Una profezia: la fine dell’invecchiamento
Nel 2007, il biogerontologo Aubrey de Grey pubblicò un libro destinato a ricevere grande attenzione dai media: Ending Aging. Il messaggio centrale del libro, scritto a quattro mani con il suo assistente Michael Rae, era insieme una profezia e un programma: riusciremo a sconfiggere l’invecchiamento. Diverse aree di ricerca e metodologie erano poste all’attenzione del lettore per convincerlo che la previsione non era campata in aria, ma dotata di un fondamento scientifico.
Nel campo della biogerontologia un decennio è un’eternità. Molti sono stati gli sviluppi registrati nel frattempo, anche se ancora l’invecchiamento non è stato sconfitto. Pare comunque opportuno tornare sui contenuti di quel libro per almeno due buone ragioni. La prima è che il volume è ora finalmente accessibile in lingua italiana, essendo stato tradotto e pubblicato nel 2016 da D Editore, con titolo La fine dell’invecchiamento. Come la scienza potrà esaudire il sogno dell’eterna giovinezza[1]. La seconda è che il libro di de Grey non affronta la questione della medicina rigenerativa soltanto sotto il profilo tecnico, ma anche sotto il profilo etico-politico. E le questioni etico-politiche sono molte, complesse e ancora tutte aperte. Proprio per questa ragione il biogerontologo inglese ha sviluppato le sue riflessioni in un libro di circa cinquecento pagine.
Se per un cultore di scienze sociali è normale organizzare i propri pensieri in forma di libro, non così è per lo scienziato naturale, il cui tipico formato di pubblicazione è l’articolo su rivista specializzata. Certamente, anche lo scienziato sociale scrive articoli accademici (questo scritto è auto-esemplificativo). E non è certo la prima volta che uno scienziato naturale si impegna nella stesura di un libro di ampio respiro. Tuttavia, per le due categorie di ricercatori, la scelta dei formati avviene in proporzioni inverse e per una ragione ben nota ai sociologi della conoscenza. Lo scienziato naturale può dare per scontata, per non problematica, una massa ingente di studi pubblicati dai colleghi, soprattutto negli anni immediatamente precedenti, e andare subito al punto chiave. Il che si può fare in poche pagine. Proprio per questo motivo, Thomas Kuhn (2009) conclude che la “scienza normale” assomiglia a una soluzione di puzzle. Se non ci si discosta troppo dal “paradigma dominante”, la soluzione è già nelle premesse, ossia nella conoscenza di sfondo non problematica e nelle tecniche di ricerca codificate.
Diversa è la situazione delle scienze sociali, che sono discipline multi-paradigmatiche, ovvero caratterizzate dalla presenza di molte scuole di pensiero in conflitto. A meno che non si pubblichi in una rivista “amica”, dove tutti appartengono per così dire alla stessa confraternita, prima di andare al punto chiave, il ricercatore deve dimostrare almeno di conoscere le tante teorie alternative sulla questione che intende affrontare. Poi le può gettare nel cestino e utilizzare l’approccio della propria scuola, ma non può semplicemente ignorarle. E, così, prima ancora di toccare la questione che gli sta a cuore, ha già riempito parecchie cartelle. Inizia a scrivere un articolo e finisce per scrivere un libro.
De Grey è “costretto” a scrivere un libro perché, da un lato, rompe con il paradigma dominante nel campo della biogerontologia e, dall’altro, si confronta sistematicamente con problemi che di norma rientrano nella filosofia politica o nella bioetica. Utilizzando ancora una volta il vocabolario di Kuhn, possiamo dire che quella di de Grey non è “scienza normale”, è “scienza rivoluzionaria”. Affermare, come lui fa, che l’invecchiamento è una malattia – una malattia che va curata quando inizia a manifestarsi e non quando è troppo tardi per intervenire – significa cambiare i postulati di partenza della biomedicina. Ecco perché de Grey non può più accettare in modo acritico gli studi fatti in precedenza dai colleghi. Oltretutto, tra le soluzioni proposte dal biogerontologo inglese c’è la terapia a base di cellule staminali embrionali e, più in particolare, la cosiddetta clonazione terapeutica. Filoni di ricerca che hanno scatenato reazioni veementi negli ambienti politici e religiosi più conservatori.
Quando ci si mette contro l’establishment accademico e politico, si corre il rischio di rimanere isolati, senza finanziamenti per le proprie ricerche. Diventa così necessario rivolgersi a specialisti al di fuori della propria disciplina, a grandi finanziatori privati e persino alla gente comune, per ottenere un sostegno economico e morale. Questa operazione finisce per trasformare una questione scientifica in una lotta politica. De Grey lo dice a chiare lettere nell’incipit del capitolo undicesimo: «Nel corso della nostra vita perdiamo gradualmente cellule vitali per la nostra salute. Molte terribili malattie legate all’invecchiamento, come il morbo di Parkinson, sono causate da una riduzione nel numero di cellule responsabili di una o più tra le funzioni cruciali dell’organismo. Fortunatamente, le terapie basate sulle cellule staminali ci offrono la possibilità di rimpiazzarle. Eppure, purtroppo, ci sono degli ostacoli che non ci permettono ancora di raggiungere i nostri obiettivi. Tra questi vi è la politica» (p. 412). Un termine, “politica”, che nel libro di de Grey compare circa cinquanta volte.
Gli scopi di questo articolo sono fondamentalmente due. Il primo è richiamare l’attenzione sull’idea dell’invecchiamento come malattia endemica e sulla stem cell therapy come principale rimedio contro questo flagello. Il secondo è elevare il discorso di de Grey a caso esemplare, per mostrare come ogni programma biomedico contenga, implicitamente o esplicitamente, anche un programma biopolitico. Si tratta di una questione già esplorata a fondo da Michel Foucault (1977), ma misconosciuta a chi ritiene vi sia una netta cesura tra le scienze naturali e le scienze sociali.
Staminali adulte o staminali embrionali?
Le cellule staminali possono essere distinte in “staminali adulte” e “staminali embrionali”. Si tratta in entrambi i casi di cellule non specializzate che possono, perciò, assumere forme e funzioni diverse. Le prime sono reperite tra cellule specializzate di un tessuto specifico, mentre le seconde sono estratte dalle cellule interne di una blastocisti. Le prime hanno la caratteristica della multipotenza, possono cioè svilupparsi in cellule diverse, ma non in tutte. Le seconde hanno invece la caratteristica della pluripotenza, perché possono generare pressoché tutti i tipi di cellula, per esempio delle ossa, del cuore, del cervello, del fegato, ecc. (Turksen 2012).
Scienziati, politici e cittadini comuni si sono divisi sulla questione secondo la tradizionale spaccatura che vede un fronte pro life (per lo più cattolici ed evangelici) opporsi a un fronte pro choice (per lo più non credenti e diversamente credenti). I primi sostengono la liceità della ricerca sulle sole staminali adulte, perché ritengono immorale creare e distruggere embrioni umani per scopi scientifici, avendo postulato che la vita comincia dal concepimento e che già all’embrione deve essere riconosciuto lo status di “persona”. I secondi respingono questa narrativa, negano la personalità dell’embrione e sostengono l’eticità della ricerca sulle staminali embrionali, perché in prospettiva più promettente.
Aubrey de Grey appartiene decisamente al secondo gruppo. Esprime un giudizio piuttosto caustico sul programma di ricerca incentrato sulle staminali adulte. Afferma che «alcuni gruppi di potere apertamente conservatori, continuano ad opporsi all’uso delle ECS [Embryonic Stem Cells]. Ma per fortuna, le loro ripetute dichiarazioni, secondo cui le cellule staminali adulte possono curare con efficienza “settanta malattie” sono state giustamente definite “palesemente false”, così come gli articoli che le accompagnano. Il New England Journal of Medicine, solitamente diplomatico, ha definito queste dichiarazioni come “semplici idiozie”» (p. 426). Il biogerontologo inglese spezza invece una lancia a favore delle cellule staminali embrionali, giacché esse sole «hanno il potenziale necessario per ringiovanire gli organismi anziani, sia in termini di varietà delle cellule richieste, sia nei termini di quantità delle cellule necessarie per creare ampi innesti di tessuto, e in alcuni casi perfino interi organi. E ne avremo bisogno» (ibid.).
Le ragioni per cui de Grey ripone speranze in questo programma scientifico sono basate sulla teoria biologica, che indica nelle embrionali cellule capaci di generare qualsiasi tessuto, e sui risultati ottenuti nelle sperimentazioni animali. Ricorda, infatti, che le cellule staminali estratte dall’embrione si sono rivelate in grado di curare diverse specie da terribili malattie di cui soffrono anche gli esseri umani, tra cui «diabete giovanile, danni alla spina dorsale, sclerosi multipla, paralisi cerebrale, ictus, morbo di Parkinson, una forma di paralisi causata da un virus, e, recentemente, la degenerazione maculare (quella forma di cecità causata della perdita di cellule fotosensibili nel centro della retina)» (p. 425). La questione davvero centrale, nella narrazione del biogerontologo inglese, è proprio il morbo di Parkinson. Riconduce questa malattia alla perdita di quei neuroni situati nel cervello che producono dopamina, messaggero chimico che ha un’importante funzione nel controllo dei muscoli. Si tratta di una patologia particolarmente insidiosa, perché può essere diagnosticata solo quando la metà dei neuroni è già andata persa e il controllo muscolare è «compromesso al punto tale che alcune parti dell’organismo iniziano a scuotersi ritmicamente ed involontariamente, mentre il volto si trasforma in una maschera impassibile dall’espressione vuota, o addirittura ostile» (p. 427).
Si pensa sempre che le malattie riguardino gli altri. De Grey ci ricorda, invece, che tutti noi perdiamo ogni giorno i neuroni predisposti alla produzione di dopamina. La sola differenza è che le persone colpite dal morbo di Parkinson raggiungono prima una soglia critica, perché li perdono più rapidamente. Il ricercatore conclude che, «senza la possibilità di rimpiazzare queste cellule, tutti noi svilupperemo questa malattia (se qualcos’altro non ci uccide prima)» (ibid.).
A rallentare il cammino dell’uomo verso l’eterna giovinezza e la vita illimitata non è un’impossibilità naturale o una decisione divina, ma il fuoco di sbarramento delle forze politiche conservatrici. De Grey rimarca, infatti, che gli amministratori scientifici del National Institute of Health (NIH), uno dei più importanti centri di ricerca americani, sarebbero felici di erogare fondi per la ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulla clonazione terapeutica, «se solo le loro mani non fossero legate dai lacci della politica» (p. 459). Lo scienziato di Cambridge allude al fatto che a ostacolare per anni la ricerca sulle cellule staminali è stata la decisione presa dal presidente George W. Bush, il 9 agosto del 2001, «di ridurre i fondi governativi destinati ad essa, consentendo di proseguire i lavori solamente sugli embrioni creati prima della mattina in cui venne fatto l’annuncio» (p. 442). La politica dell’amministrazione Bush ha di fatto ribaltato la precedente decisione di Bill Clinton di erogare al NIH i fondi necessari alla ricerca sulle staminali embrionali. Decisione che, tra l’altro, non era stata ancora messa in pratica. Per quanto riguarda il reperimento del materiale biologico, l’idea originaria dell’amministrazione democratica era di destinare alla ricerca gli embrioni in eccesso provenienti dalle cliniche in cui si effettua la fecondazione in vitro. Il biogerontologo inglese si lamenta soprattutto per il fatto che la decisione di Bush non era fondata su considerazioni scientifiche, ma piuttosto su «opportunità politiche». Si trattava fondamentalmente di compiacere l’elettorato e le tante organizzazioni cristiane che lo avevano portato alla Casa Bianca.
Curiosamente, de Grey non nomina mai, in tutto il suo libro, i “cristiani” o i “cattolici”. Parla sempre, genericamente, di conservatori, sebbene sia noto che sono soprattutto gli ambienti religiosi a mal digerire gli esperimenti sugli embrioni umani e, più in generale, la cosiddetta “manipolazione del vivente”. Evidentemente, l’autore di Ending Aging è pronto a impegnarsi in una lotta politica, ma non a scatenare una guerra di religione. Non a caso, quando alle conferenze gli viene chiesto se l’eterna giovinezza promessa dalla scienza non sia in aperto contrasto con la vita eterna promessa dalle religioni, risponde sempre negativamente. In effetti, l’una non contraddice l’altra. Il ringiovanimento periodico dell’organismo non garantisce, infatti, l’immortalità. E, se vi fosse vita dopo la morte, ne potrebbe in linea di principio beneficiare anche chi prima è ricorso alle terapie anti-invecchiamento. Sebbene il presidente americano non abbia vietato del tutto la ricerca sulle staminali embrionali, essendosi limitato a tagliare i fondi federali a essa destinati, secondo de Grey, è responsabile del declino generale della medicina rigenerativa. La sua decisione è, infatti, suonata come una campana a morto per tutto il settore. Il problema è che, non potendo essere create nuove linee di embrioni, si doveva fare riferimento alle sole ventuno esistenti, le quali non potevano evidentemente rappresentare la diversità genetica dell’umanità. In altre parole, diventava difficile verificare se una determinata scoperta era «una particolarità di quel determinato embrione o una caratteristica da attribuire ad un intero gruppo etnico». Per ottenere risultati attendibili, spiega lo scienziato inglese, è necessario lavorare con un ordine di grandezza di diverse centinaia di linee di embrioni. Oltretutto, a causa della loro età, gli embrioni disponibili stavano «accumulando mutazioni che possono alterare i risultati» (p. 443).
Ne è tutto. Questo tipo di decisioni finisce per avere conseguenze anche al di fuori del segmento della ricerca che intende colpire. Non solo gli scienziati impegnati in questo tipo di ricerche, ma anche gli studenti che devono scegliere i corsi da frequentare all’università, i loro professori, gli imprenditori che devono allocare i capitali, e persino gli scienziati impegnati in aree di ricerca attigue ne subiscono le conseguenze. Alcuni laboratori si sono infatti visti rifiutare il finanziamento pubblico, solo perché le attrezzature che intendevano acquistare avrebbero potuto in linea teorica essere usate per lavorare sulle staminali embrionali. Perciò, de Grey conclude che «la politica si insinua ben oltre i laboratori in cui si lavora sugli embrioni» (p. 445).
La controffensiva politica
L’autore di Ending Aging lascia, tuttavia, una porta aperta all’ottimismo. Racconta che, a un certo punto, si apre una breccia anche nel fronte conservatore. Alcuni personaggi famosi, come Michael J. Fox, affetto da morbo di Parkinson, Kevin Kline, padre di un malato di diabete giovanile, Christopher Reeve, vittima di una lesione alla spina dorsale, e Nancy Reagan, moglie di Ronald Reagan, affetto da morbo di Alzheimer al momento della decisione di Bush e deceduto tre anni più tardi, manifestano il loro scontento per le chiusure dell’amministrazione repubblicana. Comincia a prendere forma «un movimento di opinione politicamente trasversale favorevole all’uso delle cellule staminali embrionali, e in molti casi anche alla completa legalizzazione dell’utilizzo biomedico dell’SCNT» (p. 448). L’SCNT (Somatic Cells Nuclear Transfert) è la tecnica alla base della clonazione terapeutica. Il movimento include persino «Repubblicani anti-abortisti molto noti come Orrin Hatch, Strom Thurmond, Arlen Specter, John McCain e, per finire, il leader di maggioranza del Senato, Bid Frist nonché, a quanto pare, il segretario di Bush per la salute e i servizi sociali, Tommy Thompson» (ibid.).
Il risultato è la ricerca di una linea compromissoria. La coalizione, guidata da Hatch, presenta un disegno di legge per legalizzare la ricerca sulle staminali embrionali a scopo medico, e contemporaneamente vietare la clonazione di esseri umani. Introduce inoltre al Congresso un disegno di legge per permettere l’utilizzo degli embrioni in eccesso, o soprannumerari, provenienti dalle cliniche di fertilità, come fonte di cellule staminali. Pur elogiando questo movimento, de Grey non ne sposa in toto la posizione compromissoria. Certamente, ammette che sarebbe già un’ottima cosa ottenere gli embrioni in eccesso prodotti dalle cliniche, evitando tra l’altro che finiscano in una discarica. E irride come del tutto irrazionali le proposte contrarie del fronte pro life, a partire da quella di autorizzare le adozioni delle blastocisti. Ricorda che «di solito, si ottiene un surplus di otto embrioni per ogni ciclo di IVF, col risultato che nel 2002 si contano 400.000 in eccesso e congelati nelle cliniche della fertilità statunitensi. Almeno 16.000 di questi non sono rivendicati da alcun donatore, e altri 45.000 si trovano in uno stato di ambiguità gestionale simile ai primi». Sicché, appare del tutto «bizzarra» la proposta dei «nemici della ricerca sulle cellule staminali» di prevenire lo smaltimento degli embrioni, impiantandoli «in volontarie che porterebbero al termine il loro sviluppo per poi cederli in adozione». Secondo de Grey, «anche nelle più rosee delle aspettative, non è difficile pensare ad uno scenario realistico in cui anche solo l’1% di questi embrioni possa venir salvato dalla discarica» (p. 429). Bisogna, però, a suo avviso, andare oltre il compromesso, perché la strada maestra per la lotta all’invecchiamento resta quella della clonazione terapeutica. Le cellule staminali derivate dagli embrioni soprannumerari hanno, infatti, «uno svantaggio potenziale che rende problematico il loro utilizzo medico» (p. 430). Il biogerontologo si riferisce al fatto che dette cellule «saranno immunologicamente aliene nei confronti delle cellule del paziente, e perciò saranno un obiettivo per il suo sistema immunitario», causando così gli stessi problemi di rigetto che si verificano con i trapianti d’organo (Zavasava, 2013).
Aubrey de Grey rigetta le argomentazioni dei bioeticisti pro life sulla personalità dell’embrione come del tutto irrazionali, perché parte dal principio che si può parlare di “persona” soltanto dal momento in cui esiste identità e autonomia vitale, per non parlare dell’emergenza del pensiero. Sostiene, infatti, che «i nemici della ricerca sulle staminali embrionali sono ancora più ipocriti di quanto possa sembrare, dato che è loro abitudine riversare le argomentazioni sulle staminali in quelle anti-abortiste» (p. 429). Ritiene la comparazione con l’aborto eticamente fuorviante, perché le blastocisti si trovano in uno stadio piuttosto primitivo dello sviluppo embrionale. Esse non hanno ancora preso «la “decisione” biochimica di svilupparsi in un essere umano ben definito». Proprio per questa ragione, possono dare origine a qualsiasi tipo di cellula del corpo umano. Il punto centrale dell’argomentazione di de Grey è che un embrione, in questo stadio di sviluppo, non ha ancora un’identità definita, tanto che «può ancora dividersi in due popolazioni separate di cellule, ognuna delle quali può svilupparsi in una persona a sé stante, come accade quando si formano due gemelli monozigoti». Se la piccola massa iniziale di cellule può svilupparsi fino a diventare una, due o anche più persone, ne consegue logicamente che essa «non incorpora l’identità, l’essenza o l’anima di un qualsiasi essere umano» (p. 430).
Nel complesso, la questione etica viene dunque spostata su un piano differente. Abbiamo davanti agli occhi malati in carne ed ossa che ci chiedono di essere aiutati. E tutti noi siamo malati, se consideriamo l’invecchiamento stesso una malattia. Riguardo a noi stessi e agli altri malati che assistiamo non c’è dubbio alcuno riguardo la personalità, ovvero riguardo al fatto che si tratta di esseri umani coscienti e in pericolo di vita. Dall’altra parte, anche concedendo il beneficio del dubbio, abbiamo embrioni clonati che potrebbero o non potrebbero essere persone, o embrioni soprannumerari che – quale che sia il loro status ontologico – sono destinati alla distruzione. Sarebbe dunque ragionevole utilizzare le blastocisti per estrarne cellule staminali e provare a curare quei malati di cui è certa la personalità. Non pochi sondaggi, citati dallo stesso de Grey, indicano che larghe maggioranze di rispondenti ragionano in questi termini e si esprimono in favore agli esperimenti sulle blastocisti a scopo medico (p. 446). Il che significa che l’embrione, dai più, non è percepito come “uno di noi”.
Il caso della truffa coreana
Aubrey de Grey ci ricorda anche che, nell’ambito della ricerca sulle cellule staminali, si è registrato uno dei casi più clamorosi, storicamente conosciuti, di violazione dell’ethos della scienza. E anche in questo caso ne ha sottolineato le dimensioni politiche, oltre che scientifiche. Parliamo di una vera e propria truffa, ordita dallo scienziato coreano Hwang Woo Suk allo scopo di ottenere denaro, fama e gloria.
Nel maggio del 2005, Hwang e i suoi collaboratori pubblicarono un articolo sulla prestigiosa rivista Science in cui affermavano di aver creato cellule staminali clonate su misura, utilizzando cellule di undici pazienti afflitti da malattie ritenute finora incurabili, come il diabete, il morbo di Parkinson e le lesioni del midollo spinale. Nella relazione specificavano che l’obiettivo della ricerca era quello di curare in modo efficace queste malattie, grazie all’inserzione nei pazienti delle cellule staminali clonate al fine di ricreare tessuti sani. Nel dicembre dello stesso anno arrivò la doccia fredda. Ricercatori americani contestarono i risultati e lo scienziato coreano fu costretto ad ammettere la fabbricazione dei risultati.
La notizia finì sulle prime pagine di tutti i giornali e ciò non può stupire, considerando l’interesse che suscitano nell’opinione pubblica le ricerche biomediche e le correlate discussioni bioetiche. Ecco come diede la notizia il quotidiano La Repubblica, il 23 dicembre del 2005:
I risultati delle ricerche sulle cellule staminali, presentati come una novità mondiale nell’articolo su Science dal professore sudcoreano Hwang Woo Suk, erano un imbroglio. Lo ha accertato una commissione di inchiesta indipendente di nove membri che ha ripetuto gli esperimenti di Hwang Woo Suk evidenziandone la falsità. Dopo la scoperta dell’inganno il famoso veterinario si è dimesso dall’incarico di professore all’Università di Seul.
Gli studi di Hwang erano stati accolti come un fondamentale passo avanti nella biomedicina applicata. Lo stesso de Grey era tanto entusiasta che aveva invitato lo studioso coreano a parlare a Cambridge, alla seconda edizione della conferenza SENS (Strategies for Engineered Negligible Senescence). La notizia che era possibile creare cellule staminali autosufficienti e cucite su misura per ciascun paziente aveva messo in fibrillazione tutto il mondo della ricerca. De Grey ricorda che «ebbe l’effetto di una tempesta, e demolì barriere politiche e scientifiche» (p. 449). Sul piano tecnico significava aprire le porta e all’elisir di lunga vita, tanto che già si parlava di un possibile premio Nobel per Hwang. Ma non mancavano le implicazioni politiche. Basti pensare che quando i risultati della ricerca furono pubblicati su Science, sull’onda dell’entusiasmo, la Borsa di Seul aveva avuto un’impennata. Come prima conseguenza, il governo sudcoreano aveva deciso di finanziare l’apertura della prima Banca mondiale di cellule staminali. Questa mossa spostava la geografia della ricerca da Occidente a Oriente. Tutti gli interdetti e le difficoltà etiche nascevano in seno a società, come quella americana o quella europea, in cui forte era la presenza di organizzazioni cristiane. Ma vi sono ampie aree del pianeta, tecnologicamente avanzate, che sono aliene a questa influenza religiosa, a partire da Cina e India, che insieme ospitano più di due miliardi di abitanti del pianeta, per arrivare a realtà più piccole ma molto dinamiche come Giappone e Corea. Nei giorni in cui le polemiche bioetiche erano più roventi, c’era chi profetizzava una fuga di cervelli dagli Stati Uniti verso altri paesi. La profezia cominciava ad avverarsi. Alla notizia che, oltre alla Corea, anche paesi con notevoli risorse come il Regno Unito, Israele, la Svezia e Singapore erano decisi a finanziare la ricerca sulle staminali embrionali, gli Stati Uniti si destarono dal torpore. De Grey racconta che, «come per magia, il senso di competizione riaccese i motori della ricerca». Poiché i fondi federali erano bloccati, «alcuni singoli stati all’interno degli Stati Uniti, spaventati dalla possibilità di restare indietro, introdussero nuove tasse per sostenere la ricerca sulle cellule staminali all’interno dei loro confini» (p. 450).
Purtroppo, si trattava di una “falsa alba”. Hwang fu presto smascherato. Alcuni giornalisti scientifici, osservando le fotografie allegate alla ricerca, notarono strane somiglianze tra le linee di cellule staminali. Lo scienziato coreano scaricò la colpa sulla redazione di Science. Poi, i suoi collaboratori, in primis l’americano Gerald Schatten dell’università di Pittsburgh, coautore della famosa relazione, iniziarono a sospettare l’imbroglio e presero le distanze da Hwang. Dopo un breve periodo di ricovero, ufficialmente motivato da debilitazione dovuta allo stress lavorativo, lo scienziato coreano tornò al suo laboratorio e ricominciò a difendersi. Cercò di addossare la colpa ai collaboratori, ma le prove contro di lui erano schiaccianti. Dopo quattro giorni arrivò la resa. Questo il resoconto de la Repubblica: «Oggi è arrivata la doccia fredda. Il capo ricercatore dell’università di Seul Roe Jung-hye ha rilevato che i dati forniti da Hwang non erano frutto di un errore casuale ma erano stati fabbricati intenzionalmente. Le invenzioni di Hwang hanno messo in difficoltà anche la prestigiosa rivista Science, che aveva ottenuto l’esclusiva per la pubblicazione della ricerca».
L’episodio in questione è significativo perché mostra come possano incrociarsi i problemi dell’ethos della scienza, ossia dell’integrità morale dello scienziato inteso come cercatore di verità, e della bioetica, ossia della dimensione morale di certe applicazioni tecniche delle verità scientifiche. L’aspetto più interessante è legato alla differenza di giudizio nei due casi. Mentre la condanna di Hwang in relazione alla clonazione terapeutica proveniva soltanto da una parte del mondo scientifico e dell’opinione pubblica – segnatamente, la parte che sottoscrive la bioetica pro life – la condanna in relazione alla violazione della norma dell’onestà intellettuale è stata unanime. Il che significa che, aldilà dei tanti scontri ideologici che funestano il mondo, ci sono anche valori universalmente riconosciuti. Uno di questi è l’onestà intellettuale.
Dal canto suo, de Grey rileva che lo scandalo Hwang ha danneggiato la ricerca sulle staminali in due modi diversi. Prima della scoperta della frode, l’ha danneggiata perché nessuno intendeva più investire denaro per una scoperta già fatta altrove, tanto che «gli investitori iniziarono a ritirare la loro scommesse dal tavolo, dato che la gara pareva essere già vinta dal centro di ricerca coreano: un brutto colpo». (p. 454). Dopo la scoperta dell’imbroglio, l’affaire gettava invece un’ombra su tutto il mondo delle staminali, diffondendo l’idea che fosse un ambiente popolato da ciarlatani. De Grey sottolinea, comunque, che anche in questo increscioso episodio si può trovare un aspetto positivo. Sebbene «l’annuncio di Hwang si rivelò essere un fuoco di paglia, occorre riconoscere almeno un merito indiretto, ossia quello di aver puntato i riflettori sulle staminali» (p. 455). Superato lo shock, i finanziamenti ricominciarono infatti ad affluire verso i centri di ricerca più rispettati. La rapidità con cui è stata scoperta la truffa confermava, in fondo, l’intuizione di Robert K. Merton (2000) riguardo la peculiarità delle istituzioni scientifiche, dove ogni affermazione importante è immediatamente scrutinata da decine di esperti pronti a ripetere gli esperimenti, per ragioni puramente scientifiche o interessi industriali. Al netto delle truffe e degli errori, la scienza continua ad essere vista come una delle forme di conoscenza più affidabili in circolazione.
I nemici della lotta all’invecchiamento
La profezia di de Grey sulla fine dell’invecchiamento non si è ancora avverata, ma lo studioso inglese aveva avvertito già nelle prime righe della sua opera che non sarebbe stato facile raggiungere l’obiettivo e non solo per oggettive difficoltà tecniche, ma anche per l’ostilità che il progetto incontra al di fuori del mondo scientifico. Al netto di chi esprime contrarietà per mero opportunismo politico – categoria consistente ma poco interessante perché pronta a saltare da un carro all’altro a seconda della convenienza – i nemici della lotta all’invecchiamento possono essere suddivisi in tre gruppi.
Innanzitutto, vi sono coloro che sono convinti che il desiderio di eterna giovinezza sia una sorta di hybris, di sfida alla Natura o al Creatore, di indebito superamento di colonne d’Ercole invalicabili. Colonne considerate invalicabili non sul piano tecnico, ma sul piano morale, perché sarebbe del tutto insensato opporsi a ciò che si ritiene impossibile (per quanto non manchino critiche prive di senso logico). Costoro sono preoccupati e infastiditi dalla stessa idea di investigare i segreti più intimi dell’uomo, della natura, della vita. Chi appartiene a questa categoria si oppone per ragioni di principio. Ragioni ancorate nella narrativa del peccato originale, che troviamo nella Bibbia o in altri miti dell’Antichità, ma che oggi si ripropone anche in forma secolarizzata nei movimenti ecologisti. Risolvere la questione senza utilizzare embrioni umani, non sposterebbe di una virgola il problema. Questo tipo di rifiuto si intreccia infatti con la neofobia, con la paura che una novità rivoluzionaria possa mettere in crisi un ordine divino o naturale che si vorrebbe eterno e immutabile.
In secondo luogo, vi è opposizione da parte di quei cattolici che sono al contempo pro scienza e pro vita. Credono in un Creatore, ma riconoscono all’uomo almeno il ruolo di co-creatore. Sono pronti a concedere all’uomo il diritto di conoscere e cambiare il mondo, nonché il legittimo desiderio di non invecchiare o morire troppo presto. La loro opposizione non nasce da un istinto tecnofobico, ma dalla convinzione sincera che gli embrioni siano vita umana e non possano, perciò, essere sacrificati sull’altare della scienza. Per chi rientra in questa categoria, trovare vie alternative alla clonazione terapeutica o alla manipolazione di embrioni umani soprannumerari potrebbe risolvere la questione bioetica. Per esempio, se si potesse contare su uno sviluppo prodigioso della ricerca sulle staminali adulte o si riuscisse a utilizzare cellule di origine animale opportunamente modificate, questa categoria di cattolici non sarebbe contraria all’eterna giovinezza e alla vita illimitata.
Infine, vi sono coloro che non sono né timorosi di eventuali punizioni divine, né preoccupati per la sorte delle blastocisti. Si oppongono per paura di essere esclusi. È la storia della volpe e l’uva, che già Esopo ci ha narrato. L’uva è acerba, se non è raggiungibile. Per chi ha la sindrome dell’esclusione, tutte le innovazioni tecnologiche – dal computer al collegamento Internet, dal telefono cellulare all’intervento di chirurgia estetica – sono cattive, fino a quando non ne entrano in possesso. Non capiscono esattamente che cosa stia accadendo nel campo della biomedicina. Non sanno nemmeno se riusciranno ad accedere a queste innovazioni, per mancanza di denaro o perché ormai troppo vecchi. Temono che la gente attorno a loro conquisti un’eterna giovinezza a loro preclusa. Perciò contrastano con le parole, o il voto politico, questa iniziativa. L’impressione è che de Grey, nella misura in cui non predica ai convertiti, stia cercando di convincere soprattutto quest’ultima categoria. Mentre i primi due gruppi fondano la loro opposizione su principi saldi, lo studioso inglese sa bene che questo terzo gruppo è ondeggiante. Se la tecnologia funziona e diventa accessibile, sono pronti ad accoglierla. De Grey sa anche che le obiezioni di chi teme l’esclusione non sono strampalate. Già oggi non tutti possono permettersi apparecchi per raddrizzare i denti, protesi meccatroniche o operazioni di chirurgia estetica. Se il prezzo delle terapie di ringiovanimento sarà troppo alto, si manifesterà davvero lo spettro di una nuova diseguaglianza. Le classi sociali non si distingueranno soltanto per i beni materiali che possiedono e possono esibire, ma anche per la qualità biologica dei loro organismi: eternamente giovani e destinati a vita illimitata i ricchi, soggetti a invecchiamento e destinati a morte precoce i poveri.
La risposta di de Grey a questa obiezione è sviluppata negli ultimi tre capitoli. Ma già all’inizio del libro si capisce dove vuole arrivare, quando ricorda che «ogni giorno muoiono circa 150.000 persone in tutto il mondo (quasi due persone al secondo), e tra queste, circa i due terzi, quasi 100.000 persone, muoiono a causa dell’invecchiamento. Si tratta di una trentina di 11 settembre, una sessantina di uragani Katrina, che si scagliano sull’umanità ogni singolo giorno dell’anno» (p. 69). Se propone questi numeri, evidentemente, il sogno dello studioso di Cambridge è salvare il maggior numero possibile di esseri umani e, sperabilmente, tutti. Epperò, è perfettamente cosciente del fatto che questa speranza utopica difficilmente potrà trovare realizzazione, se la diffusione della terapia rimarrà vincolata dal meccanismo del mercato. De Grey non ha in mente un colpo di bacchetta magica capace di rendere, in un istante, ogni singola persona perennemente giovane e potenzialmente immortale. Sta pensando a trapianti e a medicinali costosi che devono essere effettuati o assunti da ogni cittadino vita natural durante. La sospensione della terapia comporterebbe la ripresa del processo di invecchiamento e la morte. I presidi anti-invecchiamento potrebbero essere paragonati ai medicinali antiretrovirali o agli immunosoppressori. Devono essere assunti regolarmente. De Grey ricorda che la terapia anti-AIDS costa circa 30.000 dollari all’anno. Non tutti i cittadini sarebbero in grado di sostenere una spesa analoga. Se si rimanesse all’interno di una logica mercatista, sarebbero ben pochi ad accedere all’eterna giovinezza. Perciò, lo studioso inglese ipotizza un pesante intervento della mano pubblica.
Già oggi, in alcuni paesi, è “lo Stato” a prendersi cura dei malati, ma lo Stato non è un’entità astratta che crea soldi dal nulla. In realtà, sono i cittadini sani a curare i cittadini malati, versando tasse all’erario. Una domanda sorge allora spontanea: se tutti sono malati di invecchiamento, si può ancora mettere in campo questo meccanismo di solidarietà? Non porterebbe alla bancarotta del paese? Secondo de Grey, l’intervento pubblico è ancora possibile per due ragioni. La prima è che le terapie costano molto meno di quello che è il loro prezzo finale. C’è un fitto intreccio tra lobby farmaceutiche, assicurazioni, aziende sanitarie e politica che porta i prezzi a lievitare. Se a finanziare la ricerca di base sarà lo Stato, ovvero la comunità dei cittadini, allora i governi potranno imporre un prezzo politico alle terapie o produrle con aziende pubbliche. De Grey stima che, per rendere “immortale” ogni singolo cittadino degli Stati Uniti servirà più o meno un miliardo di dollari al giorno, circa 300 miliardi di dollari all’anno. Sembra una cifra spaventosa, ma, come rileva lo stesso biogerontologo, è esattamente la spesa che il governo americano sostiene per continuare la guerra in Iraq. Miliardi di dollari vengono sprecati ogni giorno per seminare morte e distruzione, quando potrebbero essere utilizzati per mantenere tutti i cittadini giovani, in buona salute e illimitatamente longevi. In altre parole, basterebbe mettere in moto un’economia di guerra per salvare tutti. Eppure – si potrebbe notare – già oggi quei miliardi potrebbero essere investiti in scuole e ospedali, ma per quanto ragionevole possa sembrare non viene fatto. Che cosa può cambiare la situazione? De Grey spiega che la “guerra all’invecchiamento” non è ancora iniziata. Ci sono le premesse perché possa iniziare, ma ci vorranno almeno dieci anni prima che la guerra possa essere dichiarata (ne sono passati nove nel momento in cui scrivo). Il casus belli sarebbe il successo completo nelle sperimentazioni animali. Se si riuscisse ad allungare indefinitamente la vita dei topi, scatterebbe la sperimentazione sull’uomo. E ci vorrebbero almeno altri dieci anni per arrivare all’accesso universale alla terapia. Si parla, dunque, dell’anno 2027. Il punto chiave è che, una volta riusciti gli esperimenti sulle cavie, lo scenario cambierebbe completamente. È quello che de Grey chiama “scenario post-RMR”, dove RMR sta per robusto ringiovanimento dei topi. Le masse si mobiliterebbero per avere l’elisir di lunga vita e i politici non potrebbero ignorare questo movimento tellurico. Perciò, de Grey parla coscientemente di “guerra” all’invecchiamento e di “obblighi di guerra” per i cittadini e i loro rappresentanti.
Nonostante il dogma dominante in economia sia ancora quello del “laissez-faire” (in verità, un po’ meno dopo la disastrosa crisi finanziaria del 2008), de Grey manifesta ottimismo sulla possibilità di mettere in campo i governi. Scrive: «È plausibile che anche il governo possa essere influenzato. In vari settori della macchina governativa esistono degli utopisti che occasionalmente trovano l’occasione di realizzare le loro visioni» (p. 527). Ciò che davvero conta è che la gente comune comprenda che la battaglia per il ringiovanimento non si svolge solo nei laboratori scientifici, ma anche nell’arena politica. Il ragionamento di de Grey è lapalissiano: «L’ostacolo principale al sogno di poter utilizzare nuove cellule per rifornire gli organismi indeboliti dagli anni o dalle malattie è di tipo politico, e di tipo politico dev’essere la sua soluzione» (p. 460). Più chiaro di così non poteva essere.
Bibliografia
- De Grey A., M. Rae, La fine dell’invecchiamento. Come la scienza esaudirà il sogno dell’eterna giovinezza, D Editore, Roma, 2016.
- Foucault M., Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977.
- Imbrogliava il professore coreano. Falsi i suoi studi sulle staminali, «la Repubblica», 23 dicembre 2005.
- Merton R.K., Teoria e struttura sociale, vol. 3, Il Mulino, Bologna, 2000.
- Kuhn T., La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 2009 [1962].
- Turksen K. (a cura di), Adult and Embryonic Stem Cells, Humana Press, New York, 2012.
- Zavazava N., Embryonic Stem Cells Immunobiology. Methods and Protocols, Humana Press, New York, 2013.
[1] Tutte le citazioni di De Grey riportate in questo articolo sono tratte dalla versione italiana del libro. Per evitare ripetizioni, saranno indicate con il solo numero di pagina.