Le grandi innovazioni tecnologiche – robotica, intelligenza artificiale, World Wide Web, stampanti 3D e 4D – hanno travolto l’Occidente industrializzato incidendo e trasformando profondamente il concetto di lavoro, la sua organizzazione e i suoi luoghi di svolgimento. A cambiare è anche il ruolo del lavoratore all’interno dei processi produttivi, sempre più automatizzati e governati dalla digitalizzazione; un trend che ha condotto alla sempre più ampia diffusione della disintermediazione, del telelavoro e dello smart working. E se, per molti secoli, lo sviluppo tecnologico è stato osteggiato dai governanti, timorosi del fatto che ciò avrebbe comportato la perdita del posto di lavoro per la maggior parte della popolazione, dalla Rivoluzione industriale a oggi sono stati numerosi i cambiamenti che hanno interessato il lavoro, trasformatosi da attività individuale e artigianale – spesso domestica – in lavoro segmentato e organizzato, supportato da macchinari prima e da computer poi. Difatti, con l’introduzione della macchina a vapore e, successivamente, della catena di montaggio, la produzione si è spostata dalle piccole botteghe artigiane alle grandi aziende, riducendo i tempi e la complessità dei prodotti finiti. I principali beneficiari di queste innovazioni furono inizialmente i lavoratori a bassa specializzazione – gli operatori della catena di montaggio – che videro aumentare i salari e diminuire lo sforzo fisico, dovendo svolgere mansioni essenzialmente complementari a quelle delle macchine. Con l’introduzione dell’energia elettrica, le fabbriche furono investite da un profondo processo di ristrutturazione in cui i macchinari elettrici sostituirono in tutto o in parte il lavoro dell’uomo, finendo per beneficiare gli operatori con maggiori competenze e più altamente qualificati.
Se le grandi trasformazioni del passato sono state graduali e limitate ad alcune professioni, oggi i cambiamenti appaiono repentini e trasversali. Negli anni Duemila, con l’avvento dell’era digitale e l’introduzione del World Wide Web, in molti casi si è resa possibile la completa sostituzione dell’uomo con la macchina, trasformando in realtà la possibilità profeticamente prospettata dall’economista Keynes nel 1930 della “disoccupazione tecnologica”, provocata dall’automazione e dalla progressiva rimozione dell’uomo dal mercato del lavoro e dalla sua sostituzione con macchine più efficienti. Il noto economista, in un celebre discorso tenuto durante una conferenza a Madrid nel 1930 dal titolo Economic Possibilities for our Grandchildren, aveva sottolineato come la «scoperta di strumenti economizzatori di manodopera» procedesse «con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera» (Keynes, 1930; cfr. anche Pecchi e Piga, 2014). E ciò appare quanto mai evidente al giorno d’oggi in cui il digitale ha creato nuove mansioni caratterizzate da un’elevata qualificazione, surclassando i lavoratori poco qualificati. La tecnologia che prende sempre più le sembianze della forma del capitale che sostituisce il lavoratore spinge i policy makers a prevedere piani a lungo termine per far fronte al cambiamento tecnologico e alla “distruzione creativa” prospettata da Joseph Schumpeter quale processo evolutivo dell’economia capitalistica in cui innovazioni tecnologiche e gestionali trasformano il ciclo produttivo, scompaginando l’equilibrio dei mercati ed eliminando le imprese incapaci d’innovare (cfr. Schumpeter, 1912).
In altre parole, l’introduzione della tecnologia, del digitale e dell’intelligenza artificiale ha comportato una sostituzione delle mansioni routinarie e a bassa componente cognitiva. I settori e le professioni più a rischio sostituzione appaiono, dunque, i trasporti, la logistica, il supporto amministrativo e il settore dei servizi a basso valore aggiunto. Le professioni che, invece, sembrano al momento al riparo da questo processo di sostituzione sono quelle caratterizzate da interazione sociale e alto tasso creativo, abilità non riproducibili ancora dai robot. Ma è evidente che tali settori, pur offrendo effettivamente un salario elevato, richiedono altresì un alto livello di istruzione e personale specializzato. Ciò provoca, di conseguenza, un innalzamento del livello minimo di competenze richiesto, spostando i lavoratori con media professionalità verso mansioni a basso valore aggiunto e incrementando notevolmente e progressivamente la disparità di reddito già realizzata dall’industrializzazione. In questo contesto, appare sempre più evidente il fenomeno della “polarizzazione del lavoro” che ha investito con particolare rilevanza gli Stati Uniti dagli anni Ottanta a oggi e che comporta un aumento della domanda di lavoratori collocati nella parte più alta e più bassa della gamma delle competenze rendendo più facile trovare lavoro per operatori poco qualificati (del settore delle costruzioni, installazioni, manutenzioni, ecc.) e per i lavoratori “high skilled”.
Sul pericolo della disoccupazione tecnologica si è soffermato anche il Presidente uscente degli Stati Uniti, Barack Obama, nel suo ultimo discorso, tenuto lo scorso 10 gennaio a Chicago, la sua città di origine, affermando che «la prossima ondata di licenziamenti non verrà dall’estero. Verrà dal continuo progresso nell’automazione che renderà obsoleti molti posti di lavoro. E quindi dobbiamo formare un nuovo patto sociale, per garantire ai nostri figli l’istruzione di cui hanno bisogno […], per aggiornare il nostro welfare così che sia adatto al modo in cui viviamo, per aggiornare il fisco così che sia le persone che le multinazionali che guadagneranno di più dalla nuova economia non evitino i loro doveri verso il paese che ha reso possibile il loro successo» (cit. in Costa, 2017).
Un’attenzione particolare merita il lavoro autonomo che deve il proprio sviluppo all’avvento della tecnologia che consente di abbattere tempi e diminuire distanze geografiche, rendendo possibile realizzare progetti innovativi e nuovi business proponendoli da un confine all’altro della Terra semplicemente con un clic. Da scelta spesso obbligata per i giovani disoccupati, oggi sembra rappresentare sempre più una decisione imposta dalla nuova visione del rapporto di lavoro.
Da quanto brevemente descritto si evince che gli adattamenti ai mutamenti tecnologici spesso avvengono lentamente e conviene interrogarsi su quale sarà il prossimo futuro del mercato del lavoro, affrontando il problema della sostituzione uomo/macchina alla luce del fatto che lo sviluppo e l’innovazione, connaturati all’essere umano, sono processi inevitabili; più che ostacolarli e temerli, vanno pertanto governati con razionalità abbandonando il classico modo di intendere il lavoro. Su queste e su altre questioni ha posto l’attenzione un importante report del 2015 della Oxford Martin School, in collaborazione con la Citi GPS, dal titolo Technology at Work. The Future of Innovation and Employment. Suddiviso in sei parti, il report analizza, rispettivamente, la mutevole natura dell’innovazione; la tecnologia al lavoro; la tecnologia del XXI secolo; il mondo del lavoro nel XXI secolo; i rischi e le opportunità della trasformazione digitale e l’adattamento al cambiamento tecnologico – itinerari e strategie.
Di particolare importanza alla luce di questa discussione appare la parte dedicata alle opportunità e ai rischi che porta con sé la trasformazione digitale. Tra questi ultimi, il più evidente è senza dubbio la conseguente concentrazione del reddito nelle mani di pochi. Il report fa riferimento allo studio del 2014 di Emmanuel Saez, del Dipartimento di Economia dell’Università della California a Berkeley, e Gabriel Zucman, della London School of Economics, dal titolo Wealth Inequality in the United States since 1913, secondo il quale lo 0,01% delle più ricche famiglie americane controlla oggi l’11,2% della ricchezza totale (Saez e Zucman, 2014). La spiegazione di ciò viene fornita da Sherwin Rosen dell’Università di Chicago in un paper del 1981 intitolato The Economics of Superstars che spiega come i cambiamenti tecnologici consentano ai best performers in un determinato settore di soddisfare un mercato sempre più ampio sulla base dell’effetto the-winners-take-all (Rosen, 1981). Al giorno d’oggi ciò appare quanto mai evidente con riferimento a fuoriclasse dell’economia digitale del calibro di Google, Facebook, Whatsapp, Instagram che riescono a controllare quasi interamente il loro mercato di riferimento. Inoltre, le tecnologie consentono un’alta sostituzione capitale-lavoro che, sebbene permettano di incrementare la produttività, non comportano un aumento dei salari e approfondiscono la disuguaglianza in termini di ricchezza. Questo è spiegabile sulla base del fatto che se da una parte la natura mutevole dell’innovazione aumenta la produttività, dall’altra rappresenta la quota capitale che sostituisce il lavoro umano; dunque, la crescita della produttività deve essere analizzata come miglioramento della quota di reddito derivante dal capitale che contribuisce alla concentrazione della ricchezza. Se, come sostiene l’economista Arthur Okun, le società devono operare un trade-off tra diseguaglianza ed efficienza (cfr. Okun, 1975), l’estrema disuguaglianza conduce a inefficienza, ovvero a profonda disuguaglianza in ricchezza e benessere e in una maggiore esposizione al crimine.
Il report prosegue indicando nell’automazione la key driver della crescita della produttività, intesa come quantità di output per lavoratore che a sua volta conduce a una crescita dell’economia nel lungo periodo. E se è vero che l’innovazione conduce alla sostituzione tra capitale e lavoro, questa è molto difficile da misurare. Una potenziale unità di misura può essere individuata nella progressione dei profitti in relazione al numero di lavoratori impiegati nell’impresa. Da evidenze empiriche, si riscontra un incremento dei profitti dal 2004 al 2013 negli Stati Uniti grazie all’introduzione di macchine sofisticate che sostituiscono i lavoratori che gli autori del report spiegano prendendo in considerazione il fatto che le macchine non si ammalano, non pretendono ferie né aumenti salariali, non scioperano e non richiedono migliori condizioni lavorative. Inoltre, anche il sistema fiscale appare capovolto a favore delle macchine dal momento che assumere più lavoratori implica il pagamento di più tasse sui salari. Per quanto riguarda le opportunità che scaturiscono dall’avvento dell’era digitale, si evidenzia come la trasformazione tecnologica non sia riuscita ad assicurare quegli incrementi di produttività che si riscontrarono invece con l’introduzione di tecnologie di uso generale, come la macchina a vapore e l’energia elettrica. Ciò sembra confermato dalle parole dell’economista Robert Solow che in tempi non sospetti affermava a proposito del paradosso della produttività: «You can see the computer age everywhere but in the productivity statistics» (Solow, 1980).
Infatti, se le precedenti trasformazioni industriali che hanno interessato il mondo del lavoro hanno portato benefici all’intera popolazione, permettendo di produrre la Ford T a un prezzo accessibile, non può dirsi lo stesso con riferimento al World Wide Web, che ha sì permesso l’accesso a contenuti gratuiti, ma ha anche creato nuove mansioni che richiedono un’elevata qualificazione, spiazzando i lavoratori poco qualificati. La spiegazione è da ritrovare nel fatto che l’introduzione di tecnologie innovative non comporta un fulmineo incremento della produttività del lavoro ma è necessario che le imprese realizzino un’effettiva implementazione di fasi di business process re-engineering, così come auspicata da Michael Hammer negli anni Novanta, al fine di conseguire miglioramenti nel rendimento e nelle prestazioni delle stesse (cfr. Hammer, 1990). Inoltre, uno studio dimostra che la crescita della produttività segue gli investimenti nelle tecnologie digitali con ritardi compresi tra i 5 e i 15 anni rispetto alla loro introduzione (Madden e Savage, 1998). Pertanto, non si è ancora in grado di stimare l’effettivo incremento di produttività generato dalle tecnologie introdotte negli anni Duemila. Frey e Osborne, gli autori del report della Oxford Martin School, sostengono poi che il sempre più rapido sviluppo tecnologico comporterà entro il 2030 la sostituzione del 47% della forza lavoro statunitense, in quanto computer e robot renderanno superfluo il lavoro umano e più reale e diffusa la disoccupazione tecnologica keynesiana, con conseguente progressiva scomparsa della classe media. E gli effetti delle rivoluzioni in atto sono molto evidenti, come sottolineano i dati raccolti dalla Commissione Europea: si stima che circa il 27% delle nuove posizioni lavorative rimangano scoperte per l’assenza di candidati qualificati, da cui deriva che entro il 2020 l’Europa avrà bisogno di almeno 900.000 professionisti del digitale (cfr. Commissione Europea, 2013)
Da quanto finora descritto, appare evidente che i lavoratori che non sono in grado di essere al passo con i tempi rischiano di rimanere indietro rendendo non più procrastinabile una modifica repentina delle regole del mercato del lavoro e delle politiche fiscali. Per quanto riguarda le prime, è necessario mostrare attenzione particolare alle politiche attive del lavoro, ovvero all’istruzione tecnica, all’apprendimento continuo e alle soft skills, competenze adatte per restare flessibili e pronti ad affrontare il cambiamento, sul modello della flexicurity sperimentato con successo in Danimarca e Olanda che, aiutando i disoccupati nella ricerca di un lavoro retribuito, permette di mantenere un livello di disoccupazione a lungo termine molto basso. In questo senso, appaiono insoddisfacenti gli investimenti annui di molti Paesi europei, Italia compresa, rivolti alle politiche attive: in Italia oggi si investe solo lo 0,5% del PIL in politiche attive, contro il 2% della Danimarca. Inoltre, se l’unico modo per assicurare una crescita inclusiva e garantire ai lavoratori di trovare un’occupazione è permettere loro la continua acquisizione di competenze, appare necessario rivedere i modelli di insegnamento come evidenziato da Clayton Christensen della Harvard Business School, che auspica che studenti con competenze e background differenti non vengano inquadrati in percorsi universitari statici e rigidi, retaggio del modello classico scaturente dalla Rivoluzione industriale del XIX secolo (Christensen e Eyring, 2011). In tal modo, sarà possibile consentire a quei lavoratori, anche in là con gli anni, di soddisfare l’esigenza di riqualificarsi e ricostruire la propria occupabilità per ricollocarsi più facilmente nel mercato del lavoro.
Appare, però, indispensabile in questo senso ricorrere ancora una volta alla tecnologia che può essere utilizzata per ottimizzare il settore dell’istruzione, come successo per gli altri settori. In prospettiva, le maggiori criticità in tema di disoccupazione riguarderanno probabilmente i Paesi in cui il costo del lavoro è molto basso e verso i quali molte aziende di produzione stanno oggi spostando le proprie attività con l’obiettivo di aumentare la marginalità. Se si considera che la tecnologia si deprezza a un ritmo sostenuto, arriverà il momento in cui le macchine sostituiranno i lavoratori di queste zone in quanto più costosi e meno efficienti. Trattandosi, poi, di lavoratori con bassa qualificazione e basso livello di istruzione, si porrà il problema di doverli ricollocare nel mercato del lavoro. Per quanto riguarda le politiche fiscali, il report propone, quali possibili soluzioni, l’aumento delle aliquote marginali sui redditi più elevati e dei tassi d’imposta sui redditi di capitale nonché sui redditi di società, il tutto sostenuto da una contestuale lotta all’evasione, all’elusione fiscale e alla fuga di capitali verso paradisi fiscali.
Gli osservatori più pessimisti vedono nella diffusione dell’intelligenza artificiale e dei nuovi monopoli digitali – non solo limitati all’America della Silicon Valley – addirittura la fine del lavoro che smette di rappresentare il perno su cui si fonda l’appartenenza alla comunità. Ritorna allora alla memoria il saggio di Jeremy Rifkin La fine del lavoro, in cui l’autore rifletteva sulla rivoluzione tecnologica e informatica che ha segnato gli ultimi decenni del Ventesimo secolo e l’inizio del Terzo millennio, portando nel mondo del lavoro autentici sconvolgimenti caratterizzati dalla progressiva scomparsa dei vecchi “mestieri” e dalla crescente obsolescenza delle abilità e delle competenze acquisite dai lavoratori delle generazioni meno giovani. Nell’era della “fine del lavoro”, calcolatori e robot sostituiscono via via l’uomo in un numero crescente di settori produttivi, un fenomeno che probabilmente non riusciranno ad arginare neppure le professioni emergenti e il knowledge sector o i nuovi mercati esteri. Nel contesto dell’economia globalizzata, ogni Stato dovrà fare i conti con una massa sempre più consistente di disoccupati dal momento che, con la progressiva scomparsa dell’occupazione formale di massa, saranno necessari sempre meno lavoratori per produrre beni e servizi e le nuove tecnologie promettono la sostituzione della mente umana (Rifkin, 1995).
Nonostante la tecnologia elimini sempre di più posti di lavoro e l’occupazione appaia sempre più precaria, più che parlare di jobless society sembrerebbe più prudente far riferimento a quella che molti hanno definito una “crappy job society”, una società dei lavoracci, dal momento che, se è vero che la rivoluzione digitale sta creando nuovi posti di lavoro, molto spesso si tratta di occupazioni peggiori del passato in quanto i robot e le macchine oggi sostituiscono le mansioni di concetto, lasciando agli umani quelli a minor valore aggiunto. Un esempio su tutti è rappresentato da Amazon, in cui sono gli algoritmi a consigliarci quali libri acquistare e gli uomini a consegnarli come fattorini (cfr. Luccisano e Zorzi, 2016). In questo contesto, non sono mancate da più parti, in Europa e Oltreoceano, proposte di introduzione del reddito di cittadinanza al fine di mitigare le ricadute sociali dell’innovazione tecnologica nel mondo globalizzato in cui il lavoro perde la centralità propria della Rivoluzione industriale nella creazione di valore. E se il lavoro vale sempre meno, il valore oggi si ritrova nelle rendite finanziarie e nelle grandi masse di dati che utilizzano i colossi del web. Il lavoro sembra non esprimere più un’identità sociale ma finisce per rappresentare una mera attività strumentale, relegata al servizio del lavoratore in quanto consumatore (cfr. Negrelli, 2013), come evidenziato già in uno studio degli anni Settanta (Goldthorpe et al., 1973) e anche più recentemente (Bauman, 2004; Dore, 2005).
Sulla scia di una probabilmente troppo acritica rassegnazione nei confronti della fine del lavoro si inserisce la recente mozione proposta dall’eurodeputata lussemburghese Mady Delvaux che, prefigurando uno scenario in cui la sostituzione di robot intelligenti a lavoratori in carne e ossa produrrà una disoccupazione permanente e di massa, si pone il problema della sostenibilità degli odierni sistemi di sicurezza sociale, da risolvere attraverso una modifica degli attuali criteri di tassazione. In sintesi, la mozione mira a porre in essere politiche fiscali in grado di restituire valore al lavoro e riequilibrare il gap di competitività tra lavoratori e macchine, considerando che oggi il lavoro dell’uomo è tassato al 30-40% a differenza del lavoro delle macchine. Pertanto, la mozione suggerisce di imporre alle imprese che impiegano robot, anziché lavoratori, un reporting finalizzato a determinare il contributo fornito dalle macchine intelligenti al risultato economico, onde tassarlo e assoggettarlo alla contribuzione sociale: e ciò in corrispondenza di un reddito di base o di cittadinanza, con carattere universale, da attribuire ai lavoratori espulsi dal ciclo produttivo o mai entrativi.
Si realizzerebbe in tal modo, per la prima volta su così larga scala, un’inedita dissociazione tra “redditi” e “consumi”, giacché i secondi sarebbero effettuati senza che vi siano i primi. Ciò sembra prospettare un ribaltamento della visione di Henry Ford per cui l’operaio della catena di montaggio poteva con i proventi del proprio lavoro permettersi i beni che aveva prodotto. Il cosiddetto “reddito di cittadinanza” (universal basic income) finirebbe per non rappresentare, dunque, un “reddito” in senso tecnico, bensì un sussidio, finanziato dal prelievo fiscale su redditi altrui. Tale proposta sembra poggiare le proprie basi su due presupposti teorici, tra loro non alternativi: da un lato la “discriminazione qualitativa dei redditi”, che postula una maggiore tassazione per quelli fondati sul capitale o frutto di rendite di posizione, dal momento che le “macchine intelligenti” consentirebbero risparmi di spesa e maggiore efficienza rispetto all’impiego di capitale umano; dall’altro un utilizzo extrafiscale dell’imposta consentirebbe di correggere le esternalità negative di specifiche attività produttive. Al tempo stesso, un aggravio di tassazione – definita “fantascienza fiscale” – sulle imprese che impiegano tecnologie e innovano i processi produttivi scoraggerebbe l’utilizzo di macchine intelligenti, rendendo relativamente più conveniente l’impiego di lavoratori salariati, frenando innovazione e progresso tecnologico (Stevanato, 2016).
Un ultimo cenno merita il dibattito parlamentare in Italia volto alla definizione della normativa di sostegno dello smart working con particolare attenzione alla sua regolazione nella contrattazione collettiva. A tal proposito, si ricorda che il Consiglio dei Ministri del 28 gennaio 2016 ha varato “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. La proposta, preannunciata dall’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi in sede di presentazione della legge di stabilità per il 2016, riprende in gran parte il ddl n. 2014 del 2014 (cd. ddl Mosca) e mira a promuovere il lavoro agile quale modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato reso più agevole dalle nuove tecnologie disponibili e a superare in chiave derogatoria alcuni vincoli di natura giuridica alla diffusione dello smart working, puntando su alcune funzioni di misure di incentivazione economica che leghino il lavoro agile a forme di detassazione o decontribuzione della contrattazione di secondo livello. Pur non potendo in questa sede analizzare compiutamente tale proposta, appare necessario soffermarsi su alcuni spunti di riflessione in un contesto che, come si è già osservato, è in continua trasformazione, caratterizzato da prestazioni lavorative sempre meno organizzate in modo rigido e gerarchico. Un ruolo senza dubbio importante deve essere svolto dalla contrattazione collettiva, attualmente ancora poco consapevole della rilevanza del compito che è chiamata a svolgere. Sebbene nella contrattazione aziendale si rinvengono i primi tentativi di regolazione sistematica del lavoro agile, la dimensione quantitativa di questi accordi resta comunque limitata: il dato di 8 intese su un campione di 915 contratti aziendali potrebbe essere una spia della mancanza di certezza del quadro normativo di riferimento che scoraggia i negoziatori d’azienda a far riferimento alla regolazione di un modello organizzativo sui generis rispetto ai canoni tradizionali di svolgimento, misurazione e valorizzazione economica della prestazione lavorativa.
Difatti, gli accordi tuttora vigenti si concentrano sulla flessibilità del luogo di lavoro e sui singoli istituti di flessibilità oraria e salariale, senza però essere in grado di favorire una cultura di responsabilizzazione dei lavoratori e di orientamento ai risultati (cfr. Dagnino et al., 2016). Attualmente, a livello definitorio, la contrattazione guarda allo smart working come a una forma di lavoro da remoto diversa e ulteriore rispetto al telelavoro, svolta in alternanza tra la sede di lavoro e luoghi esterni, con prevalenza della prestazione in sede. La criticità maggiore attiene alla ritrosia delle parti a lasciare il lavoratore libero di scegliere dove lavorare, preferendo individuare come luogo esterno il domicilio e di regolamentare negli accordi il fenomeno nella sua globalità, facendo leva su un limite di visioni rispetto alla trasformazione. Il futuro appare, dunque, ancora profondamente incerto. Ciò che però sembra fuori dubbio è che i cambiamenti tecnologici influiranno sempre di più sulle condizioni e sui contenuti dell’attività lavorativa propri del “secolo del lavoro” (Accornero, 1997), e più in generale, sulle nostre vite, modificandole radicalmente e richiedendo pertanto un ripensamento e una revisione profonda dei nostri sistemi sociali e delle reti di sicurezza sociale al fine di sostenere questi mutamenti globali e trasformarli in un miglioramento positivo per il nostro modo di vivere e lavorare.
Bibliografia
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