Ragionare in termini di anticipazione (Arnaldi, Poli, 2012; Poli, 2017) significa creare una tensione positiva tra azione nel tempo presente e futuri possibili (De Jouvenel, 1964; Barbieri Masini, 2000). Un’azione densa di implicazioni a carattere etico: senz’altro, uno dei tratti peculiari dei Futures Studies – e dell’approccio anticipatorio in particolare. Tratto che sottende un principio epistemico difficilissimo da tradurre in azione sociale rispettosa dei futuri: punta, infatti, a non tradursi nella colonizzazione di un tempo che non ci appartiene, ma, al tempo stesso, implica scelte precise, molto spesso (anche se non necessariamente) a carattere normativo (Bell, 2008; Facioni, 2011; Poli 2017). Perché, a quasi sessant’anni dalla sua morte, ha senso includere la figura di Adriano Olivetti all’interno di un discorso legato al futuro della società contemporanea in un’ottica di anticipazione? Proprio perché non solo ci troviamo di fronte a un’ottica anticipatoria ante litteram, ma anche perché la riflessione di Adriano Olivetti è stata a tutt’oggi solo parzialmente realizzata nelle sue molteplici potenzialità. Siamo, quindi, di fronte a un’esperienza tutt’altro che esaurita – alla quale vale la pena di guardare, paradossalmente, non come una lezione che ci viene dal passato, ma come un obiettivo che il mondo del lavoro (e non solo) deve porsi per il futuro.
Olivetti è stato non soltanto un manager innovatore, ma un finissimo intellettuale che guardava ben oltre la sua epoca, in un approccio complesso, multidimensionale; aveva compreso come il mondo del lavoro andasse inquadrato senz’altro in un ruolo forte, ma in un contesto più organico. Aveva, ad esempio, capito fino a che punto la vivibilità del contesto lavorativo dovesse giocare una parte fondamentale di quanto oggi la comunità scientifica identifica nel più ampio concetto di qualità della vita. E aveva compreso appieno la valenza politica del suo approccio. Questo, non solo nel più puro senso etimologico del termine “politico”, ma anche cercando di tradurre il suo pensiero nella pratica politica dell’Italia del Secondo Dopoguerra.
Pochi cenni biografici
Adriano Olivetti nasce nel 1901; la Olivetti, fondata dal padre Camillo, nel 1908. Dai genitori (padre ebreo, madre valdese) riceve un’educazione laica – il padre è socialista – e solo da adulto si avvicinerà al cattolicesimo. È del 1914 la sua prima esperienza di lavoro in fabbrica, che lascia in lui una profonda impressione negativa. Negli anni dell’università (si laurea al Politecnico di Torino) collabora alle riviste militanti (sostenute anche dal padre, in alcuni casi): tra queste, “Tempi nuovi”. Un’altra esperienza fondamentale è il viaggio di istruzione negli Stati Uniti nel 1925: visiterà molte fabbriche, ma non riuscirà a vedere la Underwood, che acquisirà anni dopo. Dal viaggio (in cui sarà raggiunto da Domenico Burzio, braccio destro del padre) tornerà con due casse di libri che studierà nel periodo successivo. In particolare, rivedrà il sistema di cronometrazione dei tempi di lavoro, criticando il sistema Bedeaux e cercando un modo di realizzare una forma di “Taylorismo dolce”.
Olivetti sostiene la necessità di analizzare i problemi di organizzazione non ricorrendo a teorie precostituite, ma ad un approccio induttivo (Saibene, 2017). Alla preparazione alla futura attività di imprenditore si affianca il suo impegno socialista (anche se nel 1933 sarà costretto, per non ostacolare la sua impresa, a iscriversi al Partito Fascista): nel 1926 aiuta Turati a espatriare e nel 1931 viene schedato come “sovversivo”. Sarà anche arrestato, nel 1943, per aver cercato di trattare con gli Americani una pace separata. Riuscirà a rifugiarsi in Svizzera; negli stessi anni, 24 dipendenti cadono nella lotta di Liberazione: il più noto è Willy Jervis. Al ritorno prenderà le redini della Olivetti, succedendo a suo padre (morto durante il suo ritiro in Svizzera); lo aveva comunque affiancato già dagli anni Trenta iniziando a organizzare i servizi sociali per i dipendenti e curando quella che, sul piano estetico, sarà definita la “Bauhaus italiana” per lo stile che caratterizzerà negozi, pubblicità e prodotti della Olivetti. Nell’affidargli, in quegli anni, i primi incarichi (nel 1938 era diventato presidente dell’Azienda), il padre gli aveva dato un preciso ammonimento: «Tu puoi fare qualunque cosa, tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi, perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia»[1]. Negli anni Quaranta si iscrive al Partito Federalista Europeo e scrive L’ordine politico delle Comunità, fondando anche la rivista “Comunità” che si apre con l’articolo Il mondo che nasce di Ignazio Silone.
Gli anni del Dopoguerra iniziano con una scelta in apparenza folle, per la situazione economica nazionale ed aziendale: Olivetti sceglie di assumere almeno 1000 persone invece di limitare il personale e non lo fa certamente per calcolo economico. Nelle sue parole: «I combattenti, i reduci, i partigiani, dopo anni di lotte, sacrifici, sofferenze, tornavano alle loro case e non avevano lavoro. Fu allora che la fabbrica fece la prima grande indimenticabile apertura verso la comunità» (cit. in Zagrebelsky, 2014). Sono, questi, anni che lo vedono impegnato su fronti che, in apparenza, sembrerebbero differenti. Tra questi, la politica, come deputato nazionale e come sindaco di Ivrea; ma anche l’urbanistica, come vicepresidente dell’UNRRA-Casas; la promozione delle tante iniziative culturali, sentite come strumento di crescita umana e intellettuale della Comunità – e che lo portano a circondarsi, in Ditta, di poeti e scrittori (Geno Pampaloni, Libero Bigiaretti, Ottiero Ottieri, Leonardo Sinisgalli…), sociologi (Franco Ferrarotti e Luciano Gallino), architetti (Figini, Pollini, Vittoria, Cosenza, Sottsass…), designer (Xanti Schawinsky in primis) e a promuovere fondamentali iniziative culturali come le Edizioni Comunità, o la rivista “L’Espresso”. E poi, il rinforzamento del welfare aziendale, la scuola per Assistenti Sociali, l’ALO (Assistenza Lavoratrici Olivetti), la formazione delle maestranze, ecc. Last, but not least, l’attività manageriale in senso stretto, che porterà la Olivetti in tutto il mondo, compreso il MoMa di New York – e il forte impulso dato alla Ricerca e Sviluppo, in particolare con l’ultimo progetto, Elea 9003, personal computer progettato dall’ingegnere italo-cinese Mario Tchu e disegnato da Sottsass. Più o meno vent’anni di tante attività, in realtà tutte rivolte al raggiungimento di un obiettivo complessivo, la Comunità. Obiettivo di una vita eccezionale che sarà fermata da una morte improvvisa e prematura, durante un viaggio in treno, nel 1960.
La Comunità come progetto politico
Parlare di Olivetti significa descrivere un imprenditore che, avendo ereditato la direzione della ditta dal proprio padre, si dichiarò contrario al fatto che un ruolo di tale responsabilità e competenza debba essere ereditato, ma vada assegnato alla persona più capace individuata nel contesto della Comunità. Significa parlare di un uomo che ha affidato a poeti, scrittori, critici letterari compiti quali il reclutamento del personale – Ottiero Ottieri lo farà per lo stabilimento di Portici, e scriverà Donnarumma all’assalto (pubblicato nel 1959) ispirandosi alla sua esperienza in fabbrica[2] – o le campagne pubblicitarie: il poeta Leonardo Sinisgalli, collaboratore dal 1938 e fondatore della rivista “Civiltà delle macchine”, creerà per le macchine Olivetti la celebre immagine della rosa nel calamaio. Un uomo che, già nel primo dopoguerra, aveva compreso la decadenza dei partiti politici, la loro deriva autoreferenziale e volta alla conservazione del potere acquisito, più che al ruolo affidatogli dagli elettori – ma che aveva comunque cercato di far approdare in Parlamento la sua idea di Comunità.
Una personalità, insomma, difficile da decodificare, ma le cui scelte non possono essere liquidate come idee (molto) originali di un imprenditore sui generis. No: leggere Olivetti significa prendere atto di un nuovo paradigma; significa trovarsi di fronte a una weltanschauung che coinvolge territorio, mondo del lavoro, rapporti di potere, in un’ottica ardentemente umanista. Si può tentare di trovare le fonti di ispirazione della visione pragmatica (così la definirei, piuttosto che utopistica) olivettiana, ma occorre ammettere subito di non poter esaurire un discorso destinato a restare aperto. Una così grande ricchezza e complessità di pensiero, unitamente ad una vita breve sì, ma piena di incontri importanti, in un secolo, il Ventesimo, denso di suggestioni intellettuali, non può essersi nutrita di poche (o sempre riconoscibili) fonti di ispirazione. Adriano Olivetti era una persona riflessiva, pronta ad accogliere e rielaborare anche idee diverse dalle sue, fino a farle proprie[3]. Lo si può accostare, come è stato fatto (Bennato, 2013) al Rinascimento, anche per lo sguardo a 360 gradi, non mono-settoriale, del suo pensiero. Quindi, si possono individuare alcune figure fondamentali, ma non avendo l’ambizione di esaurire l’argomento. Senz’altro, nell’idea di Comunità è possibile ravvisare l’ascendente valdese della madre di Olivetti, Luisa Revel – ma anche la specificità del territorio del Canavese. Nelle parole di Franco Ferrarotti: «L’idea di una comunità concreta veniva ad Adriano Olivetti dal fatto stesso della conformazione geofisica del Canavese, quel pugno di comuni all’ingresso della Valle d’Aosta. Più che un calcolo puramente teorico, era una realtà vissuta» (Ferrarotti, 2001).
Sicuramente c’è la figura di Jacques Maritain, teologo di riferimento del Concilio Vaticano II. Maritain, allievo di Bergson, aveva delineato l’ideale (incardinato nel tessuto storico) di una nuova cristianità, che informava di sè un nuovo Umanesimo, tale da opporsi al mainstream allora imperante – non parliamo solo del fascismo o del marxismo, ma anche del liberalismo – come pure alla concezione (di derivazione medievale) della sacralità (e quindi indiscutibilità) delle istituzioni. Nella teorizzazione di Maritain, il primato è nella coscienza umana, che è (ed in quanto è) ispirata da Dio. L’esperienza della fede è, dunque, un elemento imprescindibile. Aspetto, quest’ultimo, che lega il pensiero di Maritain a quello di un’altra figura di riferimento del pensiero olivettiano, ovvero Simone Weil: fondamentale figura del Novecento, di cui è difficile dare una definizione univoca (pensatrice, mistica, scrittrice, filosofa, teologa, operaia, rivoluzionaria…) che scelse di vivere nella sua stessa carne la condizione operaia (così come Cristo scelse la sua croce), minando la sua già fragile salute e osservando (e vivendo) appieno il senso del concetto di déracinement (sradicamento) della classe operaia, che troviamo anche nello scrittore cattolico Bernanos ed è presente negli scritti di Olivetti. Comunità è, di fatto, il contrario di sradicamento: la fabbrica, facendosi parte viva e pulsante della Comunità, scongiura l’alienazione e la sofferenza degli operai. Anzi, diventa il mezzo di attraverso il quale la Comunità si esprime, anche come eminente forza politica. Naturalmente, in questo possiamo leggere (anche) la rivalutazione di Proudhon, pure presente nel pensiero della Weil, rispetto al determinismo marxista: la Comunità vive in una sorta di religione civile, in quel patto tra uomini responsabili (contratto politico di federazione) che sancisce l’equilibrio tra autorità e libertà.
La cultura è l’arma della crescita: Olivetti, nel 1959, dirà: «Abbiamo portato in tutti i villaggi le nostre armi segrete: i libri, i corsi, le opere dell’ingegno e dell’arte. Noi crediamo nella virtù rivoluzionaria della cultura che dona all’uomo il suo vero potere». E, se vede la democrazia troppo fragile, in quanto «troppo facile preda della potenza del denaro» (cit. in Zagrebelsky, 2014) ancorando il potere alla cultura e al lavoro è evidente che nella Comunità la fabbrica gioca un ruolo chiave, che però non è alienante, ma di promozione umana. Nelle parole di Zagrebelsky: «Per questo, la Comunità olivettiana non è giacobina: non vi domina, cioè, la politica pura; non è economicista: non vi domina, cioè, l’accumulazione senza scopo; non è intellettualistica: non vi domina, cioè, l’idea astratta. La combinazione dei tre elementi non è prefissata in astratto. Olivetti era un imprenditore e, soprattutto, la sua idea di Comunità era venuta maturando dall’esperienza concreta della fabbrica. Lo dice lui stesso[4], per rivendicare il primato dell’azione sulla teoria: “Prima di essere una istituzione teorica, la Comunità fu vita. La mia Comunità non si espresso subito formalmente, ma ebbe per molto tempo un’esistenza virtuale. La sua immagine nacque a poco a poco in un lavoro durato vent’anni”» (Zagrebelsky, 2014).
Olivetti utopista?
In un passaggio del discorso, pronunciato nel 1956 in occasione del VI Congresso dell’Istituto Nazionale di Urbanistica, e pubblicato nel 1959 con il titolo “Noi sogniamo il silenzio”, Olivetti afferma: «Non direi con questo che la nostra disciplina postuli rivoluzioni impossibili e s’inoltri sugli infidi sentieri dell’utopia» (Olivetti, 2015). Basterebbe questa semplice frase per evidenziare quanto sia perlomeno riduttivo pensare ad Adriano Olivetti come ad un utopista, sia pure “utopista positivo”, come fu definito da Ferruccio Parri, che lo conosceva dai tempi delle lotte antifasciste: una definizione che richiama, forse non casualmente, il concetto di “esistenzialismo positivo” che Nicola Abbagnano elaborava negli anni Trenta (Abbagnano, 1939) e aveva dato il fondamentale contributo di riportare l’uomo “dentro” la storia e dentro la vita, senza esserne necessariamente alienato ed annientato come nel classico pensiero esistenzialista. Nel pensiero di Olivetti, tutto passa attraverso l’esaltazione umanistica, il rispetto dell’ambiente (umano, lavorativo, urbanistico), attraverso la bellezza, attraverso la cultura; attraverso la necessità di dare delle opportunità di crescita, in un senso che possiamo definire promozione umana. Anticipando, quindi, di svariati decenni, anche il Capability Approach teorizzato da Amartya Sen (Sen, 1985).
L’esperienza della fabbrica comunitaria (Olivetti, 1945, 1951; in Olivetti, 2014), da lui teorizzata e messa in pratica, va dunque ben oltre un discorso di tipo utopico. Fortissimo il legame con il territorio, con il contesto tout-court, che è, sì, quello della fabbrica, ma una fabbrica che vive dentro un territorio e non ne è una protesi avulsa: gli operai di Olivetti erano anche contadini che non avevano smesso di esserlo e questo faceva una fondamentale differenza con realtà industriali (e territoriali) anche relativamente vicine: basti pensare alla FIAT di Torino. Olivetti era un manager, questo non va dimenticato: era uomo d’azione, non solo di pensiero. E il fatto che abbia tradotto la sua visione in una realtà viva, in cui l’esaltazione della creatività (non dimentichiamo in quale fabbrica fu pensato il primo personal computer) dava il braccio a una visione umanistica del ruolo del mondo del lavoro è una lezione che va riscoperta. Anzi, probabilmente è dal suo pensiero che occorre ripartire oggi, per cercare nuove impostazioni del modo di pensare non solo il lavoro, ma anche il territorio – e la politica tout court.
Perché chi si occupa oggi di futuri deve guardare al contributo di Olivetti?
La risposta a questa domanda è, al tempo stesso, semplice e complessa. Sicuramente dobbiamo riscoprire il pensiero, la densa riflessione di Olivetti perché è stata, ad oggi, un’occasione di cambiamento perduta che è il caso di riconsiderare. Il suo è stato un progetto incompiuto, in qualche modo abbandonato alla sua scomparsa; non è stata, la sua, un’idea esplorata in tutte le sue potenzialità, declinata in tutte le sue molteplici, possibili sfumature e vale la pena di riscoprirne le opportunità. Ma c’è di più. Chi si occupa di futuri possibili (De Jouvenel, 1964) sa che il futuro è l’unico spazio di azione aperto e va trattato con rispetto. Il futuro va affrontato come fatto culturale (Appadurai, 2013): occuparsene significa averlo presente nel proprio ordine di valori, in quanto scienziati sociali. Anticipare il futuro non significa, infatti, prevederlo; significa analizzare le criticità del presente e pensare a possibili modi di risolverle; significa cogliere, senza pregiudizi, i segnali che vengono dal presente e capirne i possibili sviluppi (Arnaldi, Poli, 2012; Poli, 2017).
Forse oggi, paradossalmente proprio in forza dell’evidenza di quella crisi di valori che un inascoltato Olivetti aveva percepito già nel dopoguerra – e di cui alcune opere ormai classiche della sociologia contemporanea hanno sottolineato le possibili conseguenze (Beck, 1986; Bauman, 2000; Sennett, 1998), questo cambiamento di paradigma è in atto. Nella crisi che da tempo caratterizza (non solo in Italia) sia il mondo del lavoro che il sistema politico che quello culturale – in assoluto, la complessità sociale – esistono dunque le premesse per riprendere le fila del progetto (umanistico e politico) di Adriano Olivetti. Le recenti riflessioni sulla gestione dell’economia (Raworth, 2017) e del capitale in questo scorcio di millennio (Piketty, 2013) ci riportano anch’esse, tutte, alla necessità di rivedere radicalmente il rapporto tra capitale e società, tra capitale e democrazia – e di modificare altrettanto radicalmente il rapporto tra uomo e lavoro – e quindi rivalutare l’importanza socio-culturale del territorio. Vanno rivisti ritmi, rapporti, luoghi, gerarchie (Sennett, 2012). La condizione di chi lavora sembra ancora andare in una direzione che tutto vuol essere, tranne promozione umana – e la difficoltà, nel mondo contemporaneo, sia di ottenere un lavoro che di mantenerlo non può che aumentare quel senso di alienazione, di sradicamento, in cui Olivetti vedeva uno dei tanti mali della condizione operaia – e che ora tocca tutti, a qualsiasi livello, a volte inconsapevolmente. Seguendo la lezione suggerita nell’opera postuma di Ulrich Beck, possiamo prendere atto della metamorfosi in corso del sociale e considerarla un’opportunità di cambiamento (Beck, 2016) – e cambiare. Questo contributo voleva ricordare che una possibile strada – forse difficile da percorrere, ma feconda di opportunità – per uscire da questo intollerabile stato di cose, esiste – e l’ha tracciata, molti anni fa, un geniale – e non del tutto compreso – imprenditore italiano: Adriano Olivetti.
Riferimenti
- Abbagnano N., La struttura dell’esistenza, Paravia, Torino, 1939.
- Abbagnano N., Esistenzialismo positivo, Taylor, Torino, 1948.
- Appadurai A., The Future as Cultural Fact. Essays on the Global Condition, Verso, New York, 2013.
- Arnaldi S., Poli R., La previsione sociale. Introduzione allo studio dei futuri, Carocci, Roma, 2012.
- Barbieri Masini E., Penser le futur – L’essentiel de la prospective et de ses méthodes, Dunod, Parigi, 2000.
- Bauman Z., Liquid Modernity, Polity Press, Cambridge, 2000.
- Beck U., Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp, Francoforte, 1986.
- Beck U., The Metamorphosis of the World, Polity Press, Cambridge, 2016.
- Bell W., Foundations of Futures Studies – Values, Objectivity, and the Good Society, Transaction Publishers, New Brunswick (USA) e Londra (UK), 2008.
- Bennato D., Innovazione e Umanesimo: da Federico II ad Adriano Olivetti via Brunelleschi, in «Tecnoetica», 5 novembre 2013.
- De Jouvenel, L’art de la conjecture. Futuribles, Monaco, Editions du Rocher, 1964.
- Facioni C., L’esperienza e il contributo italiano ai Futures Studies, 2011 (sul sito https://padis.uniroma1.it)
- Ferrarotti F., La società e l’utopia. Torino, Ivrea, Roma e altrove, Donzelli Editore, Roma, 2001.
- Gallino L., presentazione a Olivetti A., Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2012.
- Gregotti V., presentazione a Olivetti A., Noi sogniamo il silenzio, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2015.
- Olivetti A., Ai lavoratori, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2012.
- Olivetti A., Il cammino della comunità, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2013.
- Olivetti A., Il mondo che nasce, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2013.
- Olivetti A., Le fabbriche di bene, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2014.
- Olivetti A., Città dell’uomo, Comunità Editrice, 2015.
- Olivetti A., Noi sogniamo il silenzio, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2015.
- Pampaloni G., Poesia, politica e fiori. Scritti su Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2016.
- Piketty T., Le capital au XXIe siècle; tr. It. (2014), Il capitale nel XXI secolo, Bompiani, Milano, 2013.
- Poli R., Introduction to Anticipation Studies, Springer International Publishing, 2017.
- Raworth K., Doughnut Economics; Seven Ways to Think like a 21st Century Economist; tr. it., L’economia della ciambella. Sette mosse per pensare come un economista del XXI secolo, Edizioni Ambiente, Milano, 2017.
- Saibene A., L’Italia di Adriano Olivetti, Comunità Editrice, Roma/Ivrea, 2017.
- Sen A., Commodities and Capabilities, New York, Elsevier Science Publishing, 1985.
- Sennett R., The Corrosion of Character. The Personal Consequences of Work in the New Capitalism, W.W. Norton & Company, New York, Londra, 1998.
- Sennett R., Together. The Rituals, Pleasures and Politics of Cooperation, Yale University Press, New Haven, 2012.
- Sennett R., Building and Dwelling: Ethics for the City, Allen Lane, Londra, 2018.
- Settis S., presentazione a Olivetti A., Il cammino della comunità, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2013.
- Zagrebelsky G., presentazione a Olivetti A., Le fabbriche di bene, Edizioni di Comunità, Roma/Ivrea, 2014.
Note
[1] La frase è citata nel discorso alle Spille d’oro – i dipendenti che lavoravano in Olivetti da 25 anni – nel dicembre del 1954, pubblicato in “Città dell’uomo” (Olivetti, 1959) e ripubblicato in “Ai lavoratori” (Olivetti, 2012).
[2] Fu Olivetti stesso a favorire la pubblicazione del libro, inizialmente censurato da un suo collaboratore, che tentò di bloccarne la pubblicazione (cfr. lettera di Ottieri a Innocenti, pubblicata sul Corriere della Sera nel 2008). Si veda anche Saibene, 2017.
[3] Emblematico il primo incontro, nel 1948, con il giovane Franco Ferrarotti, che attacca Olivetti, entusiasta delle nazionalizzazioni delle fabbriche inglesi volute dal partito Laburista (incontro descritto in Ferrarotti, 2001). Negli scritti successivi (cfr. Olivetti, 1951) è evidente che Olivetti ha fatto sua la posizione di Ferrarotti, con il quale, grazie a quel vivace primo scambio di idee, inizia una duratura e proficua collaborazione.
[4] La citazione è tratta da un discorso di Olivetti del 1958, ripubblicato ne Il mondo che nasce (Olivetti, 2013).