Ma l’immagine è un certo tipo di coscienza.
L’immagine è un atto e non una cosa.
L’immagine è coscienza di qualche cosa.
Jean-Paul Sartre, L’immaginazione
Ciò che distingue un avatar da tutte le altre simulazioni virtuali è il fatto di poter essere “occupato”. Un avatar non è una figura autonoma, o semplicemente un omologo come, ad esempio, la controfigura di un ballerino, anche se è programmato per eseguire diversi gesti. Analogamente, è possibile gestire i movimenti di una marionetta, ma non è possibile “occuparla”. C’è, dietro l’avatar come dietro la controfigura, una persona che lo dirige. Inoltre, l’avatar consente all’utente di evolvere nello spazio virtuale, un’area fatta su misura. Quindi l’avatar è una maschera, ma è anche più di una maschera, perché rivela non solo la presenza dell’utente, pur cambiando il suo aspetto, ma si evolve in sua vece in un contesto diverso, già occupato da altri avatar, cioè da altri utenti. A distinguere l’avatar dall’essere una semplice opzione di travestimento è anche, appunto, la co-presenza di differenti “soggetti” in un ambiente virtuale comune.
Il termine avatar, mutuato dalla tradizione indù, assume qui il suo significato originale, quello di “discesa” di una divinità in forma visibile sulla terra. L’utente ‘cala’ nel suo avatar per apparire e per occupare lo spazio virtuale. Per fare questo ha bisogno di assumere una forma particolare, anche se malleabile e trasformabile a volontà. L’avatar definisce ciò che l’utente vuole mostrare di lui o di lei, l’aspetto, gli attributi, i desideri, i poteri. Le possibili varianti sono complesse e inesauribili sebbene i mezzi, in generale, siano ancora molto limitati. Alcuni vogliono mostrarsi agli altri diversi da come sono realmente; altri, invece, cercano di mantenere l’aspetto del proprio avatar il più vicino possibile al proprio. Per sottolineare questa opzione, vi sono anche quelli che si presentano in forma ibrida, in parte grafica, in parte fotografica.
L’avatar invita pertanto a domande sull’identità, la soggettività e il ruolo dell’immaginazione. Proiezione elettronica della persona, l’avatar può essere considerato una sorta di Pinocchio dell’era elettronica. Ricordiamoci che la prima versione di Pinocchio, un burattino meccanico, fu un simbolo dell’era industriale che cominciava a invadere le campagne allorquando i contadini iniziarono a diventare operai nella catena di montaggio. I contadini erano vittime di una robotizzazione che si traduceva nell’interiorizzazione della natura meccanica delle tecnologie di fabbrica. Il primo Pinocchio doveva subire una serie di prove prima di potere finalmente diventare di carne e ossa, trasformandosi in un essere umano. Questo rito di passaggio attraverso la macchina per trovare un nuovo equilibrio si ritrova oggi in film come Tron, Blade Runner, Matrix, AI-Intelligenza artificiale, Il tagliaerbe, e molti altri grandi sogni collettivi di Hollywood in cui vengono testati e offerti diversi modelli di Pinocchio 2.0.
Essere John Malkovich, per esempio, è un modello del rapporto con un avatar. Il protagonista ‘cala’ letteralmente, attraverso un condotto confuso (la matrice?), all’interno della testa di John Malkovich, per prendere in prestito il suo punto di vista e sostituirsi alla sua soggettività. Mostrando l’occupazione di un essere umano da parte di un altro, il film introduce ed evidenza questo modo di “occupare” come caratteristica propria del rapporto con l’avatar. Nel mondo virtuale, l’avatar ha quindi uno status speciale. Il rapporto con l’utente è doppiamente soggettivo. Si potrebbe anche pensare che l’avatar sia un secondo soggetto, un soggetto del soggetto, un sub-topic. La dimensione teatrale metaforica dell’avatar non deve sfuggirci, perché rivela una funzione epistemologica sottostante a una corrente cognitiva che corrisponde a un momento di metamorfosi del soggetto nella cultura digitale.
Infatti, le dinamiche fondamentali delle transizioni epistemologiche tra un modo di essere nel mondo e un altro sembrano richiedere due passaggi obbligatori: il primo è quello di esteriorizzare e proiettare il nuovo modello umano al di fuori del corpo dell’utente, mentre il secondo è quello di interiorizzarlo come sostituto del modello precedente. L’invenzione del teatro nell’antica Grecia fu probabilmente necessaria per proiettare nelle vesti dell’attore una forma oggettiva e visibile dell’individuo nell’occidente alfabetizzato. L’attore, come è ben noto, emerge dal coro nel corso di due secoli di sperimentazione teatrale. La parte impersonata diventa così alla fine uno specchio per lo spettatore, che vedrà se stesso come attore della propria vita, tramite una proiezione interiore di questa figura. Gli spettatori greci, e successivamente quelli romani ed europei, scopriranno se stessi come esseri autonomi per la prima volta sul palco: dapprima fisicamente ridotto alla partecipazione obbligatoria alla vita comunitaria della tribù, e poi psicologicamente isolati dal dramma tragico che affligge il personaggio, o dalla caricatura comica che egli fa attraverso le caratteristiche che distinguono il suo comportamento dalle norme morali del coro e degli spettatori.
Tuttavia, questa prima fase della transizione sarà solo il preludio al secondo passaggio obbligatorio, che gradualmente porterà il pubblico a interiorizzare questo modello per farlo proprio. Con l’aumento della frequentazione del teatro, e sotto la pressione di altre trasformazioni sociali nella cultura, inclusa in particolare la comparsa della lettura silenziosa e poi del romanzo, la trasformazione avverrà in gran parte inosservata. L’evoluzione della tragedia greca tra Eschilo e Euripide può essere letta in questo senso, perché, come ha sottolineato Nietzsche, ciò che caratterizza il “dramma” di Euripide è la “comparsa del pubblico sul palco”, che rappresenta la realizzazione di quella metamorfosi psicologica e sociale che permise ai cittadini comuni della città greca di diventare attori nella loro vita quotidiana. La loro tragedie personali riguardano solo loro stessi, laddove il destino dei grandi eroi e di altri personaggi dell’Iliade o dell’Odissea al tempo di Eschilo decideva al tempo stesso il destino dell’intera comunità. Al centro di questa transizione epistemologica tra cognizione comunitaria e privata troviamo l’opera di Sofocle, che presenta personaggi in preda al dubbio e decisioni critiche per il bene della città. Edipo, Antigone ed Elettra presenteranno le loro incertezze e il (nuovo) senso di colpa come modelli dei processi decisionali individuali degli spettatori.
Questo lungo sviluppo è stato probabilmente necessario per invitare all’individualità una cultura che stava cominciando allora a scoprire l’isolamento psicologico e intellettuale attraverso la lettura. Ricordiamo che Montaigne si ritirò nella sua “biblioteca” per trovare la tranquillità necessaria per la lettura e la scrittura dei suoi Saggi. Fu necessario interiorizzare il modello dell’attore e della scenografia teatrale per educare all’immaginazione come strategia di lettura interpretativa. Questo effetto divenne dominante quando, molto più tardi, come stimano i ricercatori, la lettura silenziosa divenne la norma. La lettura dei romanzi apparve molto dopo che la partecipazione agli spettacoli teatrali era stata pienamente interiorizzata da una parte e dall’altra, quando la cultura della scrittura si sviluppò fino allo stadio decisivo di maturazione e rese quella transizione irreversibile fino ai giorni nostri.
È quindi ipotizzabile che la funzione del teatro fosse quella di conferire a una cultura alfabetizzata un esempio pratico di come fare per immaginare o trasformare le parole in immagini durante la lettura di un testo. Un’altra funzione fu quella di interiorizzare la lingua come supporto per pensare. La lettura di romanzi rese possibile alle nuove generazioni lo sviluppo di un linguaggio appropriato in forma di pensiero. Quando la lettura divenne la norma, il teatro venne soppiantato dal più economico e portatile romanzo, e l’arte dello spettacolo divenne una reliquia d’altri tempi. La lettura di romanzi e poesie ebbe anche l’effetto di introdurre e migliorare il riconoscimento e la decodifica di parole e frasi, sia sub-vocalizzate che lette ideograficamente nella mente del lettore, sviluppando così l’immaginazione.
Il linguaggio interiorizzato è uno dei tratti distintivi dell’epistemologia occidentale fino all’arrivo dell’elettricità. Sin dalle prime invenzioni elettriche, a partire dal telegrafo, l’elettricità non ha mai smesso di produrre tecnologie per riprendere il controllo del linguaggio. Oggi siamo testimoni e partecipi di una nuova fase di esteriorizzazione della lingua sugli schermi attraverso immagini già prodotte per l’utente, così da riprodurre una funzione mentale al di fuori della mente. È possibile riflettere su ciò che vediamo e interpretiamo ma non possiamo – ancora – cambiarlo a piacimento come facciamo quando pensiamo. Quindi la forza che agisce sulla nostra mente non è dentro, ma fuori di essa. Ed è anche all’esterno che la nostra coscienza viene sedotta costantemente da una moltitudine di schermi. Ciò solleva questioni di identità, ma si tratta probabilmente solo del preludio di una nuova fase di interiorizzazione.
L’immaginario oggettivo
Leggere e scrivere sono azioni che conferiscono alla mente privata un linguaggio che è totalmente sotto il controllo dello scrittore-lettore. Questa facoltà fornisce al lettore confidenza e gli permette di rappresentare se stesso come una figura distaccata, un omuncolo che pensa. Questo è già un avatar interno. Questo omuncolo riapparirà, ma in forme esteriorizzate, come avatar all’interno di simulazioni 3D in ambienti quali, tra gli altri, Second Life. Anche se non è più di moda, Second Life merita ancora la nostra attenzione dal momento che estendeva a un pubblico un volta molto più grande di quello di oggi il più completo e accessibile ambiente virtuale condiviso. Seppur piuttosto ingenuamente, Second Life esemplificava drammaticamente l’esteriorizzazione di ciò che fino ad allora era riservato all’intimità della mente, ossia l’immaginazione. Per esempio, Second Life invita i partecipanti a costruire elementi di scena, ma questi non restano localizzati nei loro pensieri. Le schermate di Second Life spostano la posizione dell’immagine dall’interno all’esterno della coscienza. La stessa cosa, naturalmente, si verifica di fronte a un dipinto, una fotografia, oppure a un film, ma non nello stesso modo. Davanti a un quadro o allo schermo del cinema, la soggettività dello spettatore rimane completa e ben separata dall’oggetto proposto. L’interpretazione, sia essa delirante o ragionevole, resta una funzione interiore. Ciò che differenzia l’universo virtuale di Second Life è la partecipazione degli utenti all’ambiente immaginato. In tal modo i mondi virtuali possono essere considerati ambienti ibridi di compenetrazione e interazione tra la soggettività attiva dell’utente e l’oggettività dell’ambiente virtuale occupato. La soggettività dello spettatore-partecipante viene proiettata nell’ambiente esteriorizzato immaginario. Definisco immaginario oggettivo questo processo di delega di soggettività a un ambiente che è separato dal mondo mentale dell’utente.
Come ogni simulazione virtuale di ambienti 3D, Second Life rappresenta un momento significativo di maturità tecno-psicologica che accompagna la cultura digitale ormai globale dopo l’invenzione del telegrafo. Significativo perché si tratta di un nuovo passo nell’esteriorizzazione sistematica delle facoltà una volta interiorizzate attraverso la scrittura. Il virtuale esteriorizza il sé immaginario, e ciò dopo che la tecnologia ha già iniziato a esportare memoria (online sul web) e intelligenza (artificiale). Infatti, così come già Platone osservava nel Fedro che l’effetto della scrittura è quello di esteriorizzare la memoria, la comparsa degli schermi come impianti di trattamento delle informazioni ha continuato a esteriorizzare le facoltà di calcolo, la progettazione, la classificazione, il design e ora anche l’immaginazione. Second Life è dunque un esempio tra gli altri, di come le funzioni che ritenevamo essere rinchiuse esclusivamente nella nostra psiche, come la memoria, il richiamo attivo di qualcosa o l’immaginazione, la creazione di immagini, sono in realtà parte di un processo di migrazione verso schermi che si trovano ben al di fuori delle nostre teste, da utilizzare per nuovi scopi. La peculiarità di Second Life è che questa finzione, come l’immaginazione stessa, permette di vedere il mondo in due modi fondamentali, replicando ciò che avviene nella nostra mente o attraverso la lettura: un punto di vista puramente soggettivo davanti ai nostri occhi, e l’altro oggettivo, come un omuncolo con un ruolo sul palcoscenico di un teatro.
Per continuare a leggere un romanzo, non c’è niente di più facile che ricostruire la scena e i personaggi che avevamo costruito ieri nella nostra immaginazione. Inoltre, possiamo facilmente assumere nella nostra mente la posizione del narratore, o di qualcuno dei personaggi. Possiamo inoltre passare rapidamente dalla vista del personaggio a quella dal punto di vista del personaggio. Possiamo considerare l’ambientazione e le azioni da un punto di vista oggettivo o soggettivo a nostra scelta. La presenza di un narratore in prima persona invita naturalmente il lettore a occupare questa posizione privilegiata nel suo spazio mentale, specialmente se il narratore non è definito da una caratterizzazione puntuale e dettagliata. Il lettore occupa lo spazio del narratore, ma non sa cosa il narratore dirà prima di proseguire nella lettura. Il compito del narratore è quello di illustrare mentalmente la continuità di luoghi, personaggi ed eventi e riflettere su di essi. Assumere il punto di vista di un personaggio diverso dal narratore richiede uno sforzo mentale più sostenuto. In assenza di un narratore in prima persona, i personaggi sono preferibilmente interpretati in terza persona e immaginati come attori su un palcoscenico. Siamo in grado di identificarci emotivamente con essi, ma non possiamo prendere il loro posto. Ma esattamente come quando leggiamo i dialoghi di un’opera, è per noi più facile, più comune immaginare gli interlocutori in terza persona piuttosto che fare lo sforzo aggiuntivo di cambiare il punto di vista a ogni cambio di voce, cosa che invece per necessità l’autore è stato costretto a fare.
Second Life offre più possibilità per l’utente. Mi è capitato di tenere una conferenza in Second Life il 16 aprile del 2008 nella “Second Life Unacademy” creata e diretta da Giuseppe Granieri. Ricordo la sorpresa che provai – e che avrei dovuto essere in grado di prevedere – quando spostai il punto di vista da quello sul mio avatar a quello dal mio avatar, in modo da rivolgermi direttamente al mio pubblico. C’erano una cinquantina di persone travestite in modi diversi, sedute o galleggianti sulle sedie di un auditorium simulato. La mia percezione di presenza, sia di me stesso che del pubblico, è stata accentuata dal semplice controllo elettronico. Guardando me stesso come un avatar, non stavo facendo altro che occupare lo spazio virtuale come su un palcoscenico, mentre l’accesso al punto di vista del mio avatar ha immediatamente cambiato il mio rapporto con il pubblico. Improvvisamente sentivo come se le persone presenti fossero diventate “reali”, come in un contesto faccia a faccia. Ero letteralmente co-presente con loro in un modo che non è possibile nemmeno, per esempio, con Skype perché in Skype non occupo lo stesso spazio. Mi resi conto che vedersi come un avatar è ancora solo una simulazione, mentre vedere la simulazione dall’avatar è una esperienza percettiva personale implementata in un universo oggettivo condiviso, cosa che non può avvenire leggendo un romanzo.
In questo senso Second Life – e altre simulazioni in mondi virtuali occupati – ricorda l’esperienza soggettiva comune ai sogni notturni. Nei nostri sogni, prendiamo il nostro posto normale all’interno della nostra soggettività. Ciò non esclude il fatto che, anche senza esserne veramente consapevoli, possiamo anche vedere noi stessi come attori di una scena del sogno. Tuttavia, l’esperienza normale che conferisce al sogno questo caratteristico “effetto realtà” è l’occupazione dello spazio in prima persona. L’esperienza di occupare un avatar in prima persona è diversa dall’esperienza del sogno: nella prima io resto consapevole di non stare sognando. È anche diversa dall’indossare un display montato sulla testa per interagire con gli ambienti di realtà virtuale immersiva, come avviene nei C.A.V.E. (computer-assisted virtual environment). Il senso di occupare lo spazio virtuale si percepisce sicuramente in modo più intenso quando si indossa un casco virtuale. Ciò è in parte dovuto al fatto che il campo visivo non è più delimitato dallo schermo ma si presenta pienamente all’occhio. Qui, tuttavia, appare chiara una nuova distinzione: la soggettività dell’utente non viene spostata. È l’ambiente che viene spostato, non il soggetto.
Leggendo L’immaginazione (1936) e poi L’immaginario (1940) di Jean-Paul Sartre, due opere fondamentali del filosofo francese seguite alla scoperta della fenomenologia di Husserl, si è spinti a chiedersi cosa avrebbe avuto da dire Sartre di questa nuova versione dell’immaginazione emersa con il virtuale. Probabilmente nulla di buono, dal momento che, dopo essere stato appassionato di cinema nella sua giovinezza, Sartre l’avrebbe poi bollato come una “prigione mentale”. Nell’opporre l’immaginazione del lettore a quella dello spettatore, Sartre scriveva nel 1924: «Noi non dimentichiamo il nostro io, la nostra ragione quando leggiamo un libro. Al cinema, […] rapiti dai gesti precisi, amplificati dallo schermo, non possiamo più opporci diametralmente, ciò contrapporre il nostro Io alle azioni lì fuori, il regista ci porta mano nella mano dove vuole. Siamo i suoi giocattoli. Ci impone la sua concezione del dramma» (Sarte, 1924).
Qui Sartre sottolinea molto chiaramente che egli riteneva l’immagine sullo schermo un sostituto di quella mentale, e che considerava questa cosa problematica. Più tardi, in una conferenza del 1958, Sartre sarà ancora più severo sulla “percezione diretta” del cinema: «(I film) mi fanno vedere quello che vogliono loro; la nostra percezione delle immagini è diretta. […] Nel teatro, invece, guardiamo chi vogliamo. […] Dunque, più libertà» (Sartre, 1958).
Non c’è bisogno qui di tornare sull’abbondante letteratura critica sulla lente focale, sul doppio significato dell’obiettivo in senso tecnico e, in senso psicologico, ciò che non è soggettivo e quindi non si trova nel pensiero. Se torno su Sartre è perché la nuova tematica dell’immaginario oggettivo ha bisogno di confrontarsi con le intuizioni magistrali del filosofo. Sartre distingue l’immaginazione dalla percezione in quanto, secondo lui, la prima è attiva mentre la seconda è passiva. Sartre potrebbe essere in errore, se si considerano le più recenti ricerche neurologiche, dal momento che oggi sappiamo che la percezione ha, al contrario, un ruolo molto attivo nella ricostruzione continua del mondo sensoriale. Ma non è questo il punto. Ciò che Sartre ha chiarito è che l’immaginazione è sempre l’effetto di una volontà cosciente, una produzione, mentre la percezione è una risposta a dati visivi e sensoriali. Basta chiudere gli occhi per convincercene. La stessa scena “riprodotta” dall’immaginazione non è semplicemente la ricezione del visibile, ma la costruzione di un’immagine, generalmente in una versione meno dettagliata, più schematica, di ciò che abbiamo appena visto. Jean-Pierre Changeux ha introdotto in questo contesto una distinzione radicale tra percetti, immagini della memoria e concetti. L’immaginazione si basa su immagini costruite a partire da ricordi recuperati o riassemblati (Changeux, 2003). Sartre diceva che l’immaginazione non era nella coscienza, era la coscienza stessa, consapevole, attiva e spontanea: «L’immagine è un certo tipo di coscienza. L’immagine è un atto, non una cosa. L’immagine è la coscienza di qualcosa» (Sartre, 1936).
Quest’idea dell’immagine come atto è una sorta di cerniera o un possibile raccordo tra l’interiorità del pensiero e l’esteriorità del avatar. Infatti la gestione dell’avatar è davvero un atto o una serie di atti mentali controllati dal mouse e dalla tastiera. Nel punto di vista dell’avatar avviene la fusione o il passaggio tra l’esterno e l’interno della cognizione. Ritornando alla sua argomentazione, Sartre afferma quasi en passant che l’immagine è effettivamente all’interno della coscienza, ma come una sorta di costruzione “analogica” e non piuttosto come un riflesso di qualcosa: «L’immagine mentale non è una interiorizzazione del reale, ma un atto [della coscienza] che, nella sua configurazione, ha l’obiettivo di proporre un oggetto assente o inesistente, attraverso un contenuto fisico o mentale che non pretende di essere altro che una rappresentazione analogica dell’oggetto» (Sartre, 1940).
Sebbene la sua natura sia digitale, un avatar di Second Life può essere anche considerato come una rappresentazione analogica. Esattamente come la definizione sfocata di un personaggio di un romanzo o una “immagine della memoria” (Changeux), l’avatar è una rappresentazione schematica. Tuttavia, essa sfida l’interpretazione di Sartre proprio perché si trova al di fuori della coscienza. Guidare un avatar non è la stessa cosa di guidare una macchina on-line, per esempio in un videogioco, perché la macchina non è il guidatore. L’avatar è al tempo stesso oggetto della percezione e soggetto dell’azione. La novità per Sartre è che egli sarebbe stato costretto a rilevare che la partecipazione volontaria negli ambienti virtuali comporta permutazioni tra coscienza e schermo, tra interiorità ed esteriorità, tra soggettività e oggettività, pur mantenendo tutti questi componenti ben distinti. Proprio come quando a volte dimentichiamo di star leggendo un romanzo, quando si naviga in un mondo virtuale attraverso la vista dall’avatar o attraverso un casco virtuale siamo presto tentati di dimenticare che stiamo guardando una schermata, perché quello che stiamo guardando non è sullo schermo ma nello schermo, proprio come quando leggiamo un libro, o quando sogniamo.
Conclusione: la grande inversione
È questo aspetto dello status ibrido oggettivo/soggettivo dell’avatar che mi invita a riprendere le considerazioni esposte sopra riguardo il doppio movimento dell’esteriorizzazione e dell’interiorizzazione e il conseguente impatto delle tecnologie pervasive del linguaggio e della comunicazione sull’identità e la rappresentazione.
Tappe fondamentali
Dopo due grandi ondate di alfabetizzazione, la prima dopo l’invenzione del teatro greco, la seconda dopo quella della stampa, oggi, a partire dal telegrafo, una dopo l’altra, nuove ondulazioni elettriche, elettroniche o digitali, trasformano le relazioni interno/esterno, oggetto/soggetto, e soprattutto le identità di ciascuno di noi, a prescindere dalla formazione culturale. Internet e la televisione hanno portato il mondo nelle nostre case, ma lo smartphone trasforma il mondo in un enorme spazio cognitivo. La discontinuità tra il pensiero e il mondo sembra scomparire. Secondo l’antropologo Philippe Descola, il naturalismo occidentale differisce dal totemismo amerindo per la sua fede nella continuità del materiale (il mondo esterno) e nella discontinuità dell’interiorità (la natura unica, esclusiva e personale del pensiero). Secondo il naturalismo, ognuno di noi dovrebbe essere un attore indipendente di un teatro universale e infinito (Descola, 2011). Il nuovo attore è l’avatar e l’avatar è connesso a tutto. È fatto della stessa materia – digitale – del mondo a cui appartiene.
Probabilmente la scomparsa nel dimenticatoio della realtà virtuale e di Second Life, e la sua trasformazione in fenomeno di culto, suggerisce che l’interiorizzazione dei nostri modelli sociali ha già avuto luogo. In linea di principio, a prescindere dalla nostra formazione culturale, tutti dovremmo essere favorevoli a immaginarci come avatar, ossia figure tele-guidate che incarnano la nostra identità e ci rappresentano nel mondo sociale. I nostri corpi non sarebbero che una delle diverse varianti offerte alla nostra coscienza ormai enormemente aumentata dallo spazio digitale. Io sono di fatto costituito dalle mie relazioni, la mia identità è distribuita, non localizzata esclusivamente in un posto specifico o definito da un singolo modello. Tuttavia, sono carne e ossa solo in questo specifico punto, il mio “sé”, la mia presenza nel mondo contingente. Da questa posizione inizia il resto, ma tutto il resto si muove insieme a me. La mia variante fisica e contingente, inclusi i miei sentimenti, fanno parte di tutto il resto e si dissolvono nella somma di tutte le mie percezioni, attraverso reti – fisiche, sociale o digitali – che sono distinte e complementari. Posso rappresentare me stesso in mille modi, crearmi migliaia di profili, così da diventare un essere distribuito. Ogni elemento di questa distribuzione del mio sé è una sorta di avatar più o meno definito dagli strumenti di correlazione dati utilizzati dai miei “creatori”.
Inoltre, io riverso all’esterno la mia interiorità, perché avendo già esportato tutte le mie facoltà sullo schermo, ora mi rendo conto che esporto anche la mia vita, la mia durata temporale. Come se non bastasse, qualunque cosa io faccia su Internet dal mio laptop o dal mio computer lascia tracce che sono a disposizione di chiunque abbia il diritto, a mia insaputa, di usarle. Questo è ciò che chiamo il mio “inconscio digitale”. La mia identità è dunque globalizzata e queste tracce memorizzate in innumerevoli banche dati sono la fonte o l’origine di innumerevoli profili di cui posso controllare e gestire solo una frazione.
Per recuperare una parvenza di autonomia, di soggettività fondamentale, devo essere in grado di invertire la situazione. Dal momento che le mie facoltà, così come il mio essere, stanno subendo un processo di esteriorizzazione perpetua, l’unica conseguenza possibile è di interiorizzare nuovamente, riassorbire questa esternalità apparente. Anche in questo caso, mi imbatto in Pascal: «Nello spazio, l’universo mi comprende e m’inghiotte come un punto; nel pensiero, io lo comprendo» (Pascal, 2014).
Il concetto è che l’avatar porta la soggettività all’interno dell’universo digitale. È il luogo della fusione, della trasformazione e dell’interscambio tra il soggettivo e l’obiettivo, tra l’organico e il digitale. L’avatar è fatto dello stesso materiale del mondo virtuale e partecipa in esso, come noi partecipiamo fisicamente nel mondo fisico. Il codice universale binario è fatto solo di 0 e 1, ma gli innumerevoli servizi ed eventi che produce sono radicalmente diversi. Nel momento in cui lo schermo diventa il centro di tutte le operazioni cognitive, tutta la nostra interiorità si svuota riversandosi all’esterno: la memoria, l’immaginazione, la riflessione, la ricerca, la progettazione, il calcolo si riversano nella rete e nei database. E ora, la memoria stessa, la riflessione, la ricerca sono localizzate al di fuori della nostra testa.
Tuttavia, il pensiero di ciascuno di noi resta alloggiato nella testa, non è lo schermo che pensa. Pensare è il modo di trarre le conclusioni di tutto questo processo intellettivo dell’informazione. Tuttavia, quando diverrà possibile stabilire un contatto diretto ed efficace tra il pensiero e lo schermo o la rete, ciò comporterà molto probabilmente una radicale inversione della polarità interno-esterno. È qui che l’avatar servirà da modello. Perché il passaggio attraverso l’avatar apre alla possibilità di invertire i valori di interiorità ed esteriorità. Il corpo sarà percepito come un locus e un sistema di occupazione del più ampio apparato cognitivo esterno ad esso durante la totalità dell’esperienza vivente. Le persone si vedranno e si sentiranno come avatar di un unico, multiforme complesso cognitivo totale.
L’architetto brasiliano Rosane Araujo ha pubblicato un libro intitolato The city is me (2013), in cui egli sostiene che l’idea che noi abbiamo della città o di qualsiasi ambiente che occupiamo è in continuità con l’ambiente e, a diversi livelli di dettaglio, è contenuta e definita dai diversi tempi e livelli cognitivi che possediamo. L’identità, in questa prospettiva, si fonde con l’occupazione e la partecipazione nell’ambiente. Questo tipo di argomentazione solipsistica potrebbe tornare di moda, dal momento che nella fisica fondamentale è stato suggerito che il principio alla base di qualsiasi fenomeno osservato non è la materia, ma l’informazione, ossia il punto di vista che l’informazione che abbiamo sulle cose ci obbliga ad assumere. Secondo questo punto di vista, anche il fenomeno scientifico più razionale non sarebbe che l’effetto (fondato o meno) del punto di vista attraverso cui lo stiamo considerando. L’idea diffusa che il linguaggio matematico o i frattali siano universali è uno di questi punti di vista. La ricerca sul bosone di Higgs ne è un altro. È ora più che mai tempo di dubitare della realtà ontologica del reale. Probabilmente era a questo che Giordano Bruno stava pensando quando scrisse che non è la materia ad aver creato il pensiero, ma il pensiero che ha creato la materia. La grande inversione assume esattamente l’argomentazione di Sartre, cioè che l’esistenza precede l’essenza, ma sminuisce le differenze essenziali tra percezione e immaginazione, per vederli entrambi insieme alla conoscenza e alle emozioni come elementi di costruzione della realtà in varie configurazioni e proporzioni. Il mondo stesso sarebbe emerso attraverso un “atto della consapevolezza”. Se si può dire “la città sono io”, bisogna compiere solo un altro passo per potere dire “il mondo sono io”.
In questo caso, lo status ambiguo dell’avatar è una chiave di volta. Come il “passaggio attraverso lo specchio” (senza romperlo), una metafora così ben illustrata da Jean Cocteau nel suo film Orfeo, l’avatar è il luogo di passaggio e di interscambio tra interno ed esterno. O come il cursore sullo schermo, che permette di navigare attraverso l’informazione con il solo pensiero. A causa della sua doppia natura soggetto/oggetto, l’avatar porta la soggettività in questo mondo digitale. Abbiamo già creato gli strumenti cognitivi che vanno anche oltre la soggettività dell’avatar, in un rapporto diretto tra il pensiero e lo schermo. Penso ai Google glass o ai sensori cerebrali che sono già impiegati per guidare i movimenti ed effettuare i comandi sullo schermo semplicemente pensando (vedi eMotiv e tecnologie simili che permettono il controllo mentale di eventi virtuali). Lo schermo di Google glass, sebbene ancora agli esordi, prefigura il posizionamento della retina del mondo direttamente di fronte alla retina dell’utente. L’interiorizzazione dell’avatar passa attraverso questo scambio, perché ogni pensiero che ha probabilità di influenzare gli eventi digitali può, a sua volta, essere guidato e controllato dagli stessi eventi. Credo che la prossima forma dell’essere umano sarà la “persona-mondo”. Ciò significa che ciascuno di noi conterrà il mondo intero nella sua mente e vivrà o sopravvivrà di conseguenza. È solo a questo punto di maturazione tecno-psicologica che l’ecologia diventerà non solo una delle priorità, ma la priorità principale. E sarà necessariamente una priorità sociale, la condizione del benessere personale.
Per approfondire:
- Araujo R., The city is me, Intellect, Bristol, UK, 2013.
- Changeux J.P., Du vrai, du beau, du bien: une nouvelle approche neuronale, 2008; tr. it. Il bello, il buono, il vero. Un nuovo approccio neuronale, Raffaello Cortina, Milano, 2013.
- Descola P., L’écologie des autres. L’anthropologie et la question de la nature, 2011; tr. it. L’ecologia degli altri. L’antropologia e la questione della natura, Linaria, Roma, 2013.
- Pascal B., Pensieri, UTET, Torino, 2014.
- Sartre J.P., Apologie pour le cinéma, 1924; tr. it. Apologia per il cinema. Difesa e illustrazione di un’arte internazionale, a cura di Francesco Caddeo, in “Materia d’Estetica”, n. 1, 2014.
- Sartre J.P., L’imagination, 1936; tr. it. L’immaginazione, Bompiani, Milano, 2004.
- Sartre J.P., L’imaginaire, 1940; tr. it., L’immaginario, Einaudi, Torino, 2007.
- Sarte J.P., Théâtre et cinéma, 1958; tr. it. in Teroni S., Vannini A. (a cura di), Sartre e Beauvoir al cinema, La bottega del cinema, Firenze, 1987.