Nuove sintesi di vecchi paradigmi
L’antropologo Robert Geraci apre il suo testo Apocalyptic AI sulla sempre più vasta diffusione all’interno degli ambienti della Computer Science dei movimenti della così detta AI Apocalypticism[1] (Geraci, 2012) mettendola in relazione con l’ansia, come definita da Freud nel Disagio della civiltà. Le tre ragioni dell’ansia rilevate dal padre della psicanalisi nel celebre testo del 1930 sono: in primo luogo, l’inevitabile dissoluzione del nostro corpo; in secondo luogo, il confronto con il mondo esterno, sempre al di là del nostro controllo; e, infine, i vincoli e le relazioni che ci legano agli altri individui (Geraci sostituisce il termine “individui” con “esseri”). La ripresa della prospettiva freudiana dell’ansia, anche semplicemente come esempio, è tuttavia significativa per comprendere la differenza tra l’approccio transumanista e quello che potremmo definire simpoietico che ci si appresta a esaminare.
La psicanalisi freudiana è strettamente legata alle scienze della natura, e in particolare all’evoluzionismo come concepito nel suo tempo. Il mondo scientifico di riferimento è un mondo di sistemi chiusi, in perenne conflitto reciproco, dove la fitness di un organismo, e dell’umanità come cuspide dell’organico, si definisce in virtù della sua capacità di dominare e assoggettare gli altri come lo stesso ambiente. Non a caso, nella prospettiva di Freud, il locus del Naturale, nella dicotomia Natura/Cultura, è spesso associato al concetto di regressione, di ritorno a una condizione istintuale che la cultura e la forza addomesticante della civiltà hanno invece il compito di ingabbiare e, in ultimo luogo, quasi in una prospettiva religiosa, redimere.
Il transumanesimo, alcova dei movimenti apocalittici sopramenzionati, come osservato, tra gli altri, dalla filosofa Rosi Braidotti, si assesta su una prospettiva molto vicina a questa posizione. Esso considera la morte e la fragilità individuale come segni di debolezza, come “bug da fixare” (Braidotti, 2019) e la carne come una prigione che vincola e limita le possibilità di una coscienza che, costantemente, cerca di trascendere i suoi limiti. Lo stesso concetto della coscienza come insieme di dati uploadabili riconduce questo fenomeno ad un’entità reificata, proprietà essenziale, e nucleo identitario di un determinato individuo.
Il transumanesimo, dunque, rappresenta un exemplum efficace di una prospettiva che integra in chiave futurista gli antichi pregiudizi che concernevano tanto l’evoluzionismo quanto la scienza, tanto da potersi considerare un vero e proprio erede del mito umanista che animava l’afflato scientifico della rivoluzione ottocentesca. Il concetto di coscienza da loro applicato riprende, consciamente o meno, la nozione di agente autonomo e individuale che ha costituito a lungo l’unità operativa della biologia, a sua volta specchio dello sviluppo del mito del cittadino autonomo della modernità agli albori della società capitalista.
Allo stesso modo il rapporto con una tecnologia che sempre di più pervade la chiusura di questa immagine identitaria risulta segnato dall’ambivalenza che da un lato la identifica come lo strumento tramite il quale l’essere umano, nella competizione universale dell’esistenza, ha acquisito e mantiene il suo ruolo di “campione dell’evoluzione”; ma dall’altro, non può che proiettare su di essa la stessa ansia emersa dalla natura nel momento in cui questa stessa tecnologia minaccia di divenire sempre più autonoma, acquisisce sempre di più l’aspetto di un altro essere vivente, non più strumento ma pericoloso competitore nella lotta per la vita.
Nelle prospettive dell’AI Apocalypticism, dunque, la tecnologia, viene a definirsi come una macchina da escatologia cui delegare l’apocalisse, la redenzione e la salvezza (Braidotti, 2019). In questa prospettiva, la vacillante dicotomia corpo-coscienza viene fermamente ribadita nell’auspicio che la tecnologia acquisisca la capacità di dare consistenza tangibile al sogno religioso dell’immortalità dell’anima individuale. La natura ritorna ad assumere il ruolo tradizionalmente assegnatale nelle narrative antropocentriche: un ambiente da dominare e trascendere, dal quale distinguersi al fine di poterla redimere e “aggiustare”. La scienza si fa quindi araldo di questa escatologia religiosa e mantiene la configurazione ottocentesca di metodo e strumento per governare e trasformare la natura per i nostri scopi, per affermare la superiorità e la sopravvivenza dell’umano.
Cecità sistemica
Già negli anni Sessanta, tuttavia, l’antropologo e pioniere della prima cibernetica Gregory Bateson aveva messo in guardia da approcci simili, fondati, a suo parere, su una pericolosa cecità sistemica (Bateson, 1977). Nella prospettiva dell’antropologo, questa cecità si manifesta in due forme: la prima è inerente al risicare la percezione della coscienza alle sole facoltà appetitive, a quelli che sono solitamente definiti i goal seeking behaviours,senza rendersi conto che non esiste coscienza che non sia radicalmente e funzionalmente integrata e dipendente dall’intero ecosistema, tanto sociale quanto biochimico, nel quale è incarnata. La seconda, corollario della prima ed emblema del dibattuto tema dell’Antropocene, sta nel fatto che, contrariamente a molti organismi che, nelle generazioni successive, modificano la propria fisiologia in relazione all’ambiente, l’essere umano si è adattato fino ad ora modificando l’ambiente per favorire se stesso e i suoi simbionti prediligendo, tuttavia, un pericoloso approccio monoculturale. Secondo Bateson, la presunzione di ignorare gli intricati circuiti informazionali che legano strettamente la coscienza ai più vasti ecosistemi nei quali è integrata, dunque di ritenere di essere in grado di deliberare quale sia questo presunto “vantaggio” evolutivo da perseguire nella modificazione dell’ecosistema, rappresenta una delle più gravi minacce che la coscienza – quella Umana, troppo umana, per usare le parole di Nietzsche e non necessariamente quella digitale – rappresenta tanto per l’essere umano quanto per le infinite altre specie, relegate a perdenti nella corsa del dominio, con cui condividiamo le precarie sorti del pianeta.
Contro la monocultura della coscienza individuale, che viene spesso paragonata a «campi di grano geneticamente uniformi» (Bateson, 1977), la fede e persino la superstizione, con la sua variabilità, adattabilità e proprio a partire dal lasciare a un sistema più grande il “compito” di scolpire la nostra interiorità e non viceversa, può «salvare la nostra specie dall’obsolescenza» e, soprattutto, «fornire un certo grado di resilienza, simile alla varietà genetica di una popolazione selvatica» (Bateson, 1977). A questo proposito Bateson invoca la religione – «le parti migliori della religione» – come uno dei modi per riuscire a mettere la retromarcia a questo processo in fuga, ritornare a concepire la mente come un sottosistema in constante dialogo con più grandi aggregati. Non un’individualità ma una Ecologia della mente. E di passi verso questa ecologia, nel corso degli ultimi anni, ne sono stati fatti molti. A partire da questo spunto, si esaminerà una seconda prospettiva attraverso cui osservare il possibile rapporto tra tecnologia, natura, coscienza e fede. Una prospettiva che ha come obiettivo quello di staccarsi quanto più radicalmente possibile dalle farraginose eredità del mito umanista per aprirsi verso un orizzonte contemporaneamente più avventuroso e più antico, che sia in grado di ridefinire tutti gli elementi coinvolti all’interno di un più vasto processo di integrazione e metamorfosi.
Aperture radicali
Come si è osservato, le angosce che animano le escatologie dell’AI Apocalypticism emergono da una prospettiva che oppone ancora strenuamente l’individuo e la sua coscienza, tesoro da preservare nel Valhalla computazionale, all’ambiente e al corpo, inteso come ostacolo conquistato dalla coscienza. Anche nelle prospettive più “panteistiche” di questo filone di pensiero, come i revival di Teilhard de Chardin, che ritraducono il suo punto omega nella variante aggiornata della singolarità digitale, la coscienza conquistatrice dell’inorganico ed il processo su cui essa si istanzia ed espande, rimangono inesorabilmente divisi nella dicotomia Attività/Passività (Roszak, 1994).
Questa prospettiva emerge, come già rilevato, dalla retorica tramite la quale la rivoluzione scientifica, di pari passo alla rivoluzione industriale, ha conquistato il suo posto di ideologia dominante nel passaggio tra la società moderna e quella contemporanea. Unità di riferimento di questa prospettiva è l’individuo, impegnato nella stessa competizione senza tregua che caratterizza la “legge” dell’evoluzione. Poiché il mito scientifico ha definito la sua ascesa e la sua cacciata delle altre divinità con l’egida dell’oggettività dei fatti e delle osservazioni, a lungo questa ideologia è rimasta indiscussa, proprio perché ogni sua possibile alternativa veniva vista come un ritorno a una prospettiva religiosa e consolatrice (cfr. Clarke, 2019).
Tuttavia, l’adagio per cui la scienza procede un funerale alla volta ha mostrato come anche questa visione radicalmente riduzionista della natura e degli esseri che la abitano, sulla quale la scienza ha eretto la sua ascesa, non poteva sfuggire alla pira che attende tutte le cose, come tutte le idee. Una delle protagoniste di questo cambiamento di paradigma è stata, senza dubbio, la microbiologa Lyn Margulis, pioniera, insieme al chimico James Lovelock, di un modello radicalmente diverso di intendere tanto la biologia quanto le dinamiche che sorreggono la vita sul pianeta. Nei suoi violenti strali, Margulis lamenta di come i biologi, accecati dal mito del riduzionismo della vita biologica al mondo meccanico dell’inorganico che ha caratterizzato l’adesione al modello scientifico dal XIX secolo in avanti, abbiano a lungo ignorato l’esistenza di un modello autopoietico della vita che si oppone radicalmente all’idea di un universo meccanico conoscibile da un osservatore oggettivo. L’altra rivoluzione nel mito scientifico portata da Margulis è stata quella di mostrare la pregiudizievole parzialità del modello della competizione per l’esistenza.
All’interno dei sistemi naturali come nelle alterne vicende della vita umana, la competizione e la lotta sono certamente degli elementi essenziali – “Polemos di tutte le cose è padre e re”,osservava Eraclito – ma, come ben sapeva lo stesso efesio: più forte dell’armonia manifesta è quella invisibile. Ed è stata proprio la tecnologia a mostrare quanto, indagando a fondo i più minuti penetrali della natura con lenti sempre più vaste, una fittissima rete di complesse relazioni interorganiche costituisse la vera base germinante della vita organica. Non più singoli organismi, ma complessi aggregati in perenne, simbiotica ridefinizione.
Nella visione radicale del Microcosmo di Margulis, la stessa evoluzione non si presenta più come un processo verticale, teleologicamente atto al perfezionamento o alla sopravvivenza, ma come uno sviluppo omeostatico e ricorsivo orizzontale. In un certo senso, la più affascinante caratteristica di questa nuova visione sta proprio in una radicale ridefinizione della vita in una prospettiva più aperta, non più interessata alle individualità organismiche o specifiche, e tanto strettamente correlata ai processi fisico-chimici che costituiscono il mondo dell’inorganico – tanto geologico quanto tecnologico – da non permettere più delle radicali distinzioni (Clarke, 2019).
Simpoiesi
Le origini di quella che, dopo molte esitazioni nate appunto dalla preoccupazione di ribadire la scientificità del concetto e non confonderla con una nuova religione New Age, è stata definita “Gaia Theory” trovano una delle loro prime sistematizzazioni nell’opera del geochimico russo Vladimir Verdandskij, che, a partire dagli anni Trenta del secolo scorso, aveva lavorato sull’idea che la massa biologica presente sul pianeta, il biota o biosfera, si caratterizzasse come una vera e propria prosecuzione naturale della litosfera, un processo naturale e integrante fondamentale per il perdurare dell’omeostasi del pianeta come lo conosciamo (Verdandskij, 2022) In questa prospettiva, lo stesso Antropocene non va considerato, nel bene e nel male, una “responsabilità” dell’essere umano in quanto la stessa umanità non può considerarsi come entità distinta dal complesso sistema, radicalmente aperto, del biota.
Nella prospettiva di Verdandskij la stessa Noosfera, condizione di possibilità necessaria dell’antropocene, la sfera dello scambio informazionale umano, galvanizzata e interconnessa in maniera sempre più radicale a partire dalla diffusione della telecomunicazione e dei trasporti durante la seconda rivoluzione industriale, emerge e ricade nei processi integranti che conformano la biosfera. È importante osservare come in questo senso tutti gli organismi, compresi gli esseri umani, sono l’esatto riflesso dell’ambiente con il quale si sviluppano e modificano. E la storia della vita naturale, ricca di estinzioni di massa e catastrofi globali, insegna che molto spesso, esattamente come gli esseri umani, l’espansione e il dominio di una specie hanno come unica finalità quella di lasciare il passo a nuove forme di vita.
A partire da queste suggestioni, George Dyson nel suo Darwin Among the Machines (Dyson, 2012), osserva come il concetto di evoluzione e di coscienza, preso in questa prospettiva sistemica, non inerisca più all’umanità, alla natura o alle macchine come elementi contrapposti o distinguibili, ma vada considerata come un continuum integrante di trasformazione congiunta degli ecosistemi e degli individui che li abitano. La vita evolve dai processi chimici del carbonio e si espande ai circuiti in silicio senza soluzione di continuità. E, d’altra parte, in una delle sue posizioni più provocatorie, la stessa Margulis sosteneva che i processi ingegneristici umani sono solamente un epifenomeno evolutivo dell’ingegneria reciproca che anima fin dalla radice quel vasto genoma collettivo che è la vita procariote (Margulis, 1989). Se domani gli esseri umani si estinguessero, osserva Margulis, probabilmente, per vie diverse o simili, altre creature – la sua scommessa erano i procioni – avrebbero raggiunto le stesse capacità e, probabilmente, come nella sporificazione di una grande pianta cosmica, avrebbero comunque iniziato la grande corsa verso gli spazi sempre più ampi del cosmo da cui gli stessi elementi che compongono il pianeta e la vita che lo abita, provengono (Margulis, 1989).
D’altra parte, nella sua visione radicale, noi stessi non saremmo che vascelli, astronavi, con le quali il biota si evolve e si sposta e la stessa coscienza, intesa come fenomeno emergente, come qualità relazionale, non appartiene all’umano, all’animale o alla macchina, non è più una proprietà contesa da salvaguardare e difendere come un marchio di status, ma un continuum che congiunge e propaga questi elementi come gocce di un singolo fiume.
Donna Haraway, riprendendo il concetto gaiano di Margulis, insieme al suo memento di tenere a mente quanto la fissazione sulla competizione nel processo evolutivo sia solo una faccia della medaglia, propone di compiere un ulteriore passo, ovvero quello di superare il concetto di autopoiesi che ha caratterizzato tutta la prima formulazione delle teorie dei sistemi complessi per muovere verso un concetto di simpoiesi, un fare e farsi insieme, una visione che si sposa molto bene con le prospettive postumaniste e femministe del materialismo e dell’immanenza radicale (Haraway, 2018).
Un’idea radicalmente aperta che non vede nei vincoli e nell’apertura verso l’alterità naturale un patogeno da sterilizzare ma una compagnia simbiotica con la quale, nella divertente espressione di Donna Haraway, “mondeggiare in compagnia”(Haraway, 2018), dunque reciprocamente costituirsi all’interno della vasta rete di processi che formano la rete dell’esistenza sistemica del pianeta.
Un nuovo animismo
Come osservato da Theodore Roszak (2001), molti modelli sopra elencati sembrano aprire nuovamente la scienza a una dimensione che richiama, forse più che il linguaggio religioso tradizionale, concetti più simili alle concezioni magiche rinascimentali o alle mistiche buddhiste o Sufi. In entrambi i casi il fulcro del discorso è quello di uno spostamento prospettico che sia capace di dare preminenza all’integrazione del sistema culturale e coscienziale umano con i processi biologici, geologici e cosmologici che sono all’inizio e alla fine del suo percorso. Come i culti sciamanici emergono dalla profonda conoscenza delle nicchie ecologiche all’interno delle quali le culture umane si sono sviluppate, così il nuovo animismo ecologico emerge dalle stesse scoperte che stanno ristrutturando l’impalcatura concettuale della scienza. E d’altra parte, ricorda l’autore, la stessa opposizione tra scienza e religione nasce, a partire dall’illuminismo, come battaglia politica molto prima che metafisica (Rosaz, 2001). Per Bruno Latour, la stessa credenza in un cosmo casuale e assolutamente privo di mente o scopo, come il mito della presunta oggettività dell’osservazione scientifica, che sottintende la possibilità di osservare un sistema nel quale si è integrati “dall’esterno” pur se non concernenti un Dio, rientrano a tutti gli effetti nella sfera dei concetti e delle credenze religiose.
Inoltre, lo stesso afflato mitico, se non mistico, che anima il senso della scoperta e dell’appartenere a una più vasta comunità, di molti divulgatori scientifici antichi e moderni, non è meramente un vezzo di forma o l’eredità di un certo classicismo ma, al contrario, un modo di sentirsi empaticamente parte di una più vasta comunità che si comprende e trascende all’interno di un universo da comprendere ed esplorare, comprese queste caratteristiche classicamente pertinenti ai sistemi religiosi. Come gli organismi, così anche i sistemi di pensiero, intuitivi come deduttivi, scientifici come spirituali, sembrano essere destinati a scoprirsi più simili e profondamente integrati di quanto precedentemente non si pensasse. Una branca multidisciplinare in particolare, radicata nelle scienze cognitive, sta cercando di ricongiungere la frattura tra questi due modelli del “sentire” e del comprendere l’essere umano. È significativo che il nome stesso di questa disciplina, ovvero “neuroteologia”, sia stato suggerito da un personaggio perfettamente liminale tra questi due campi del sapere: Aldous Huxley, che nel suo L’isola (1962) la citava tra altre, ipotetiche, scienze del futuro.
Questa branca multidisciplinare si sviluppa come evoluzione spirituale di un’avventura intellettuale del biostrutturalismo, ideato negli anni Settanta dall’antropologo evoluzionista Eugene d’Aquili (1974). Nella prospettiva di d’Aquili, l’unico modo di indagare proficuamente fenomeni scientificamente elusivi come la religione e il sacro è quello di indagarne le specifiche evolutive. La sua idea è dunque quella di indagare le strutture cognitive sulle quali poggiano i correlati fisiologici della religione, osservando il funzionamento del cervello durante le esperienze religiose, come la preghiera o la meditazione profonda, per cercarne degli antecedenti nella biologia degli altri mammiferi. Nonostante ancora oggi ci siano delle difficoltà pratiche molto rilevanti nel definire le esatte correlazioni tra gli stati neurali e i loro rispettivi mentali e percettivi, gli avanzamenti tecnologici nel campo del neuroimaging, e in particolare il perfezionamento della SPECT[2], hanno consentito di definire alcuni elementi strutturali rilevanti che consentono di porre alcuni pilastri essenziali in questa direzione, che sembrano peraltro in armonia con alcune delle intuizioni dell’“animismo sistemico” precedentemente delineato.
Per l’attuale discussione se ne terranno in considerazione principalmente tre: l’evoluzione della ritualità a partire dai riti d’accoppiamento animale, l’importanza all’interno dei processi identitari dei fenomeni di trascendenza e dissoluzione dell’ego e la relazione tra gli elementi prosociali della religione e il fenomeno biologico del transkin altruism, che ha caratterizzato uno degli adattamenti più particolari dell’essere umano.
Evolvere Dio
Nonostante le numerose difficoltà, la storia evolutiva della religione sembra avere degli antecedenti piuttosto chiari e strettamente correlati tra loro. Già in Biogenetic Structuralism d’Aquili propone che uno dei suoi elementi fondanti, la ritualità, è strettamente correlata con i Mating Rituals che si trovano disseminati in quasi tutte le specie del regno animale (d’Aquili, 1974). I rituali d’accoppiamento, che già avevano profondamente affascinato nella loro creatività Darwin e Lorentz, possono profondamente variare di specie in specie ma si possono inquadrare in una serie di elementi comuni. Il primo tra questi è la creazione di pattern ridondanti riconoscibili dagli esponenti della stessa specie o dello stesso gruppo. Nel regno animale possono essere di vario tipo, sequenze di movimenti, richiami o vere e proprie danze. Queste segnalazioni possono essere anche molto elaborate, poiché devono evitare di poter essere imitate da predatori e dunque richiedono spesso un grandissimo impegno da parte degli individui in quanto il loro eventuale fallimento porterebbe alla morte e all’incapacità di trovare un partner. Inoltre, da un punto di vista fisiologico, vi è una caratteristica comune ai rituali animali ed umani, ovvero quella di attivare in maniera alternata e armonica i due rami del sistema nervoso autonomo: quello simpatico, legato alle funzioni di Arousal, solitamente legato attivato in situazioni di emergenza come la flight-or-fight response con conseguente aumento del battito cardiaco, bronco-dilatazione e tutti i meccanismi di risposta necessari a preparare un organismo all’azione immediata; e quello parasimpatico che, al contrario, ha solitamente l’effetto opposto di placare questi effetti (Newberg, 2018).
I medesimi processi di attivazione alternata dei due rami del sistema nervoso sono altrettanto visibili nei rituali di accoppiamento umani con una affascinante implicazione: il divenire uno con l’altro, che sia nell’accoppiamento o nello stormo o nel gruppo, la sincronizzazione di movimenti e percezioni, può essere estesa anche ad alterità astratte, “trascendentali” o sopraindividuali come una divinità o una patria o una congregazione. Significativa in questa prospettiva la grande duttilità delle abilità associative dell’essere umano. Questo elemento si collega strettamente alle altre due caratteristiche distintive della religione come elaborate dalla neuroteologia, entrambe legate al concetto di trascendenza individuale. La prima di esse emerge come logica conseguenza della capacità di estendere questi pattern comportamentali al di là dell’originaria funzione prettamente copulativa e, secondo alcuni studiosi di religioni come Philip Hefner, caratterizzerebbe la religione come uno dei nuclei essenziali che definiscono l’essere umano, ovvero lo sviluppo di quello che viene definito Transkin Altruism (d’Aquili, 1994). A un primo sguardo, in effetti, questo fenomeno appare come un controsenso evolutivo, una sospensione della selezione naturale. Non sembra infatti possibile che risulti adattativo un comportamento che porta l’individuo a trascurare se stesso[3] o il suo gruppo familiare, dunque, potenzialmente, a rinunciare alla propagazione del proprio corredo genetico in via diretta o mediata tramite selezione parentale in favore di altri membri del suo gruppo. La tentazione dinanzi a questo apparente enigma, osserva d’Aquili, rischia di essere quella di utilizzarlo per riproporre il mito di una qualche grazia speciale dell’essere umano, in particolare quando, come Hefner, si proponga un modello che non indaga le possibili ragioni biologiche di questa presunta eccezionalità. Tuttavia, questo apparente paradosso, ad una più approfondita analisi, si rivela assai meno eccezionale di quanto non appaia. Secondo d’Aquili, in primo luogo, bisogna mettere in relazione il transkin altruism con i processi cognitivi legati alle forme più astratte di problem solving, una delle caratteristiche più adattative e peculiari della nostra mente che concerne, tra le altre abilità, la capacità di formare categorie astratte e mettere in relazione queste categorie ed i loro elementi concettuali in catene di correlazioni causali (d’Aquili, 1994).
A loro volta, queste abilità sono lo specchio cognitivo dell’evoluzione di particolari strutture celebrali, quali la corteccia prefrontale ed il lobulo inferiore parietale che, come si vedrà a breve, è uno degli elementi essenziali della neurologia delle esperienze religiose. Un punto essenziale di questo argomento, inoltre, è che la mitopoiesi ed il pensiero mitico evolvano senza soluzione di continuità dai processi di ragionamento empirico. Queste strutture di problem solving, una volta sviluppate, costituiscono un vero e proprio imperativo cognitivo atto a cercare la causa delle sequenze di eventi interni o esterni indipendentemente dal fatto che questa causa sia inferibile attraverso il sensorium. Laddove questa causa non sia direttamente inferibile, essa sarà cercata in agenti invisibili come dei e demoni. Inoltre, ricollegandoci al precedente tema dei rituali d’accoppiamento, un altro degli effetti di questo imperativo cognitivo è quello di organizzare gli oggetti della percezione in categorie e classi, una delle più importanti delle quali è: “il nostro gruppo”. In questo senso, osserva d’Aquili, le complesse segnalazioni che fungono da marchi di riconoscimento nei riti di corteggiamento, nell’essere umano, possono venire astratti e utilizzati per constatare l’appartenenza ad uno stesso gruppo costituito dal condividere uno stesso mito, incarnato in delle stesse pratiche rituali. Inoltre, in un processo di rinforzo circolare, i riti favoriscono l’insorgere di stati di coscienza alterati, che a loro volta inducono i partecipanti a disperdersi, a sentirsi uno, con la comunità e l’ecosistema di appartenenza.
In questo senso, si può comprendere come il transkin altruism, a sua volta, favorisca l’estensione della comunità al di là della stretta koinè biologica favorendo drasticamente lo sviluppo pro-sociale sia individuale sia comunitario in quanto gli appartenenti al “gruppo mitico” (d’Aquili, 1994) vengono percepiti tanto strettamente quanto i membri del proprio gruppo familiare. Il punto da sottolineare, ancora una volta, è che tutti questi fenomeni emergono dagli stessi processi sui quali si istanziano le comunità nazionali e le comunità scientifiche, poiché, nella prospettiva neuroteologica, con “miti” si intende semplicemente la concatenazione in forma coerente e narrativa di una serie di inferenze sulle cause e le origini del cosmo, della comunità e degli individui in essi compresi (Newberg, 2018).
Conclusioni: tirando le somme sulla trascendenza
A fare da ponte tra questi elementi e le concezioni sistemiche riportate in precedenza, c’è il concetto ricorrente della trascendenza individuale. L’analisi tomografica dei momenti apicali degli stati meditativi profondi ha mostrato come la sensazione tradizionalmente descritta come il senso di unità con entità più grandi, siano esse ecosistemi, divinità o comunità, che nella recente fenomenologia degli stati alterati di coscienza ha preso il nome di Biophilia (Irvine et. al, 2023), sia strettamente correlata con la riduzione dell’afflusso sanguigno alle zone che ineriscono il lobulo parietale posteriore superiore o OAA[4], responsabile principalmente per il calcolo ed il calibro della nostra posizione e dei nostri confini all’interno dello spazio, una sorta di vaglio costante dei confini esatti del nostro Io rispetto al Non-Io del mondo (Newberg, 2018). È importante osservare che le caratteristiche dell’esperienza della Biophilia sono sì particolari, nel senso di indotte da sostanze enterogene o da pratiche fisiche, ma non per questo patologiche.
Le intuizioni mistiche derivate da queste esperienze sono tradizionalmente note dagli albori dell’umanità, tuttavia solo di recente che si è iniziato a prestare attenzione al loro valore scientifico. Il cervello, osserva infatti Newberg – delfino di d’Aquili e principale portavoce del progetto neuroteologico – a partire dalle informazioni ricavate dal sensorium crea essenzialmente delle mappe della realtà. Sapere che queste non sono attendibili ha delle gravissime implicazioni sulla propria auto-percezione. Configurandosi la narrazione di miti – religiosi o meno – come uno strumento essenziale fin dall’infanzia allo sviluppo delle capacità mnemoniche e dei processi di inferenza euristica sullo “stato delle cose”, un cambio di fede, così come un cambio di paradigma all’interno della comunità scientifica, avrebbe delle fortissime implicazioni.
Nella prospettiva in cui creare queste mappe della realtà costituisce un imperativo cognitivo necessario al coping dell’ansia ontologica, vale a dire la pressione adattativa ad avere un’idea su cosa stia accadendo intorno a noi, la percezione che queste siano errate porta l’amigdala ad attivare le risposte dello stress per sollecitarci a trovarne delle altre corrette. Spesso, tuttavia, per la legge di conservazione dell’energia, queste si riducono a un rinforzo e un’estremizzazione del sistema di credenze originario (Newberg, 2018). Il decorso di questo processo dipende dal senso di unità e trascendenza che esse ci aiutano a percepire. Se la percezione è tale da unirci a una ristretta fascia di individui avrà, probabilmente, come effetto, quello di un forte antagonismo e rifiuto verso l’opinione esterna. Se, tuttavia, si estende la filia ad astrazioni quali l’intera umanità – processo legato, come si è visto, al transkin altruism – o, nella sfida delle nuove ecologie, all’intero biota, allora, si è osservato, i risultati sono quelli di ottenere quella pacatezza e tranquillità d’animo tradizionalmente associata alla saggezza e alla santità (Newberg, 2018).
In questo senso, considerata l’evoluzione come una ricollocazione dell’essere umano dalla sua short history culturale alla deep history ecosistemica del pianeta o dell’universo, l’utilità della neuroteologia all’interno del framework dell’ecologia della mente può e deve essere considerata come un essenziale strumento di relazione e comprensione del mondo. L’idea di religione che emerga da questi discorsi potrà forse apparire differente da quella tradizionale e, d’altra parte, ancora oggi, vista la natura profondamente elusiva del fenomeno, è complesso trovarne una definizione adeguata. Rispetto a questa difficoltà, l’obiettivo di questo contributo e della stessa neuroteologia non è quello di delineare una qualche forma di religione finale adatta ai crismi della società scientifica, quanto piuttosto quello di iniziare a organizzare un approccio sistemico che sia capace di aprire un dialogo proficuo e aperto tra due modelli epistemologici vicendevolmente essenziali per affrontare la grandiosa tragedia dell’esistenza.
Riferimenti
- Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1977.
- Clarke B., Gaian Systems: Lynn Margulis, Neocybernetics, and the End of the Anthropocene, University of Minnesota Press, Minneapolis, 2020.
- d’Aquili E.G., The Summa Hefneriana: Myth, Megamyth and Metamyth, “Zygon. Journal of Religion and Science”, vol. 29, 1994.
- Dyson G., Darwin among the Machines: The Evolution of Global Intelligence, Basic Books, New York, 2012.
- Geraci R.M., Apocalyptic AI: Visions Of Heaven In Robotics, Artificial Intelligence, And Virtual Reality, Oxford University Press, Oxford, 2012.
- Haraway D., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2018.
- Irvine A., Luke D., Harrild F., Gandy S., Watts R., Transpersonal Ecodelia: Surveying Psychedelically Induced Biophilia, “Psychoactives”, n. 2, 2023, pp. 174–193.
- Laughlin C.D., d’Aquili E.G., Biogenetic Structuralism, Columbia University Press, New York, 1974.
- Margulis L., Sagan D., Mircocosmo. Dagli organismi primordiali all’uomo: un’evoluzione di quattro miliardi di anni, Mondadori, Milano, 1989.
- Newberg A., Neurotheology: How Science Can Enlighten Us About Spirituality, Columbia University Press, New York, 2018.
- Roszak T., Voice of the Earth: An Exploration of Ecopsychology,Red Wheel / Weiser, Newburyport, 2001.
- Vernadskij V., Dalla biosfera alla noosfera. Pensieri filosofici di un naturalista, Mimesis, Milano-Udine, 2022.
Note
[1] Un culto si definisce Apocalittico quando è fondato su tre elementi principali: Un forte stato di alienazione sociale, la delega ad un potere superiore di sovvertire questa condizione e l’attesa del passaggio, attraverso la distruzione dello stato di cose attuale, verso un futuro splendente. Lo stesso cristianesimo, prima di essere cooptato all’interno delle maglie politiche dell’imperialismo romano, si costituiva come una complessa e variegata compagine di culti apocalittici dai temi comuni.
[2] Single Emission Computed Tomography.
[3] Il caso preso in analisi da d’Aquili è quello del “sacrificio per una causa”, di cui tragici esempi moderni e non, possono essere le crociate o la Jihad.
[4] Orientation-Association Area.