Il futuro è molto aperto, e dipende da noi, da noi tutti. Dipende da ciò che voi e io e molti altri uomini fanno e faranno, oggi, domani e dopodomani. E quello che noi facciamo e faremo dipende a sua volta dal nostro pensiero e dai nostri desideri, dalle nostre speranze e dai nostri timori. Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte.
Karl Popper (1989)
Nel parlare di pensiero manageriale abbiamo necessità di approfondire gli ambiti applicativi e le diverse forme del “pensare manageriale”. L’attualità del nostro contesto socioeconomico richiede ai manager la necessità di saper affrontare situazioni variegate:
- saper cogliere la natura di quello che sta accadendo e formulare ipotesi su quello che accadrà;
- saper scegliere un percorso tra i tanti possibili, affrontare problemi, prendere decisioni e concretizzare obiettivi;
- saper muoversi in team e saper infondere fiducia e indirizzi ai propri collaboratori;
- saper convivere con gli imprevisti e gli inevitabili errori di valutazione e scelta che costelleranno il suo percorso;
- saper cogliere la natura degli indirizzi strategici e contribuire alla loro realizzazione;
- saper individuare, con la giusta flessibilità, il nuovo che avanza contribuendo, a sua volta, nei piccoli e grandi orientamenti innovativi.
Quali sono i bisogni che oggi avvertono i manager e ai quali cercano risposte gestionali per affrontare la loro complessità di business?
- Individuare e sviluppare con sufficiente anticipo le competenze manageriali necessarie a una realtà in continuo cambiamento.
- Allenare la learning agility.
- Riconoscere e saper gestire la componente emotiva.
Individuare e sviluppare con sufficiente anticipo le competenze manageriali necessarie a una realtà in continuo cambiamento
Il pensiero manageriale supera la ormai riduttiva logica di analisi lineare, per articolarsi in forme complesse e plastiche di intelligenze funzionali all’adattamento evolutivo del quotidiano. Nel parlare di pensiero manageriale abbiamo la necessità di individuare e sistematizzare alcuni elementi, o ingredienti, fondanti la sfera cognitiva. Il pensiero innovativo produce e riconosce il nuovo, alimenta e supporta il cambiamento, offre prospettive e visioni alternative. È connesso alla gestione dei cambiamenti. Il pensiero sistemico ci aiuta a gestire situazioni complesse e a tenere insieme gli snodi fondamentali fra più variabili. È connesso al tema della complessità. Il pensiero strategico entra in gioco quando abbiamo una meta da raggiungere e contribuisce a delineare il macro-percorso per raggiungerlo. È collegato alla necessità di tradurre i desiderata in risultati. Il pensiero prospettico ci fornisce la possibilità di capire cosa succederà domani ed è quello che ci fa ipotizzare i trend e immaginare scenari. È collegato alla necessità previsionale, con le sue implicazioni in tema di incertezze dei trend evolutivi.
Prendendo in prestito un acronimo coniato in campo militare, V.U.C.A. (Volatility, Uncertainty, Complexity, Ambiguity), l’attuale scenario socioeconomico si caratterizza per alcuni assunti determinanti il funzionamento globale. Questa definizione, oltre che a rappresentare i teatri bellici, ben descrive l’attuale ambiente in cui le imprese operano. Prendere coscienza dell’ambiente nel quale si è inseriti è il punto di partenza imprescindibile per comprendere come i pensieri manageriali devono costantemente adattarsi a una realtà fluida e complessa. La volatilità si riferisce alla natura, alle dinamiche e alla velocità del cambiamento. Nella vita di un’organizzazione la volatilità si può presentare a causa dei grandi cambiamenti organizzativi o delle veloci innovazioni tecnologiche. La conseguenza è che pur in presenza di soddisfacenti risultati nel presente, questi non sono più garanzia per il futuro. Da qui la necessità per i manager di ricorrere costantemente al pensiero innovativo. L’incertezza è generata dalla mancanza di prevedibilità, dal fatto che anche se pianifichiamo ci sono sempre elementi sui quali non abbiamo controllo, perché non li comprendiamo o perché non possiamo dominarli. Da qui la necessità di avere un tonico e allenato muscolo di pensiero prospettico in grado di aiutarci a cogliere i segnali deboli, a guardare il domani in un’ottica costante e non episodica di “what… if”. La complessità è generata dalla molteplicità di fattori presenti all’interno e intorno al sistema organizzativo, che interagiscono fra di loro in modi che non sempre possono essere osservati direttamente. L’interconnessione fra le informazioni e il volume degli elementi del sistema, possono farci sentire sopraffatti. Da qui il bisogno di passare da un pensiero logico lineare a un pensiero sistemico. L’ambiguità è generata dalla possibilità di leggere le stesse informazioni attribuendo significati diversi e tutti potenzialmente validi. L’ambiguità si manifesta anche nel fatto che dobbiamo lavorare sempre di più con la diversità, con collaboratori di culture diverse, con background e valori diversi dai nostri, le cui scelte e comportamenti non sappiamo bene come leggere. L’ambiguità è uno degli elementi chiave con il quale deve interagire il pensiero strategico.
In un mondo VUCA tende a farsi strada, negli ultimi anni, il presupposto che, in una realtà in continuo cambiamento, i risultati delle performance e delle competenze acquisite dai manager possono non essere condizioni sufficienti per prevedere la loro abilità di affrontare cambiamenti significativi.
Nel parlare di pensieri manageriali occorre sgombrare il significato da alcuni fraintendimenti e ambiguità. Un primo punto da condividere riguarda il significato di competenza. Le competenze costituiscono per ciascun professionista il suo capitale. Quando parliamo di competenze è necessario precisare che queste sono costituite da specifici know how, ovvero la stratificazione delle conoscenze teoriche e applicative acquisite in un iter professionale, ma soprattutto dalle abilità nel fare, quelle che nel linguaggio comune vengono definite soft skill per contraddistinguerle dalle prime, comunemente dette hard skill. Preferiamo dare alle soft skill un termine specifico: capacità, per connaturare la loro natura di abilità che permettono di caratterizzare la qualità e la quantità del nostro fare. Da un punto di vista patrimoniale le capacità sono risorse o leve che consentono, in modo più o meno efficace, di attuare i comportamenti complessi richiesti dal ruolo organizzativo ricoperto: ad esempio effettuare delle vendite o gestire un processo produttivo. In un mondo che cambia rapidamente, e dove i singoli know how diventano rapidamente obsoleti, sono proprio le capacità che permettono l’attivazione di quei percorsi di apprendimento continui o sostenere il cambiamento stesso. Di conseguenza possiamo continuare a chiamarle soft skill, ma il loro ruolo è strategico.
Sul termine capacità è necessario sgombrare l’influenza di alcuni pregiudizi. Uno di questi è considerare le capacità come sinonimo di carattere per giustificarne l’aspetto di immodificabilità. Le capacità sono principalmente il risultato del nostro apprendimento e delle nostre esperienze professionali; il loro stato di efficacia si modifica nel tempo in relazione a ciò che proficuamente facciamo. Le capacità, al pari dei muscoli, possono essere, in particolari periodi della nostra storia professionale, più o meno toniche, in relazione al loro stato di allenamento pratico. Succede, infatti, che se una capacità non viene esercitata per un certo periodo, questa possa atrofizzarsi al pari di un muscolo non utilizzato. Per le imprese che devono continuamente misurarsi con la competizione di mercato, il capitale umano è la risorsa chiave, qualunque siano i prodotti e i servizi proposti. Il valore di un’impresa è fortemente condizionato dalle capacità che devono essere esercitate dai vari professionisti.
In termini di competenza il pensiero prospettico assume questo significato: abilità a formulare ipotesi e scenari alternativi al fine di prevedere l’andamento dei fenomeni nei quali si è coinvolti. Mettere in campo questa competenza significa agire i seguenti passi realizzativi: a) analizzare la situazione attuale in termini prospettici anche in carenza di dati di riferimento; b) cogliere e selezionare i segnali di cambiamento rimettendo in discussione ciò che appare ovvio e utilizzando il termine “se”; c) prevedere le configurazioni future definendo i probabili andamenti e le possibili evoluzioni.
Questa competenza è presente in quasi tutti i profili manageriali come requisito core dell’esercizio gestionale. Tracciare la rotta richiede di ipotizzare mete e percorsi desiderabili, ma anche prevedere quelli indesiderabili al fine di poter governare le criticità. Spesso questa competenza viene inserita nei percorsi di assessment (processi di misura strutturati) delle competenze con risultati che ci obbligano a riflettere. Da un campione di circa 5000 manager del panorama italiano risultano i seguenti dati:
- Solo il 2% mette in campo con efficacia questa competenza. Per loro questa abilità costituisce un vero e proprio punto di forza;
- il 35% si attesta su dati che possono esprimere una sufficiente adeguatezza (nel senso che arrivano ad agire questa capacità ma con notevoli sforzi, errori continui e aumento della variabile tempo impegnata);
- il rimanente 63% arranca in difficoltà applicative e in vere e proprie incapacità a delineare mete e scenari alternativi, se non quelli basati sulla logica deduttiva nel breve periodo.
I motivi sono da ricercarsi nella natura delle competenze. Queste, come abbiamo già avuto modo di accennare, sono il risultato del nostro apprendimento. Ma è proprio il percorso di apprendimento professionale che non si è appropriato di modalità tipiche delle prassi di anticipazione e di pensiero sistemico. L’apprendimento sembra continuare la sua strada su percorsi lineari, magari infarciti da qualche briciola di pensiero out of the box che il più delle volte rimane come idea incapace di attecchirsi su un terreno di fattibilità. Ma non è solo il mondo manageriale a soffrire di questo deficit: la nostra economia italiana sembra incapace di prospettive, il nostro sistema sociopolitico si muove nella brevità d’azione.
Come possiamo sviluppare e allenare il pensiero prospettico? Sicuramente il campo di intervento dovrebbe posizionarsi fin dal sistema scolastico primario per diventare parte integrante di una prassi di apprendimento dei percorsi formali. Le organizzazioni di business, invece, dovrebbero introdurre e intensificare i loro programmi formativi sul pensiero prospettico e le metodiche di anticipazione. Nel nostro ambito Ideamanagement, società che si occupa dello sviluppo delle competenze manageriali, in collaborazione con -skopìa, una start up dell’Università di Trento, ha iniziato un faticoso percorso di formazione manageriale. Perché faticoso? Perché bisogna superare le resistenze sulla utilità del pensiero prospettico di una classe manageriale stressata dal dio budget e dalla visione trimestrale. Perché allenare il pensiero prospettico è faticoso, soprattutto quando il pensiero viene relegato nelle retrovie dell’azione o meglio della re-azione. Ideamanagement, insieme a -skopìa, ha messo a punto il percorso Futures e Pensiero Prospettico: Developing Anticipatory Thinking (DAT).
Allenare la learning agility
La chiave di volta risiede nei processi di apprendimento continui ma, soprattutto, in una meta-competenza trasversale che va allenata e sviluppata: la learning agility. Si tratta dell’abilità e della propensione di una persona a imparare dall’esperienza – propria e altrui – e di applicare ciò che apprende per migliorare le performance future. I compiti manageriali si evolvono, i ruoli hanno confini sempre meno definiti: l’unica certezza è che le strategie applicate nel passato potrebbero non funzionare più nel contesto attuale o in quello futuro. La learning agility è la meta-competenza trasversale che aiuta i manager a rispondere alle sfide di un presente incerto e di un futuro poco prevedibile. Il manager agile è colui, o colei, che ha il coraggio di continuare a imparare per essere pronto/a ad affrontare le sfide di oggi e quelle di domani. Molteplici ricerche hanno dimostrato come le persone più agili nell’apprendere non solo hanno una “cassetta di strumenti” più ricca per affrontare le difficoltà, ma sono capaci di rispondere alle novità e alle sfide con un più completo uso delle proprie risorse (cognitive, relazionali, emotive…), tale da rendere le proprie risposte più efficaci ed efficienti, sia di fronte a prospettive strategiche, sia operative.
I 4 orientamenti di learning agility (agilità di pensiero, agilità relazionale, agilità nei risultati, agilità nei cambiamenti) possono influenzare l’apprendimento di future competenze cognitive, relazionali e gestionali.
Riconoscere e saper gestire la componente emotiva
Tra le diverse capacità, i manager oggi hanno necessità di apprendere due abilità per loro strategiche: gestione dell’incertezza e gestione dei conflitti interpersonali.
Le competenze dell’area emozionale ci introducono a prendere consapevolezza sulle emozioni che, grazie all’esperienza e ai nostri processi di apprendimento, si trasformano in sentimenti. Spiegare cosa sia un sentimento non è facile. Qualsiasi definizione ingabbierebbe in una descrizione razionale un contenuto che razionale non è. Il secolo scorso si è chiuso lasciando in eredità il superamento di una contraddizione in campo aziendale. L’organizzazione del lavoro, fondata sul dominio della razionalità, ha dovuto aprire le porte e iniziare a occuparsi di quelle forze emotive che possono, nel bene o nel male, fare la differenza. Come la storia spesso mette in evidenza, ci sono situazioni in cui trovarsi nel momento giusto, con l’idea giusta, può modificare il percorso degli accadimenti. Questo è quello che è successo a Daniel Goleman con il suo libro Intelligenza emotiva (1996). Altri studiosi non hanno avuto lo stesso successo, nonostante si occupassero da anni del dualismo tra raziocinio ed emozioni. Bravo Goleman! Il suo libro, letto, o solo sfogliato, ha portato i manager a prendere in considerazione il fatto che le persone, dalle quali pretendiamo risultati e prestazioni eccellenti, quando la mattina arrivano al lavoro non riescono a lasciare a casa la loro componente emotiva. Parlare di emozioni e sentimenti, inoltre, ha permesso di iniziare a sussurrare che le stesse organizzazioni aziendali non producono solo risultati di business, ma così come attivano emozioni positive, generano anche, più o meno consapevolmente, sentimenti negativi e distruttivi.
In un mio libro (Gallo e Varanini, 2018), ho associato a ciascuna competenza un sentimento, a volte produttivo e a volte distruttivo. Quelli positivi sono le fondamenta delle capacità quando vengono esercitate con modalità efficace. Quelli negativi li abbiamo inseriti perché, dal nostro punto di vista, sono quelli che troviamo diffusi in tante storie personali e organizzative, che ci fanno soffrire e possono essere la causa di tanti insuccessi personali e aziendali. Inoltre, quando entrano in gioco, abbassano notevolmente l’efficacia di esercizio delle skill. Se il sentimento produttivo ci porta valore, ci fa star bene, quello negativo distrugge energie, intelligenze e ricchezze. Ho voluto alternare ai sentimenti positivi quelli negativi, perché nelle aziende se ne parla ancora troppo poco; alcuni sono dei veri e propri tabù. Un esempio: è ben difficile che i manager affrontino il tema dell’invidia, al massimo possono prendere in considerazione l’argomento della competizione non costruttiva. Allora, bando alle ipocrisie. I sentimenti sono il motore della vita. A costruire i sentimenti positivi ci pensano l’apprendimento, l’educazione, i valori. Quelli negativi devono essere almeno conosciuti per poterli affrontare e per difenderci.
Non si costruiscono competenze senza prima riflettere sui sentimenti che possono alimentarle o bloccarle. Non si scrivono carte dei valori aziendali senza sapere che i valori vengono quotidianamente sostenuti da sentimenti positivi e minati da quelli negativi. La nostra società viene definita complessa, contraddittoria, fluida. Ma proprio per questo il ricorso ai sentimenti è indispensabile, una sorta di meccanismo evolutivo funzionale ad affrontare la difficoltà insita nella complessità.
I rapporti umani sono caratterizzati da sentimenti contraddittori, verso noi stessi e verso gli altri. La società attuale richiede ai porcospini umani di rimanere il più possibili uniti, ma come possiamo farlo se i nostri sentimenti spesso ci allontanano dagli altri, se abbiamo paura e non abbiamo fiducia negli altri? Per la maggior parte di noi non è facile trovare un equilibrio tra il nostro funzionare come singoli e l’interagire con gli altri, prestando attenzione ai nostri e ai loro bisogni. Così come ci troviamo spesso in situazioni contraddittorie in campo organizzativo dove, da un lato veniamo valutati per le nostre performance individuali, dall’altro ci chiedono di collaborare e partecipare a team, lasciando un passo indietro la nostra individualità.
Il termine sentimento viene spesso usato nel linguaggio comune come sinonimo di emozione; in realtà ci sono sicuramente delle affinità, ma anche delle differenze sostanziali. Anche nei sentimenti c’è il nostro apparato fisico-sensoriale che “sente”, ma questo percepire è elaborato e integrato da una componente cognitiva, che trasforma le emozioni sulla base di parametri conoscitivi. Visto il ruolo particolare dei pensieri, le emozioni vengono sperimentate prima e i sentimenti successivamente; questi sono quindi il gradino successivo delle emozioni. Il rapporto fra i sentimenti e le emozioni è così stretto che non possono esistere sentimenti senza emozioni. Si possono vivere però delle emozioni senza che necessariamente da esse si sviluppino dei sentimenti.
Volendo riepilogare alcune caratteristiche distintive, il sentimento è una emozione che si caratterizza per la sua continuità nel tempo. L’emozione può essere di forte intensità e di breve durata; un sentimento, invece, può essere attenuato come intensità percettiva, ma diventare duraturo nel tempo. Esso nasce da una o più emozioni, ma si alimenta nel tempo reiterando tali emozioni e, in qualche modo, nutrendosi di queste; inoltre, si caratterizza per la complessità degli elementi che lo compongono, che funzionano tra loro con delle relazioni sistemiche, tanto che in alcuni casi si fatica a individuarne i confini di influenza. I sentimenti, a differenza delle emozioni che sono delle forme di reazione, diventano dei veri e propri modi di essere. Se il sentimento è il prodotto del nostro pensare, diventa la modalità privilegiata con la quale ci relazioniamo agli altri e all’ambiente, risultando da questa fortemente condizionato. Il sentimento diventa così il risultato del nostro sforzo adattativo, anche nei casi in cui i suoi effetti si rivelino disfunzionali per l’individuo stesso e per l’ambiente. L’apprendimento gioca un ruolo strategico nei sentimenti, sia nella loro genesi, sulla base delle esperienze, sia nel loro percorso di cambiamento. Questo è il motivo per il quale essi dovrebbero trovare posto in tutti i programmi formativi, in campo scolastico e nelle organizzazioni di business, proprio perché sono il risultato del nostro apprendimento e lo influenzano. I sentimenti, infine, sono contagiosi. I nostri ambienti sociali spesso trasmettono sentimenti positivi, ma possono anche “infettare” gli individui con quelli negativi.
Vogliamo chiudere con una ipotesi in tema di sentimenti legati al pensiero prospettico. La nostra esperienza ci dice che tra i diversi, alcuni possono costituire la benzina per far evolvere il pensiero prospettico: l’ottimismo, l’entusiasmo e la fiducia. Ma ce ne sono alcuni che possono uccidere il pensiero prospettico: l’indifferenza, il rancore, la rinuncia. È solo una ipotesi che si prefigge un obiettivo chiaro: farci pensare.
Bibliografia
- Gallo A., Competenze e sentimenti, Ascoltare i sentimenti per far crescere le competenze, Este, Milano, 2015.
- Gallo A., F. Varanini, Narrare le capacità, Este, Milano, 2018.
- Gallo A., Donati R., Voglio solo il mio yogurt. Il viaggio nel cambiamento, Este, Milano, 2018.
- Gallo A., Il mestiere di capo. Dote innata o learning agility?, Franco Angeli, Milano, 2019.
- Goleman D., Intelligenza emotiva, Rizzoli, Milano, 1996.
- Popper K., Lorenz K., Il futuro è aperto, Bompiani, Milano, 2002.