio come la “ragion sufficiente” sottende la possibile conoscenza della realtà nel pensiero di Leibniz. (Barbieri Masini, in Marbach, 1980)
Diverso l’approccio kantiano, per il quale l’uomo è semplicemente strumento del progresso, del quale è parte nella misura in cui opera razionalmente, e in cui la verità non è nel modello, come in Leibniz, e neppure nei dati, come per Locke, ma su un piano congiunto di questi due elementi, in cui teoria e dati sono imprescindibili. Il futuro, in questo specifico approccio, si va configurando in termini di diversità, di multidimensionalità; un approccio cui vanno anche ricollegati i modelli leibniziani, che in questo senso Barbieri Masini non definiva “puri”. Peraltro, alcuni multi-modelli di tipo kantiano – la studiosa fa in questo caso riferimento agli studi di technology assessment – possono anche essere letti dal punto di vista di una logica che tenda a sintetizzare una contrapposizione dialettica, dunque di tipo hegeliano. La visione conflittuale di Hegel è in effetti, secondo la studiosa, adatta a studi di previsione non particolarmente strutturati, che siano quanto più possibile aperti all’evidenza della contraddizione. Ad esempio, l’analisi di fasce sociali caratterizzate da diversi bisogni in contrapposizione. Modelli, insomma, in cui si evidenzi nelle intenzioni che la mediazione, la soluzione, sia qualcosa che l’uomo possa e debba cercare. Tra gli esempi relativi all’approccio hegeliano ai futures studies, viene citato un progetto dell’Onu diretto da Johan Galtung, Goals Processes and Indicators for Development.
Curiosamente, con una scelta a dir poco spiazzante, l’ultimo teorico di riferimento per i modelli di ricerca sui futuri non è uno dei grandi filosofi della tradizione europea: si tratta infatti del politologo contemporaneo J. David Singer, dell’Università del Michigan, tra i progettisti, negli anni Sessanta, del Correlates of War Project, forse la più importante banca dati sul tema della guerra. Il suo saggio The Global System and Its Sybsistems: A Developmental View (1969) è l’opera cui Eleonora Barbieri Masini fa riferimento per illustrare una impostazione specifica, in base alla quale il modello del sistema viene orientato agli obiettivi:
… in esso la verità del sistema è misurata rispetto alle sue capacità di orientarsi e di trovare mezzi diversi e alternativi per raggiungere i propri obiettivi e allo stesso tempo alle capacità di rintracciarne di nuovo per il futuro, emergenti dall’evolversi del sistema stesso nella sua dinamica di mezzi per raggiungere i primi. Tra questi gli obiettivi della sopravvivenza del sistema sono fondamentali. Per Singer non è possibile raggiungere una risposta definitiva, ma soltanto risposte specifiche e parziali. Inoltre nessun aspetto ha alcuna priorità fondamentale rispetto ad altri aspetti del sistema ed il pensiero singeriano ipotizza continuamente altre variabilità per una continua e costante migliore conoscenza del sistema stesso. Un aspetto importante di questo approccio è che l’osservatore è parte del sistema e deve essere preso nelle sue componenti psicologiche e sociologiche. (Barbieri Masini, in Marbach, 1980)
L’approccio sicuramente colpisce per il suo essere costantemente in una dinamica ricerca di un equilibrio tra tutti gli approcci precedenti, in una sorta di continua rinegoziazione di significati che tuttavia non è mai definitiva, mai certa, mai totale. Per Barbieri Masini questo modo di approntare il lavoro di previsione, nel suo coinvolgere il ricercatore (il “mondo vitale” del ricercatore, usando l’espressione di Schütz) rappresenta un punto di equilibrio tra opposti che vedono da una parte l’empirismo lockiano, dall’altra il mondo dei valori, gli aspetti etici, il contesto dei significati di cui il ricercatore è al tempo osservatore e parte vivente.
Strutturare una disciplina: i principi d’accordo
Nel lavoro di “strutturazione” disciplinare di Eleonora Barbieri Masini non poteva non avere una parte fondamentale la questione terminologica. Come ella osserva, contrariamente alle altre discipline, nell’ambito dei futures studies non esiste una terminologia universalmente accettata. Diverse le ragioni addotte per spiegare questo problema: la relativa giovinezza della disciplina, l’assenza di una teoria unica su cui fondarla, il fatto che la terminologia impiegata dipenda fortemente dal luogo e dal periodo di sviluppo (Barbieri Masini, 1993). Tuttavia, già nel 1986 l’Autrice aveva sottolineato come, nel corso degli ultimi anni, si fosse evidenziata la possibilità di individuare alcuni principali assi interpretativi: «Possiamo infatti individuare alcuni filoni di base dei termini, cosa che non avremmo potuto fare neanche dieci anni fa» (Barbieri Masini, 1986). A partire dunque dalla teorizzazione di John McHale, Eleonora Barbieri Masini indica con il concetto futures studies «una disciplina che include tutte le forme di esplorazione del futuro, dall’estrapolazione di tendenze (il metodo più semplice e utilizzato) all’utopia» (Barbieri Masini, 1993).
Un ulteriore e ben controverso elemento che Barbieri Masini ritiene necessario chiarire è proprio il significato del termine “previsione” in disciplina; termine complicato dal fatto che la sua traduzione nelle varie lingue non sia, come avviene di frequente, del tutto sovrapponibile nel significato. Si consideri, ad esempio, il termine inglese forecast: si può affermare che sia sovrapponibile con l’italiano previsione (Barbieri Masini, 1986), ma non lo è del tutto nell’accezione del termine francese prévision: quest’ultimo, pur presente in alcuni passaggi in De Jouvenel, non viene tuttavia utilizzato in senso tecnico dagli studiosi di futuri, in quanto in esso si sente troppo presente la “matrice teologica”, che sottende l’idea di una conoscenza “certa” dell’avvenire (Barbieri Masini, 1986; 1993); altro termine di solito non usato in disciplina per la forte carica deterministica (previsione su un evento ritenuto assolutamente certo) è l’inglese prediction. Riguardo al significato del termine forecast, Eleonora Barbieri Masini si rifà nuovamente a Eric Jantsch, che lo definisce come «un’affermazione probabilistica, relativamente scientifica sulle scelte e le conseguenze di problemi collegati al futuro» (Barbieri Masini, 1993). Forecasting è dunque l’azione legata ad una logica probabilistica di tipo what…if, che è peraltro centrale nella riflessione di alcuni studiosi italiani di cultura statistica, tra i quali Giorgio Marbach (Marbach, 1987; Rizzi, 1987; Marbach, Mazziotta, Rizzi, 1991). Tale impostazione logica rappresenta uno snodo teorico tutt’altro che banale, poiché intorno a tale elemento probabilistico si gioca molto del perché i futures studies siano o no “scientifici”; un tema problematico, sul quale si tornerà successivamente.
Molto importante è poi il termine prospective, che si ritrova nella riflessione teorica di Gaston Berger a partire dagli anni Cinquanta e che viene successivamente ripreso da Michel Godet (Godet, 1979), a rappresentare un modo diverso di affrontare i futuri, anche rispetto al forecasting. Relativamente alla prospective, Eleonora Barbieri Masini osserva che «può essere descritta come emergente dall’influenza deterministica del passato e del presente, da un lato, e dalla scelte, dalla volontà e dall’azione del presente dall’altro», considerando il termine più appropriato per coloro «che guardano al futuro in termini di cambiamento» (Barbieri Masini, 1993). La prospective sembra in effetti essere il concetto-termine che Barbieri Masini ritiene il più fecondo nei futures studies, che tuttavia comprendono in sé una vasta gamma di approcci, che possono essere concepiti in un’ottica di tipo descrittivo oppure dal punto di vista normativo. È in quest’ultima accezione che lo studioso si vede coinvolto sul piano della responsabilità, in quanto interviene, in un’ottica di futuro, sul contesto sociale del presente. Anche in questo caso, è Jantsch il teorico di riferimento di tale distinzione:
Le previsioni esploratorie (ed esplorative), orientate secondo Erich Jantsch alle opportunità, si basano sul passato e sul presente e ci permettono di visualizzare il futuro. Questo approccio riguarda un gruppo di metodi di cui la proiezione fa parte. D’altro canto, sempre secondo Eric Jantsch, le previsioni normative sono orientate alla missione. Partono da ciò che è necessario per raggiungere gli scopi e gli obiettivi del futuro, e lavorano a ritroso. Possono guidare le scelte e le azioni nel presente, a condizione che le variabili in esame si sviluppino allo stesso ritmo e nella stessa direzione nel corso del tempo. (Barbieri Masini, 1993)
Entrambi gli approcci, dunque, sono indiscutibilmente legati a quanto si conosce del passato e del presente, e quindi all’importanza della correttezza delle fonti, della qualità dei dati a disposizione. La proiezione di tali conoscenze nel futuro è tuttavia portatrice di una ulteriore complicazione, della quale Barbieri Masini sottolinea la fecondità teorica, vale a dire la distinzione, posta da De Jouvenel, tra futuri possibili, probabili, plausibili e desiderabili. All’interno dell’insieme dei futuri possibili (le alternative che possono avvenire), sulla base di un crescente grado di probabilità si individua, per primo, l’insieme dei futuri probabili (quelli che potrebbero verisimilmente verificarsi); tra questi, a loro volta, si possono poi distinguere i futuri plausibili, vale a dire l’insieme di quelli che hanno la più alta probabilità di verificarsi. Un diverso discorso meritano invece i futuri desiderabili, che per De Jouvenel sono lontani dall’appartenere pur anche ai probabili: ma la tensione, di carattere utopico, ad “avvicinare” il desiderabile al probabile è, probabilmente, proprio ciò che spinge l’uomo a studiare l’avvenire (De Jouvenel, 1964). Barbieri Masini sottolinea come proprio in questa tensione Olaf Helmer, uno dei padri del metodo Delphi, individui in De Jouvenel e nella teorizzazione dei futures desirables un elemento di tipo normativo, in quanto tende a costituirsi come proposta d’azione.
Al di là dei diversi punti di vista presenti nei futures studies, la studiosa ritiene tuttavia di individuare degli elementi di consenso tra gli studiosi, che ritiene di poter definire dei veri e propri princìpi. Il primo di essi è fortemente legato proprio al rapporto tra possibile e auspicabile descritto in De Jouvenel: vale a dire, il riconoscere, da parte di tutti i cultori della disciplina, la presenza di un costante dilemma tra conoscenza e paura, o, al contrario, tra conoscenza e desiderio. Oltre a De Jouvenel e al suo conflitto tra desiderabile e possibile, descrivendo i fondamenti epistemici del primo principio l’Autrice si richiama anche alla teorizzazione di Fred Polak, eclettico pensatore e politico olandese, tra i padri dei futures studies, citando in particolare la sua opera più famosa, che tratta della quasi inevitabile contraddizione, della stridente convivenza tra il presente e l’immagine di futuro che si ha (Polak, 1973). Il terzo autore di riferimento è l’indiano Ashis Nandy, teorico caratterizzato, come Polak, da un grande intelletto eclettico. In particolare, Barbieri Masini riprende il tema la sua riflessione sull’utopia, che si sviluppa, per grandi linee, lungo due distinte traiettorie (Nandy, 1987). La prima è quella della intrinseca incapacità dell’utopia a dialogare, impossibilità che nasce a sua volta dalla incapacità dell’utopia di essere autocritica, così come di accettare le critiche dall’esterno. In tal modo, per l’utopia diviene impossibile liberarsi dalle costrizioni che essa stessa s’impone. Il secondo filone della riflessione di Nandy è quello del controverso rapporto tra utopia e storia: le sole utopie conosciute sono, in effetti, quelle legate a particolari momenti storici (linked to history, nell’originale); per Nandy dovrebbe essere solo in parte così, dal momento che un’utopia muore, o perde la sua forza propositiva, nel momento che viene legata indissolubilmente (tied nel testo) alla storia.
Il secondo principio, cui si è accennato in precedenza, è la condivisa convinzione che il futuro sia l’unico spazio su cui gli esseri umani possono avere un’influenza: si tratta, per l’appunto, del principio degli spazi futuri, che si richiama in particolare a quella spinta all’intervento tipica della prospective di Gaston Berger (Berger, 1967) e della successiva riflessione che ne fa Michel Godet (Godet, 1979), come pure alcuni autori dell’America Latina, in particolare Concheiro (Concheiro, 1984).
Il terzo principio universalmente riconosciuto dalla comunità è quello della pluralità del futuro: non esiste un solo futuro, ma molti possibili futuri ed è legato ad una visione democratica del futuro, spazio che appartiene a tutti, anche e soprattutto ai posteri e quindi non deve essere colonizzato, in nome di alcun principio o credo. Il futuro si configura dunque qui nella sua vocazione plurale, multiculturale, polifonica: «Molte persone pensano a un futuro identico per tutti, sia in termini ideologici che religiosi. È importante che il futuro sia visto come una serie di possibili alternative. Futuri, non futuro» (Barbieri Masini, 1993). In questo senso, pur nella suggestiva e vivida bellezza del concetto di futures, che rimanda a un’idea di pace e di tolleranza che è pressoché impossibile non condividere, è al tempo stesso forse evidente la carica problematica che vi è sottesa. Tra le caratteristiche fondanti della disciplina, l’Autrice dà uno spazio alla normatività dei futures studies. I futuri, dunque la loro costruzione prospettiva, sono imprescindibilmente value loaded. Da questo legame con i valori, sorge la necessità di trovare un equilibrio tra la realizzazione dei futuri nell’ottica del desiderabile – come si è già accennato, per De Jouvenel i futures désirables non sono quasi certamente realizzabili, ma proprio per questo si configurano come tensione al domani, tra utopia e speranza – e necessità di scegliere, azione pratica.
Di certo non può non percepirsi una, almeno apparente, contraddizione (a mio avviso forse il nodo più difficilmente districabile nella disciplina), che nasce dalla difficoltà di far convivere due istanze di segno opposto. Da una parte c’è il desiderio condiviso di esaltare le pluralità, la polifonia dei futuri, lasciando quindi, almeno in linea di principio, a ogni alternativa la possibilità di far sentire la sua voce; al tempo stesso i futures studies cercano, come è nello spirito della prospective, di intervenire sul presente al fine di realizzare i futuri. Senz’altro, la disciplina stessa insiste molto sul fatto che la prospective non vada confusa con la pianificazione, che è considerata una forma di colonizzazione del futuro, in quanto monodirezionale e dirigista nella sua concezione (Concheiro, 1984). Centrale è, chiaramente, il tema del consenso, che è poi alla base della partecipazione, altra caratteristica fondamentale dei futures studies. Tuttavia, a mio vedere, il consenso, se pure su un piano pragmatico può essere considerato parte essenziale della soluzione, sul piano analitico rappresenta una ulteriore complicazione dal punto di vista etico, soprattutto se lo si analizzi sotto il profilo della sua costruzione. Il raggiungimento del consenso può rivelarsi, quantomeno potenzialmente, a sua volta un’operazione tutt’altro che indolore e non può che operare comunque sul sistema valoriale. Qualsiasi scelta, se si escluda il caso limite dell’unanimità, dell’accordo incondizionato di tutti su un progetto, su una visione o quant’altro riguardi la collettività, comporta, di necessità, che si lascino cadere le alternative. D’altronde, la possibilità di realizzare tutti i futuri – in teoria, l’unico modo di realizzare un ideale consenso assoluto – è, a mio vedere, probabilmente perfino più utopica dell’utopia classica, che mira alla realizzazione di un ideale unico. Il dilemma può, forse, anche consistere nella coscienza della difficoltà di trovare un equilibrio tra l’operare scelte sull’unico contesto temporale aperto all’azione, cioè il futuro (in base al secondo principio) e, sapendo che non si tratta comunque di un futuro unico (in base al terzo principio), lasciare aperto il maggior numero di possibilità. D’altronde, sul tema della necessità di una coesistenza dei valori, di una coesistenza delle immagini di futuro, Eleonora Barbieri Masini si esprime in modo categorico:
La complessità delle alternative è legata anche all’esistenza di valori diversi alla base di culture diverse e alla conseguente esistenza di visioni del mondo diverse. Questo è un punto importante da tenere a mente, sia nell’accettazione di essere parte di una cultura e di un insieme di valori (che dovrebbero essere chiaramente visibili a chiunque legga o utilizzi i futures studies), sia nel riconoscimento del fatto che noi siamo solo una delle visioni del futuro, che il futuro può essere considerato realmente aperto. (Barbieri Masini, 1993)
Negli studi di previsione, dunque, confluiscono elementi di denso spessore teorico a caratterizzare la disciplina nel suo impianto e che rappresentano, a mio parere, uno stimolo intellettuale di estrema forza, soprattutto per le scienze a essi “contigue”, in particolare la sociologia. Se nei tre principi poc’anzi descritti Eleonora Barbieri Masini individua il modo comune di rapportarsi ai futuri, cioè all’oggetto della ricerca, da parte della comunità degli studiosi, è però la stessa disciplina a dover essere a sua volta “delineata”. Nel tracciarne i confini, essa individua nella transdisciplinarità (unitamente alla multidimensionalità) nella complessità, nella globalità, nella normatività, nella scientificità, nella dinamicità e nella partecipatività le caratteristiche basilari dei futures studies; elementi, non necessariamente pertinenti alla sola disciplina, che però ne costituiscono insieme la struttura portante.
La transdisciplinarità: la quasi-utopia metodologica dei futures studies
Nel conciso trattato di Eleonora Barbieri Masini la transdisciplinarità è la prima caratteristica di base dei futures studies a essere descritta. Si tratta, infatti, di un concetto che ha a che vedere con il modo di guardare all’oggetto della ricerca e dunque di impostare, a monte, la ricerca empirica. È un modo di guardare all’oggetto richiesto dall’oggetto stesso, che è, di fatto, l’immagine di futuro, avendo come base un mutamento sociale sempre più veloce, caratterizzato da una sempre più complessa interrelazione delle sue componenti. L’istanza della transdisciplinarità nasce, dunque, dalla impossibilità di analizzare il mutamento, men che mai elaborare ipotesi sui futuri, utilizzando il punto di vista di una singola disciplina:
Con l’evolversi della società, la conoscenza diventa più sofisticata e anche i valori condivisi possono cambiare. Ciò spiega perché andare oltre una disciplina significa anche andare oltre una cultura specifica. Spiega anche la difficoltà dell’interdisciplinarietà, della multidisciplinarietà e, a maggior ragione, della transdisciplinarietà. Andare oltre una disciplina, e oltre una cultura, significa affrontare l’incertezza e persino l’ignoranza. (Barbieri Masini, 2000)
C’è senz’altro una sostanziale differenza tra multidisciplinarità, interdisciplinarità e transdisciplinarità, concetti che si debbono leggere in termini di crescente interazione e scambio. La difficoltà di una definizione trova la sua soluzione, a parere della studiosa, proprio impostando il problema in termini empirici: se la multidisciplinarità lascia isolate le componenti disciplinari che intervengono ad analizzare un problema e l’interdisciplinarità le mette a contatto, creando una relazione, uno scambio di assunzioni e vedute, la transdisciplinarità è volta a far sì che un problema sia affrontato, dalla sua individuazione alla sua risoluzione, e quindi a partire da una comune base concettuale, da più scienze insieme:
Non solo abbiamo bisogno di approcci differenti e discipline differenti per analizzare lo stesso problema, ma anche queste stesse discipline devono offrire i loro approcci, i loro presupposti e i loro metodi in uno sforzo comune di scambio (cosa non facile) che va al di là di un contributo in parallelo. Questo sta già accadendo nei futures studies, almeno per quanto riguarda gli strumenti metodologici; nei modelli globali, matematica, sociologia e statistica si uniscono in uno sforzo per comprendere i complessi problemi del futuro. (Barbieri Masini, 1993)
Senz’altro, i confini tra le materie scientifiche (o a carattere scientifico come i futures studies) sono più o meno spessi, diversamente strutturati; tuttavia il tentativo di superarli è, a parere dell’Autrice, possibile, pur nella sua difficoltà. Difficoltà peraltro amplificata dalla continua frammentazione delle discipline al loro stesso interno. Proprio nel lavoro empirico Barbieri Masini identifica la possibilità di uscire dall’impasse disciplinare riguardo ai futuri. In questo approccio le diverse discipline non si trovano più nella consueta condizione di lavorare in parallelo e con un basso livello di scambio – qualora si trovino nelle condizioni di lavorare insieme. Nella diversa ottica da lei prospettata, si offrono invece «reciprocamente assunti di base, teorie e metodi. Non si tratta di utopia, in quanto nella previsione la matematica per esempio offre alla sociologia i suoi metodi e nascono così i modelli globali… la psicologia offre i suoi principi e i suoi metodi alla matematica e alla sociologia e nasce così il metodo Delphi… la statistica e la sociologia insieme offrono i loro assunti e i loro dati alle analisi operative e nascono così gli scenari» (Barbieri Masini, 1986).
La comunità degli studiosi di futures studies è, chiaramente, concorde con l’approccio, nel tempo arricchendo il concetto di transdisciplinarità sottolineandone gli elementi di multidimensionalità, come fa per primo Yehezkel Dror negli anni Settanta, o, per citare un testo famoso, Alvin Toffler nel suo best-seller The Third Wave (Toffler, 1980). Il concetto di multidisciplinarità sarà, peraltro, sempre più importante all’interno della comunità, al punto che, nella più recente edizione francese del suo trattato, Eleonora Barbieri Masini, a riguardo, parlerà in termini di “transdisciplinarietà e multidimensionalità” unendo i due concetti in una caratteristica unica. Tuttavia, non si può certamente affermare che l’approccio transdisciplinare non abbia trovato resistenze all’interno della comunità scientifica tout-court: di questo, la studiosa non fa alcun mistero. Questa la sua testimonianza a riguardo:
Negli anni Ottanta partecipai a un vasto programma di ricerca sulle tematiche dello sviluppo, che coinvolse molte persone ad alto livello di studio provenienti da diverse parti del mondo. I dibattiti furono stimolanti e arricchirono tutti i partecipanti. Ciò che mancava era la volontà di lavorare in modo transdisciplinare, o l’umiltà di trovare un insieme comune di principi di base che potessero essere seguiti da metodi di analisi gradualmente accettati da tutti. Ogni partecipante era molto forte nella propria disciplina, sicuro della propria posizione e della propria visione del mondo e, di conseguenza, non era disposto a trovare un punto di partenza comune. (Barbieri Masini, 2000)
Un peccato, perché la transdisciplinarità, con tutte le difficoltà di accordo e raccordo concettuale e metodologico che comporta, è un elemento estremamente fecondo sul piano non solo della ricerca in se stessa, ma culturale tout court. Per questo ne ho parlato in termini di una quasi-utopia: si fa strumento, infatti, nelle sue difficoltà teoriche e tecniche, di un grande e di un piccolo (forse è più corretto dire: meno grande) sogno. Il primo è quello di farsi strumento di una riunificazione della conoscenza, nel senso inteso da Prigogine (Prigogine, Stengers, 1981); il secondo, di meno ampia portata ma non meno importante, nasce dalla speranza di influenzare, attraverso il costante lavoro di mediazione tra discipline, la comunità scientifica nei termini di apertura all’altro, al diverso, a nuove forme di conoscenza, modificandone nella sostanza i rapporti di potere.
La complessità: i limiti di un concetto affascinante
Il tema della complessità è strettamente legato al concetto di transdisciplinarità appena esplorato. Eleonora Barbieri Masini sottolinea come, nei futures studies, l’approccio transdisciplinare sia infatti quello ritenuto più adeguato all’analisi della complessità, che diviene dunque anch’essa una caratteristica dei futures studies, in quanto peculiare al suo oggetto di ricerca. Può stupire che l’Autrice non dia, di fatto, una definizione esplicita di cosa si intenda per “complessità” nella disciplina: è un peccato, considerando che una precisazione in questo senso avrebbe forse finalmente fatto della chiarezza su uno dei concetti più controversi diffusi nella comunità scientifica. D’altronde il problema del concetto di complessità, il suo essere “affascinante” nell’accezione che ho in precedenza esplicitato, è a mio avviso questo: di essere immediatamente comprensibile, apparentemente chiaro. Tuttavia, se lo si voglia spiegare, sottoponendolo al vaglio di un diverso piano intellettuale di conoscenza, cercando dunque di tradurlo in elementi scientificamente fondati, inserendolo in un quadro teorico possibilmente univoco, la chiarezza scompare, per sostituirsi a una pluralità di possibili interpretazioni. D’altro canto, nella pluralità dei nuovi significati si perde quel senso che, a un diverso livello interpretativo, si “sentiva” di avere. Se in questo risiede il fascino della complessità, in questo va tuttavia constatato il limite per un suo miglior utilizzo concettuale sul piano scientifico.
Tuttavia, in questo caso, è possibile comunque evincere cosa Eleonora Barbieri Masini intenda con il termine, rifacendosi essa esplicitamente al modo e all’utilizzo condiviso nella sua comunità di appartenenza. Nello specifico dei futures studies, come teorico di riferimento la studiosa cita infatti Charles West Churchman, filosofo e studioso dei sistemi all’Università di Berkeley. In particolare, viene fatto uno specifico riferimento a una sua opera del 1971, The Design of Enquiring Systems: Basic Concepts of Systems and Organization, nella quale egli afferma che comunque si faccia una previsione e qualsiasi sia l’area di interesse, vada considerato l’intero sistema. Emerge dunque da qui una definizione di complessità, che si richiama al “tutto” come espressione complessiva, globale, delle sue dinamiche interne. D’altro canto, non si può dimenticare come lo stesso approccio di Aurelio Peccei, altro autore di riferimento per Barbieri Masini, sia peculiarmente caratterizzato da una visione “complessa” nel senso appena accennato. La problematica mondiale di Peccei è di fatto una concezione dinamica della realtà, basata su numerosi meccanismi di interazione tra agenti (si tratta, in effetti, di interazione tra sistemi: quello umano, quello ambientale e quello delle risorse considerate singolarmente); in base ad essa sarà elaborato il sistema sviluppato dal MIT, dal quale scaturiranno le catastrofiche previsioni di The Limits to Growth. Una ulteriore conferma di questa specifica accezione del termine viene da Prevedere un nuovo secolo (Barbieri Masini, 2005) che la studiosa compila per l’Enciclopedia Europea, all’interno del volume Scenari del Ventunesimo Secolo. Proprio a proposito dei modelli sviluppati dal gruppo di Jay Forrester al MIT infatti afferma:
I metodi sistemici sono nati dalla necessità di affrontare i problemi mondiali nella loro complessità e dinamicità e, in questa prima fase, sono stati chiamati modelli globali. Presto però i previsori si sono resi conto della difficoltà di comprendere la complessità del mondo e la dinamicità esistente in ogni settore, e quindi della necessità di analizzare molte variabili che neppure le tecnologie più sofisticate e i metodi matematici più avanzati potevano gestire. (Barbieri Masini, 2005)
Sul tema delle possibilità e limiti dei modelli globali, Eleonora Barbieri Masini aveva d’altro canto già espresso fin dagli anni Settanta la sua visione, nel contesto dei convegni del CIME organizzati da Bruno de Finetti. In questo ambito, le sue considerazioni sulla necessità conoscitiva alla base della sperimentazione di sistemi globali riprendono senz’altro le idee di Aurelio Peccei; idee poste, tuttavia, al vaglio critico della sua formazione sociologica. L’analisi dei sistemi nasce, a suo parere, come tentativo di dare una risposta all’impossibilità, per le singole discipline, di analizzare realtà interconnesse e interrelate, in cui motivazioni di tipo psicologico e sociale (ignorate d’altronde anche nel modello di Forrester e Meadows) entrano in gioco accanto a elementi tecnici, politici, o legati alle scienze “dure”. Peraltro, l’accentuarsi della dimensione globale dei problemi (non più circoscritti a singole realtà territoriali), come pure l’accelerazione dei ritmi del mutamento, elementi che trovano l’uomo e le sue strutture impreparati a recepirne gli effetti, rendono sempre di più, a parere della Barbieri Masini, necessari gli studi previsionali:
Ciò che è carente, anzi pericolosamente assente da un lato, è l’elasticità psicologica dell’uomo, dall’altro l’adattabilità delle strutture. È infatti necessario creare una prospettiva anticipatoria o previsionale se si vuole affrontare i problemi complessi sia per quanto riguarda il ruolo del singolo, sia o no scienziato, che per quanto riguarda le strutture sociali. Da tutto ciò deriva una difficoltà di decisione quindi una difficoltà di scelta politica che necessariamente è ricollegabile ad una difficoltà di valutazione etica come possibilità di indicazione di scelta politica. In questo quadro generale si collocano i modello globali quali tentativi di affrontare la nuova situazione intesa come complesso di problemi che si sono andati creando. (Barbieri Masini in de Finetti, 1976)
Tuttavia, la studiosa è ben conscia delle difficoltà che i modelli presentano a vari livelli, a partire dalla loro stessa concettualizzazione, evidenziando uno dei vari snodi problematici che accomunano i futures studies alla sociologia: «Il sistema globale può essere rappresentato da un modello e proprio in questa affermazione incominciano le difficoltà, in quanto il modello globale non può essere rappresentato dall’esterno ed ogni sua descrizione implica un coinvolgimento ideologico, sociale e professionale al quale risponde l’autore o il punto di vista da cui è costituito il modello» (Barbieri Masini in de Finetti, 1976). Tra le altre difficoltà vengono annoverate quelle tecniche, come pure quelle legate ai vari approcci conoscitivi. Sulla base degli scopi per cui i modelli vengono elaborati, essi vengono distinti in descrittivi (di breve, medio e lungo periodo), di avvertimento, che considerano l’evoluzione di un sistema nell’ipotesi di un non intervento sulla sua dinamica, e prescrittivi, che invece introducono ipotesi di mutamento sull’andamento del sistema, fornendo in tal modo indicazioni a carattere normativo. Non mi soffermo tuttavia su questi aspetti, dal momento che i modelli globali, sia qualitativi che quantitativi (utilizzando una terminologia estremamente semplificata) non sono più molto usati; semmai, si utilizzano e si elaborano a tutt’oggi modelli di simulazione a livello micro o “di medio raggio”, meno ambiziosi ma forse proprio per questo più efficaci.
Quello che invece resta ancora oggi di assoluto interesse nell’approccio che Barbieri Masini esplicita ai Corsi del CIME è il tema della difficoltà in termini umani di sviluppare un modello, o comunque di riprodurre in qualche modo la complessità (nei termini che a questo punto dovrebbero essere chiari). Nelle parole della studiosa:
a noi sembra che c’è ancora una via che non è stata abbastanza considerata dagli scienziati che è quella della educazione delle capacità umane ad utilizzare tutte le possibilità della mente e, ancora oltre, dell’intuizione, per una comprensione più completa della complessità. Si tratta dell’uso della creatività primaria e secondaria (così chiamate dagli psicologi della terza generazione) e soprattutto della prima, le quali completano il pensiero logico analitico ed orientato all’esperienza. Queste capacità dovrebbero essere messe in uso perché l’uomo possa più facilmente affrontare la realtà nel suo complesso. Tali capacità educate potrebbero aiutare colui che deve impostare un modello globale, colui che lo deve interpretare, colui che lo deve usare per la sua azione, a cogliere la diversità in mutamento e ad avvicinarsi alla realtà (nel senso filosofico). (Barbieri Masini in de Finetti, 1976).
Dunque un suggerimento di tornare all’uomo, alle sue potenzialità, per consentirgli di migliorarle, permettendogli di utilizzare al meglio gli strumenti che egli stesso crea. Questo messaggio, a mio parere, è alla base della di previsione umana e sociale (Barbieri Masini, 1986), l’ambito di studi di Barbieri Masini in cui mi sembra che di più si fondano elementi sociologici, psicologici e della previsione tout-court: previsione “umana” proprio in quanto torna a focalizzare la sua attenzione sull’uomo, sul singolo attore sociale, percepito come fondamentale portatore di futuro.
Se questi sono gli elementi di debolezza definibili a livello macro, la studiosa ne coglie altri al livello delle scelte operate nel costruire il modello stesso. Anche in questo caso, le analogie con il lavoro sociologico sono fortissime. In particolare nota che
l’omissione di elementi sullo stato o sulla evoluzione del sistema sociale, e di sistema sociale si occupano i modelli globali, corrisponde a sostenere la conservazione dello stato e della struttura degli elementi omessi ed inoltre l’influenza sulle parti restanti del sistema viene ad essere cristallizzata, in un dato momento storico… Si può quindi dire cha alle ipotesi esplicite si aggiungono ipotesi implicite relative alla stabilità di alcune parti del sistema. A parte questo concetto che a noi sembra fondamentale, la grande difficoltà della scelta degli indicatori, intesi nelle scienze sociali come ricerca di ciò che è «osservabile» quindi «manifesto» a tal punto da essere utilizzato per indicare una dimensione latente, è una difficoltà ben nota nella metodologia delle scienze sociali e che, quando si arriva a livelli così ampi come quelli globali diviene sempre più complessa. (Barbieri Masini in de Finetti, 1976).
Se la ricerca sociologica è tentativo di ordinare ad un livello più ampio l’«infinità priva di senso» di weberiana memoria, allora cogliere la complessità, tentare di riprodurre la complessità, equivale, a mio avviso, a centuplicare la difficoltà già sottesa al lavoro sociologico. Nelle parole di Barbieri Masini mi sembra di ravvisare un avvertimento, a livello deontologico, per il previsore che si avvalga di modelli. Vale a dire, come l’elaborazione di un modello di previsione comporti il sensibile rischio (rischio peraltro presente, in varia misura, in qualsiasi tipo di analisi del sociale), di risentire, più che in altri casi, dell’orientamento valoriale – o ideologico – di chi lo costruisca. Anche in questo senso mi sembra si possa dare una ulteriore lettura del legame, che l’Autrice percepisce come “forte”, tra il concetto di complessità e quello di incertezza. Quest’ultima è infatti legata ai fattori che entrano in gioco nella complessità: «Più il problema è complesso, maggiore è il livello di incertezza; più sono necessarie variabili per descrivere un problema, maggiore è livello di incertezza; più il futuro di un problema è deterministico, meno incerto diventa; più possibilità ha il futuro di un problema, maggiore è il livello di incertezza» (Barbieri Masini, 1993).
La scientificità: il nervo scoperto dei futures studies
Come la stessa Eleonora Barbieri Masini sottolinea, si tratta della caratteristica più controversa dei futures studies: la comunità è per lo più concorde, in effetti, nell’affermare che non si tratti di una scienza, quantomeno intesa nel senso tradizionale del termine: «Scientifico è, come ben si sa, ciò che è sperimentato e ripetibile, quindi prevedibile. Non si può parlare così in termini di futuro, in quanto il futuro è il non ancora accaduto e non è quindi ripetibile e tanto meno può essere verificabile» (Barbieri Masini, 1986). Di fatto, sotto questo profilo, i futures studies sono, in termini inappellabili, fuori del consesso scientifico. In cosa, dunque, può consistere la scientificità della disciplina? La verificabilità delle ipotesi previsive è, di fatto, possibile solamente ex post facto; per quanto riguarda la sperimentazione, si entra senz’altro in un ambito quasi-sperimentale, peraltro caratteristico delle scienze sociali, che, pur nel suo essere pratica della ricerca rivolta ai futuri, è svolto, ovviamente, nel presente.
Il lavoro dei futures studies non può prescindere dall’analisi del presente, se non anche del passato – e questo anche al di là di un approccio puramente estrapolativo alla previsione. Si può dunque ipotizzare come proprio in questi due elementi identificati, vale a dire la verificabilità ex post e, soprattutto, la possibilità del controllo delle operazioni nel percorso di ricerca nel presente, si recupera la scientificità dei futures studies. Rimane infatti, senza ombra di dubbio, un legame con il metodo, pur nella specificità dello spostamento temporale dell’oggetto. Eleonora Barbieri Masini, trattando di alcuni autori particolarmente sensibili al tema nell’ambito disciplinare, evidenzia gli elementi sui quali è stata particolarmente posta l’attenzione. Clive Simmonds, per esempio, in The Nature of Future Problems (1977) evidenzia la necessità di una definizione corretta delle strutture di un problema, al fine di garantire un approccio scientifico alla successiva fase analitica. Yezkel Dror (1974) sposta il discorso ancora più a monte della ricerca: parla infatti di un approccio umano, che caratterizza i futures studies, differente rispetto all’approccio clinico tipico delle scienze. Pur non negando la bontà dei risultati degli studi di previsione, ne sottolinea la limitatezza in tal senso. Olaf Helmer (in Helmer e Rescher, 1964) imposta la sua discussione sul piano di una distinzione tra scienze esatte e scienze inesatte. Barbieri Masini sceglie di dare rilievo al testo del 1964 e al contributo di Helmer in particolare.
Va tuttavia ricordato che la riflessione di Helmer e Rescher (Isernia, 1987) inizia nel 1960, con il saggio On the Epistemology of the Inexact Science (Helmer, Rescher, 1960). Per Helmer, il criterio discriminatorio è rappresentato dalla possibilità delle scienze di disporre di formalizzazioni matematiche. Tuttavia, egli sostiene, a ragione, che si tratta di una demarcazione non netta, dal momento che nelle scienze sociali, perfino nella storiografia, esistono usi della formalizzazione matematica, mentre talora nella fisica, come in alcuni rami dell’ingegneria applicata, si riscontrano evidenti analogie con le scienze “inesatte”. L’approccio di Helmer è tuttavia, a mio avviso, troppo legato a una visione tradizionale della scienza, alla convinzione che una scienza, per dichiararsi tale, debba disporre necessariamente di leggi deterministiche (e non anche di asserzioni con alto grado di probabilità). Una visione, la sua, dichiaratamente legata al tradizionale approccio nomologico-deduttivo della received view, caratterizzata da un approccio hard alla spiegazione, che, a parere di Helmer, solo garantisce la simmetria tra spiegazione e previsione; tuttavia, su tale simmetria anche Hempel rivide, nel corso del tempo e degli infiniti dibattiti, almeno in parte, la sua posizione iniziale (Hempel, 1965). Faccio peraltro questa considerazione: le scienze sociali, che pure dispongono di formalizzazioni matematiche, non fanno per lo più riferimento a leggi in senso proprio, ovvero deterministiche: né la formalizzazione può essere sussunta a legge, dal momento che dietro una formalizzazione c’è un piano teorico. Dunque l’argomentazione di Helmer (analista tra gli sviluppatori di Delphi presso la Rand Corporation) presenta, a mio parere, più di una debolezza. La conclusione sulla scientificità della previsione finisce, quasi inevitabilmente, per ricadere su un piano tecnico: una buona previsione, non potendosi avvalere del metodo scientifico in senso stretto, deve poggiare sul parere degli esperti: Delphi, appunto. Non va peraltro dimenticata la notissima posizione radicale di Bertrand De Jouvenel, il quale, come ricorda anche Eleonora Barbieri Masini (Barbieri Masini, 1993), nella sua opera più nota (De Jouvenel, 1964) assimila la previsione a un’arte, piuttosto che ad una scienza.
L’aspetto più problematico riguardo la scientificità dei futures studies si ritrova piuttosto nella profonda convinzione, coltivata da Eleonora Barbieri Masini, che i futures studies possano operare fattivamente per cambiare le cose in una direzione desiderabile, o quantomeno contribuire alla creazione delle premesse di un cambiamento positivo nel tessuto sociale. Essa ha dimostrato, in tutta la sua lunga carriera, come la sociologia, se densamente fondata sia su un piano umanistico che metodologico, possa giungere a operare reali mutamenti nel tessuto sociale.
Su questo piano, il lavoro sociologico nei futures studies si differenzia anche rispetto al “tradizionale” lavoro sociologico sul campo, per il diverso accento sul rapporto tra i modelli teorici dell’esistente e la creazione (anche sulla base dei modelli dell’esistente) di nuovi modelli. Il contesto socioculturale in cui lo studioso opera è senz’altro fondamentale. In esso si profonde tutta la gamma delle competenze sociologiche, dal momento che il mutamento può operarsi tanto a livello macro – come nello studio del modo per creare possibili nuove strutture sociali, o comunque di modificare le esistenti – che micro – attraverso il tentativo, ad esempio, di ottenere i risultati desiderati modificando i comportamenti all’interno delle relazioni interpersonali, siano esse familiari, o del piccolo gruppo. La differenza sembra stare, in effetti, nel più accentuato interesse verso l’elemento progettuale: neppure la sociologia “classica” si può dire si fermi, d’altronde, alla ricerca e definizione di modelli dell’esistente. Questi entrano, di necessità, in gioco nelle fasi di ricerca successive, in quella continua riflessione evolutiva che è alla base della conoscenza sociologica tout court, in un processo, che si potrebbe definire cibernetico (Tonini, 1969; Bateson, 1972; Morin, 1999), di continuo riadattamento degli strumenti e delle conoscenze in campo. Nei futures studies tuttavia si accentua, come è d’altronde nel carattere della disciplina, la tensione alle implicazioni e conseguenze future, l’apertura alle possibilità, quello che personalmente amo chiamare “l’esercizio della visione”. Un lavoro estremamente complesso, in cui la creatività – e l’utopia in particolar modo – giocano un ruolo non indifferente nella creazione del mutamento. Un aspetto va inoltre particolarmente sottolineato, poiché fondamentale nel contesto: il mutamento, anzi, i possibili mutamenti, devono essere operati sulla base del consenso sugli obiettivi, come pure sui mezzi, in un approccio non direttivo, ma partecipativo, in quell’ottica democratica già identificata nel discorso dell’optimum definettiano (de Finetti, 1931). Un discorso, questo, la cui fecondità metodologica, oltre che l’impegno umano e civile che comporta, non può non chiamare in causa la comunità sociologica nel suo complesso. Esso implica, di necessità, la riflessione sul senso del lavoro sociologico nella pluralità delle società nel mondo; ma si tratta, in questo caso, di una riflessione positiva. I futures studies – e l’esempio di Eleonora Barbieri Masini – stanno a dimostrare che il sociologo, con le sue competenze, può avere un ruolo importante e costruttivo nel mondo. Sarebbe bello poter parlare, in tal senso, di una sociologia dei futuri.
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Note
[1] Piero Martinetti, del quale la Barbieri Masini cita l’opera La libertà (1928) fu un filosofo che si occupò molto intensamente di temi religiosi: negli anni Trenta del secolo scorso alcuni dei suoi libri furono, tra l’altro, messi all’indice dalla Chiesa Cattolica. Fu uno degli undici docenti universitari che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al Fascismo, perdendo così la cattedra di Filosofia Teoretica all’Università di Milano.