Editoriale di apertura del n. 8 di FUTURI, Governare il progresso (Acquista)
L’idea di “progresso” è tema di accesi dibattiti nella nostra società post-moderna. Lo storico delle idee Christopher Lasch apriva la sua opera più celebre e molto critica Il paradiso in terra (1992, recentemente riproposta in libreria) con una domanda fulminante: «Come può accadere che delle persone serie continuino a credere nel progresso, malgrado le importanti confutazioni che parevano aver liquidato una volta per tutte la validità di questa idea?». A rispondergli a tono è stato, tra gli altri, il fisico teorico David Deutsch, che nell’introduzione alla sua opera L’inizio dell’infinito (2013) – apologia della capacità umana di innovare – scrive: «Di fronte a ogni progresso, è sempre accaduto che importanti pensatori negassero che fosse autentico, che fosse auspicabile, o che l’idea stessa di progresso avesse senso. Avrebbero fatto meglio a tacere».
La tentazione di schierarsi partigianamente da una parte o dall’altra è molto forte: da un lato assistiamo ammirati agli incessanti progressi della ricerca scientifica e tecnologica, forse le uniche buone notizie in un’epoca che sembra gradualmente sprofondare in un nuovo medioevo, tanto da spingerci a credere che la salvezza del mondo sia riposta nelle menti degli scienziati e degli innovatori; dall’altro, scrutiamo inquieti gli effetti collaterali del progresso, come il cambiamento climatico, l’esaurimento delle risorse o il terrorismo cibernetico, nonché le possibili conseguenze sul lungo termine di scoperte e innovazioni di grande respiro come l’ingegneria genetica. È possibile trovare una via di mezzo, attraverso la quale provare a superare i luoghi comuni e a entrare nel “dietro le quinte” del progresso tecnoscientifico, per analizzarlo più da vicino con spirito critico ma aperto? È la proposta di questo nuovo numero di FUTURI, che ha scelto di associare al concetto di “progresso” un altro che invece in questi anni è caduto sicuramente in disgrazia: quello di “governo”.
Da tempo va affermandosi l’idea pericolosa secondo cui l’unico modo di favorire lo sviluppo del progresso consista nel liberare l’innovazione tecnologica e la ricerca scientifica dal controllo della politica, preferendo al concetto di “governo” quello più tecnico di “governance”. Peter Diamandis, fondatore della Singularity University e dell’X-Prize, guru per antonomasia degli abbacinanti miracoli sfornati quotidianamente dalla Silicon Valley, nel suo libro Abbondanza. Il futuro è migliore di quanto pensiate (2014) sostiene che a trovare le soluzioni a tutti i grandi problemi che affliggono il nostro pianeta saranno in futuro i “tecnofilantropi”, che finanziano con i loro miliardi ricerche innovative in grado di sfamare il mondo, connetterlo a Internet, renderlo immune alle principali malattie (sono tra l’altro gli obiettivi della Singularity University, che crede nella possibilità di risolvere con la tecnologia i problemi socio-economici globali). Diamandis cita Elon Musk, il CEO di SpaceX: «Ritengo probabile che [i tecnofilantropi] riescano a risolvere le diverse sfide aperte in queste aree, e che il risultato sia la creazione di nuove tecnologie, nuove imprese e nuovi posti di lavoro che porteranno prosperità a miliardi di abitanti della Terra».
Il divulgatore scientifico britannico Matt Ridley sostiene più o meno le stesse cose nel suo libro Un ottimista razionale (2013): a suo dire, l’unico modo per garantire il progresso incessante è limitare l’intervento pubblico nell’economia, per favorire l’innovazione radicale. Per questo, egli sostiene anche che le politiche sanzionatorie dei governi nei confronti dei gas serra siano sbagliate, perché sarà la “mano invisibile” del mercato e dell’innovazione a condurre le energie sostenibili a prosperare nei prossimi decenni. Gli fa eco David Deutsch, il quale definisce i discorsi sul cambiamento climatico “un disastro”, «perché per la teoria dominante la nostra alternativa migliore consiste nell’impedire le emissioni di anidride carbonica spendendo enormi quantità di denaro e imponendo restrizioni rigorose del comportamento in tutto il mondo, e questo è già un disastro in base a qualsiasi metro di misura… In tutto il mondo si discute animatamente di piani per far ridurre le emissioni di gas a qualsiasi costo. Ma si dovrebbe discutere molto di più di piani per ridurre la temperatura, o per potere vivere bene con una temperatura più alta».
Posizioni che lasciano quantomeno perplessi. Il calo dei prezzi dei combustibili fossili negli ultimi anni ha ulteriormente ridotto l’appeal delle energie sostenibili, per cui la mano invisibile tarda a farsi vedere. Ma è anche vero che, se si adottasse fino in fondo il soluzionismo tecnologico di Deutsch (o di Ridley, o di Diamandis), avremmo anche potuto smettere di preoccuparci della guerra nucleare negli anni del conflitto bipolare e sviluppare piuttosto innovazioni in grado di far sopravvivere gli esseri umani in un pianeta saturo di radiazioni. “Soluzionismo tecnologico” è il concetto coniato dal critico Evgeny Morozov per descrivere l’approccio tipico della Silicon Valley di trovare nella tecnologia la soluzione a tutti i problemi. Il risultato, egli sostiene, è appunto la scomparsa della politica, la deregulation più radicale, con tutte le conseguenze che ciò comporta. «Qui nella Silicon Valley le persone avvertono che lo Stato è fuori dalla realtà», è una frase che Morozov riporta nel suo ultimo libro I signori del silicio (2016): a pronunciarla è il miliardario e venture capitalist Tim Draper, che vorrebbe ottenere l’indipendenza di quest’area della California dal resto degli Stati Uniti, per dotarla di proprie leggi. Idea seducente e inquietante al tempo stesso. Cosa farebbero, i “signori del silicio”, se potessero agire senza le pastoie della burocrazia e della legislazione a frenarli?Troverebbero finalmente la cura contro l’invecchiamento, come promette per esempio Aubrey de Grey, se non addirittura il modo di renderci immortali, come profetizza Ray Kurzweil? Colonizzerebbero Marte, come sogna Elon Musk, e ci metterebbero a disposizione potenti assistenti personali dotati di intelligenze artificiali avanzatissime, come nei disegni di Google?
Un recente volume di contributi sulla politica dei Big Data (numero speciale della rivista Digital Culture and Society, 2016) mette in discussione l’idea tipica della nostra società degli algoritmi secondo cui «non c’è politica, solo dati». Spesso si sostiene anzi l’esigenza di una politica più data-oriented, per contrastare la tendenza alle scelte ideologiche e irrazionali. Ma già lo scrittore di fantascienza e studioso di tecnologie Stanislaw Lem, nota Morozov, ci aveva messi in guardia decenni fa, scrivendo nel suo libro Summa Technologiae: «La società non può rinunciare al peso di dover decidere del proprio destino sacrificando questa libertà a beneficio del regolatore cibernetico». In sostanza, dunque, parlare di governo del progresso significa stimolare la società civile a riconquistare il suo ruolo di decisore finale nelle scelte fondamentali che riguardano la ricerca scientifica e tecnologica e i suoi risvolti. L’ingegneria genetica applicata alla riproduzione umana non spinge necessariamente il nostro futuro verso gli scenari del Brave New World di Huxley, così come l’uso intensivo degli algoritmi non implica la realizzazione della distopia descritta nel romanzo The Circle di Dave Eggers: tocca piuttosto a noi scegliere la direzione del progresso, e governarla.