Oggi l’immigrazione è considerata un problema dalla gran parte degli Stati membri dell’Ue e dall’opinione pubblica europea, come dimostrano le rilevazioni dell’Eurobarometro della primavera 2015. Difatti, il timore per l’immigrazione, che per i cittadini europei rappresenta la sfida più importante per l’Ue, raggiunge il 38%, sopravanzando largamente la situazione economica, la disoccupazione e la sostenibilità delle finanze pubbliche europee (Commissione europea, 2015). E gli accadimenti degli ultimi anni dimostrano in maniera ormai inequivocabile come le migrazioni per motivi di lavoro, alla ricerca di una migliore opportunità di vita, rappresentino un fenomeno inarrestabile, utile a valutare le trasformazioni non solo economiche, ma anche sociali e culturali attualmente in fermento in tutta l’Unione Europea.
Nel fenomeno delle migrazioni confluiscono contemporaneamente due forti tendenze: la prima riconducibile alla forte influenza che dall’inizio del nuovo millennio sui Paesi europei ha operato il fenomeno della globalizzazione, ovvero un movimento di interdipendenze non solo strettamente economiche, ma anche sociali, culturali, tecnologiche che hanno messo a nudo l’esistenza di notevoli disparità nei processi di accumulazione e distribuzione delle ricchezze a livello globale tra i Paesi più industrializzati e potenti e quelli più poveri e meno industrializzati. È ovvio che così inteso il fenomeno della globalizzazione ha un ruolo non trascurabile nel movimento transfrontaliero dei lavoratori, rappresentandone sia la causa che l’effetto. La seconda tendenza è fondata sul tentativo da parte degli Stati europei di conservare il potere sovrano in materia di immigrazione economica, in quanto, pur essendo lasciata a questi una certa discrezionalità per ciò che attiene la determinazione delle condizioni di ingresso, soggiorno e allontanamento dei lavoratori migranti, si è prodotta fin dalle origini della Comunità europea una progressiva limitazione alla potestà statuale, derivante dalla necessità di assicurare uno standard di trattamento conforme agli obblighi internazionali ed europei in materia di diritti umani e protezione sociale, nonché ai principi costituzionali comuni agli Stati membri. E se non si può ormai trascurare che nelle società moderne le migrazioni costituiscano un enorme fattore di riequilibrio del mondo del lavoro, tenuto conto del basso costo della manodopera proveniente dai Paesi più arretrati e delle difficili condizioni economiche che i Paesi storicamente più potenti stanno fronteggiando in seguito alla grave crisi economica che ha colpito l’Occidente industrializzato nel 2008, è pur vero che la presenza di immigrati rischia di configurare l’ “esercito industriale di riserva” teorizzato da Marx per abbattere diritti dei lavoratori (Marx, 1867).
Difatti, nel mercato del lavoro unificato del Vecchio continente il fenomeno delle migrazioni internazionali per motivi occupazionali provenienti soprattutto dai Paesi a economia arretrata ha assunto negli ultimi anni proporzioni considerevoli, con inevitabili ricadute sul tessuto sociale e sul welfare paneuropeo. E se proprio la crisi economica ha evidenziato le opportunità di un mercato del lavoro allargato e senza confini, è necessario verificare in concreto gli effetti positivi dell’immigrazione sulla popolazione autoctona, e, di contro, il concreto grado di tutela predisposto dall’ordinamento europeo in favore dei lavoratori migranti. In effetti, il principio di libera circolazione, oltre a comportare l’eliminazione delle barriere amministrative che impediscono l’ingresso e il soggiorno in un altro Stato membro, necessita del contestuale riconoscimento dei diritti sociali e del lavoro al fine di scongiurare situazioni di svantaggio e sfavore rispetto ai lavoratori nazionali. Limiti differenziali posti alla possibilità di licenziamento, sussidi di disoccupazione fruibili solo dai cittadini e salari minimi più elevati rendono maggiormente conveniente per le imprese ricorrere a manodopera straniera.
L’ambito di riflessione coinvolge sia i cittadini dell’Unione Europea, per i quali si applica la disciplina comunitaria in materia di libertà di circolazione delle persone, sia degli stranieri, per i quali, non potendosi applicare la disciplina prevista per i primi, c’è la necessità di approfondire uno dei principali ambiti della cooperazione comunitaria, ovvero la tutela del lavoratore migrante occupato in un Paese diverso da quello di appartenenza, con l’obiettivo di valutare il grado di protezione e di accesso ai diritti sociali, con particolare riferimento alla tutela previdenziale e assistenziale
«Volevamo braccia, sono arrivati uomini»: così affermava lo scrittore svizzero Max Frisch quando ormai, a metà degli anni Settanta, l’Europa del Nord correva frettolosamente ai ripari ponendo fine ai programmi di reclutamento di massa di lavoratori stranieri. Difatti, le origini dell’attuale ondata migratoria in Europa possono essere fatte risalire al periodo immediatamente successivo alla Seconda Guerra Mondiale quando la carenza di manodopera, a causa delle numerose perdite di giovani vite nel corso del conflitto, e il florido stato dei mercati del lavoro, spinse Paesi come Germania e Belgio a importare manodopera a basso costo dalle regioni dell’Europa meridionale e, successivamente, per tutti gli anni Settanta, da Turchia e Nord Africa. Ben presto, nella metà degli Settanta, le due crisi petrolifere, la prima conseguente alla guerra del Kippur del 1973-74 e la seconda iniziata all’indomani della guerra iraniana del 1979, nonché lo scoppio della guerra tra Iran ed Iraq del 1980, si sommarono al generale rallentamento della crescita della produttività connesso allo sviluppo dei servizi a danno dell’industria e diedero vita a crescente disoccupazione in Europa. Fu allora che la presenza degli immigrati cominciò ad essere avvertita dagli europei come minaccia e a far nascere i primi movimenti politici antimmigrazione a difesa dell’ormai precario posto di lavoro, con la conseguente chiusura delle frontiere all’immigrazione per motivi di lavoro e la nascita dell’immigrazione illegale (Rifkin, 2004). Anche oggi, complici la stagnazione economica e le crisi geopolitiche, in Europa non si è più tanto sicuri di aver bisogno di così tante “braccia”, eppure continuano ad arrivare uomini.
Al fine di una più compiuta riflessione, è necessario rilevare che sullo sfondo della disciplina europea in materia di immigrazione, occorre operare una distinzione all’interno del territorio europeo tra la condizione dei cittadini europei e quella dei cittadini di Paesi terzi: solo i primi, infatti, sono titolari della libertà di circolazione. La storia dei cittadini europei mobili, per distinguerli dagli stanziali, segue da vicino gli sviluppi dell’integrazione europea degli ultimi decenni e della progressiva e sostanziale rimozione a partire dagli anni Novanta delle frontiere interne dell’Ue a seguito degli accordi di Schengen e dell’evoluzione del diritto di libera circolazione in diritto di cittadinanza – cittadinanza europea – che, oltre a qualificare il carattere costituzionale del processo di integrazione europea, costituisce chiaramente il requisito basilare per poter fruire dei benefici che l’Unione Europea ha elaborato per la popolazione dei propri Stati membri (Caggiano, 2015). Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht nel 1993 e l’affermazione della cittadinanza europea, il diritto alla libertà di movimento dei lavoratori – tassello del più ampio quadro che comprende la libertà di movimento di merci, capitali, servizi e, appunto, persone – si configura quale diritto individuale a cui si ricollega il divieto di non discriminazione basato sulla nazionalità, salvo alcune limitazioni legate a motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica e con riferimento agli impieghi nella pubblica amministrazione. Un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che ha contribuito a spostare il fondamento della libertà di circolazione dal piano economico a quello dei diritti. Si è, pertanto, passati da un diritto al medesimo trattamento giuridico concesso ai cittadini degli Stati membri economicamente attivi, intesi come fattori produttivi cui concedere la libertà di circolazione e soggiorno per costruire un mercato unico e integrato, a un diritto proprio di un ordinamento, l’Unione, che prescinde dallo svolgimento di un’attività, anche se gli aspetti economici ne possono limitare o condizionare l’esercizio. In questo contesto, gli europei mobili, a differenza di tutti gli altri migranti internazionali, godono della possibilità di vivere in una società in cui l’essere immigrato non comporta automaticamente disparità nei confronti dei cittadini nazionali: il cittadino europeo mobile è un migrante internazionale di “prima classe”, equiparato ad un migrante interno (Recchi, 2013).
La libertà di circolazione e di soggiorno nei territori degli Stati membri ha, dunque, rappresentato fin dall’inizio il nucleo essenziale della cittadinanza europea, rappresentando la base degli altri diritti enunciati nel Trattato di Maastricht, quali quello di voto alle elezioni del Parlamento europeo o a quelle comunali nel Paese ospitante, funzionali a garantire una maggiore integrazione nella società locale. Grazie ai diritti che si associano alla libertà di movimento dei cittadini europei, l’Ue si presenta come un nuovo e più grande Stato unitario che in realtà non esiste se non per quanto attiene ai diritti di mobilità spaziale. Per questo migrare in Europa è diventato più facile e i cittadini europei mobili costituiscono una “minoranza strategica”, ovvero rappresentano migranti sui generis, attori della società fluida e fruitori di quella cittadinanza atipica che è la cittadinanza europea: difatti, godendo di una posizione privilegiata rispetto alla popolazione globale di migranti, finiscono per rappresentare l’utopia del cittadino cosmopolita che si muove all’interno di uno spazio internazionale senza frontiere né vincoli imposti dalle sovranità statuali (Recchi, 2013; Pecoud-De Guchtneire, 2007). I cittadini dei Paesi terzi, invece, sono tuttora destinatari di un complesso di norme piuttosto disorganico e frammentario e titolari di prerogative decisamente più limitate rispetto a quelle attribuite ai cittadini europei. E se la politica di immigrazione è stata comunitarizzata con il Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il 1° maggio 1999, si è sempre riscontrata la resistenza degli Stati membri nei confronti di un’armonizzazione sovranazionale delle normative interne sull’immigrazione dovuta, come si è detto, alla volontà degli Stati membri di controllare tale ambito, in quanto campo di azione privilegiato della sovranità statuale. Gli accordi di Schengen, che oggi sembrano non godere di perfetta salute, se da una parte rappresentano l’espressione più piena del metodo intergovernativo, dall’altra parte dimostrano un andamento contraddittorio in materia di libera circolazione dal momento che, se nei confronti dei cittadini europei questa viene incentivata ed è assoggettata ad un regime liberale, le norme poste a presidio dei confini esterni perseguono l’obiettivo opposto, ovvero disincentivare gli ingressi e negare ai migranti la scelta dello Stato a cui inoltrare la richiesta d’asilo. In questo caso, è il parametro della sicurezza e dell’ordine pubblico a condizionare le politiche e i diritti: il cittadino extra Ue, ovvero privo di cittadinanza di uno degli Stati dell’Ue, è titolare di un diritto a emigrare, ma non ad essere accolto dal quale deriva una doppia dialettica tra sovranità dello Stato e politiche migratorie dell’Ue, e tra straniero come soggetto di diritti fondamentali e straniero oggetto di repressione.
La risposta spesso incerta e confusa al fenomeno migratorio dell’Europa ha spinto a un acceso confronto tra i fautori degli open borders, ovvero dell’azzeramento delle frontiere, e coloro che auspicano invece un ritorno all’originaria idea di libertà di movimento, ovvero all’attraversamento del confine per lavorare e non per cercare un lavoro o per accedere ai benefici welfaristici. I fautori degli open borders sostengono che ci sono migliaia di miliardi di dollari in banconote sui marciapiedi, ma che per colpa dei nostri confini siamo incapaci di accorgercene e di trarne giovamento: azzerare le frontiere è il modo più efficace, egalitario, libertario e utilitarista per raddoppiare il prodotto interno lordo del nostro Pianeta. A sostegno di tale tesi, si afferma che annullando qualsiasi ostacolo burocratico alle migrazioni tra Stati nazionali, si produrrebbero benefici globali così sintetizzabili: il PIL mondiale raddoppierebbe; la povertà diminuirebbe in maniera rilevante; sarebbe favorita l’innovazione consentendo lo spostamento di persone lì dove servono e si stringerebbero legami tali da scongiurare guerre fra Stati. Tuttavia, tra i sostenitori degli open borders non manca chi afferma che un numero massiccio di immigrati causato dalle facilitazioni connesse all’abbattimento di ogni frontiera nazionale, che superasse le attese e quanto sostenibile dal sistema politico, impedirebbe a quest’ultimo di rimanere identico a se stesso, comportando l’eclissi di alcuni ideali occidentali la cui applicazione sarebbe resa sempre più difficile: il riferimento è all’uguaglianza di opportunità per tutti, la rete di assistenza sociale, il principio “una testa-un voto”, o di non discriminazione sul posto di lavoro. Pur senza risalire agli scritti di David Hume sulla populousness (popolosità) delle grandi civiltà antiche, l’idea secondo cui più persone vuol dire avere più possibilità di contratti, più ingegni “al lavoro”, più concorrenza poggia sicuramente su solide posizioni. E sembrano avere torto quanti per decenni hanno demonizzato la “population bomb”, dal momento che in linea di massima la crescita demografica favorisce la crescita tout court perché più persone vuol dire più scambi e più capitale umano. Per l’economista Keynes, la continua espansione demografica rappresentava il principale elemento di traino degli investimenti e, quindi, della domanda aggregata. In altre parole, la crescita demografica determinerebbe una relativa scarsità di beni e servizi, esercitando un continuo stimolo allo sviluppo di nuove tecnologie in grado di espandere la produzione (Keynes, 1976).
Di segno opposto è la posizione, tra gli altri, di George Borjas, professore di Harvard e decano di economia dell’immigrazione negli Stati Uniti. La sua riflessione si concentra su due quesiti, uno di tipo economico-redistributivo, ovvero «chi si arricchirà di più del raddoppio del Pil teorizzato?» l’altro di tipo politico-istituzionale, ossia «i nostri regimi democratico-liberali sono in grado di rimanere efficienti come lo sono oggi a fronte di uno straordinario afflusso di immigrati?». Tali interrogativi e le risposte offerte appaiono di estremo interesse anche per il dibattito che sta interessando il nostro Continente. Secondo il professor Borjas, lo spostamento globale di lavoratori – che per ipotesi ha costi nulli e avviene in uno scenario di abolizione dei confini – proseguirebbe fino a che i salari nei Paesi ricchi e nei Paesi poveri raggiungeranno un equilibrio medio. L’esistenza di «gruppi sociali perdenti», scrive Borjas, consiglierebbe un po’ di cautela nel definire «razzisti e xenofobi» la popolazione autoctona: questo atteggiamento «sottovaluta il fatto che, quali che siano i loro sentimenti dei lavoratori dei paesi più ricchi, le loro lamentele sono economicamente fondate e non spariranno». L’effetto depressivo sui salari teorizzato da Borjas tiene conto del fatto che l’immigrazione avvantaggia sempre il datore di lavoro e l’immigrato, seppur in vario modo, ma può causare effetti negativi sul reddito pro-capite e sull’occupazione della forza-lavoro del Paese di accoglienza. Difatti, l’afflusso di immigrati sprovvisti di capitale determina una flessione del salario di equilibrio quale conseguenza dell’aumento dell’offerta di lavoro per data domanda: tale nuovo salario sarà corrisposto non solo agli immigrati ma, progressivamente esteso a tutta la forza lavoro, in ossequio all’ipotesi di massimizzazione del salario. Per l’immigrato, tale reddito sarà di norma superiore a quello ottenuto nel proprio Paese di origine, anche se inferiore a quello prevalente nel Paese di destinazione prima del fenomeno migratorio; ciò farà sì che l’occupazione della forza lavoro nazionale rimanga invariata ma a condizioni peggiori. Inoltre, la tesi fondamentale dell’economista di Harvard si basa sull’assunto che chi lavora nei Paesi industrializzati ha un salario maggiore ed è più produttivo dei colleghi dei Paesi più poveri, grazie a tutto un insieme di infrastrutture che si sono formate e stratificate nel tempo nel mondo occidentale, dove per “infrastruttura” Borjas intende «non solo il capitale fisico, ma anche il valore delle istituzioni e delle organizzazioni politiche, sociali e culturali che regolano le nostre interazioni». Per arrivare agli incrementi del PIL «deve valere l’assunto per cui gli immigrati possono spostarsi nei paesi industrializzati senza importare anche le organizzazioni, i modelli sociali o la cultura ‘negativi’ che sono alla radice delle scarse performance economiche dei loro paesi d’origine». La conclusione, dunque, appare evidente: «I benefici di un’immigrazione senza restrizioni dipendono in larga parte da come l’infrastruttura dei paesi riceventi si adatta all’afflusso di qualche miliardo di persone» (Borjas, 1994; 1995).
Ancora, Hans-Hermann Hoppe, filosofo tedesco addottorato in Germania con Jurgen Habermas, autore di Democrazia: il Dio che ha fallito (2006), pone alla base della riflessione una questione sociale e politica. Se è vero che in senso stretto l’economia potrebbe avere molto da guadagnare dall’arrivo di immigrati che possono offrire competenze nuove e rafforzare la concorrenza sul mercato del lavoro, al contempo non si può ignorare che la lotta tra poveri – specie nell’accesso ai servizi di welfare – può favorire la diffusione di fenomeni politici estremisti, populisti, xenofobi, spesso associati alla percezione di un aumento della criminalità. I timori relativi alle conseguenze negative che l’immigrazione determinerebbe sui conti pubblici affonda le sue radici negli oneri connessi con la fruizione da parte degli immigrati dei generosi sistemi di welfare che rappresenta appunto il principale elemento di attrazione di immigrati poco qualificati: si parla a ragion veduta di calamite del welfare. Il dubbio e il timore che circola in Europa e tra l’opinione pubblica è che quanti vengano da lontano non si trasferiscano per lavorare ma per usufruire di un welfare faticosamente costruito da altri e nel corso del tempo. La stessa tesi secondo cui l’immigrazione proveniente dall’Africa o dall’Asia rappresenterebbe un fondamentale fattore di riequilibrio della popolazione sia in termini numerici che strutturali, dal momento che i flussi sono per lo più composti da persone in età riproduttiva e con una maggiore propensione a riprodursi rispetto agli autoctoni, non è di facile valutazione. L’idea di fondo è che quanti arrivano permetterebbero di salvaguardare un ragionevole rapporto numerico tra giovani e anziani perché in generale gli immigrati sono più giovani e si riproducono maggiormente (Montanari, 2010). Ma ricerche e studi empirici hanno sottolineato come le cose non stiano proprio in questi termini o, meglio, solo parzialmente. L’invecchiamento della popolazione è sempre in primo luogo connesso a bassa fertilità, ma rapidamente gli immigrati adottano comportamenti riproduttivi simili a quelli della popolazione originaria. Da questo discende che non si può contare neppure sugli immigrati per raddrizzare i conti della nostra previdenza pubblica, ovvero facendo arrivare nuovi giovani allo scopo di mantenere i “nostri” vecchi. L’immigrazione extracomunitaria, dunque, non può essere considerata la soluzione a tutte le problematiche legate al welfare europeo, dal momento che l’andamento crescente delle nascite della componente straniera è un fenomeno temporaneo destinato ad esaurirsi a partire dalla seconde generazioni di immigrati che tendono a conformarsi ai comportamenti, compresi quelli riproduttivi, delle società ospitanti (Sartor, 2010). Inoltre, è solo l’immigrato regolare a garantire un contributo positivo al Paese ospitante analogo a quello dei cittadini autoctoni. Diversamente, l’immigrazione irregolare ha un’incidenza negativa sulla finanza pubblica dal momento che lo Stato non può beneficiare del gettito fiscale e contributivo direttamente gravante sui redditi di lavoro, né delle entrate che deriverebbero dalla commercializzazione di beni e servizi prodotti con il lavoro sommerso (Sartor, 2005). E gli immigrati irregolari assorbirebbero una quota significativa di risorse pubbliche, potendo fruire di servizi sanitari e dell’accesso all’istruzione obbligatoria per i figli in età scolare. In definitiva, in presenza di generosi sistemi di sicurezza sociale e di precari equilibri della finanza pubblica, appare forte e giustificata la preoccupazione che gli immigrati possano costituire un problema e non una risorsa economica.
A ciò si aggiunge una delicata questione culturale, che attiene alle peculiarità e ai problemi relativi all’incorporazione dei migranti nel contesto sociale dal momento che le società ospitanti si trovano a dover fronteggiare una crescente presenza di collettività di immigrati portatrici di usi, culture e religioni spesso molto diverse da quelle della popolazione di accoglienza. Nel modello di società libera idealizzato da Hoppe, tendenzialmente ognuno va a vivere in contesti culturali coerenti con i propri valori, con la propria idea di vita e società, perché, come nel mercato, noi scegliamo e, automaticamente, anche escludiamo. Nell’Europa odierna, invece, una massiccia immigrazione dal Sud del mondo verrebbe avvertita da molti come inopportuna e sgradevole, come una minaccia ai valori, forme di vita, princìpi e tradizioni culturali. Per tali motivi non si può affermare con sicurezza che i benefici degli accresciuti scambi connessi all’arrivo di nuova popolazione compensino i costi che si accompagnano a tutto questo. Oltre a ciò, la possibilità di vivere entro un contesto giuridico stabile viene meno quando non c’è sintonia di carattere culturale tra le persone che interagiscono quotidianamente. Al di là dei vantaggi economici associati alla concorrenza di mercato e ai costi politici legati alla redistribuzione del welfare, bisogna allora tenere in considerazione i problemi giuridici connessi alle tensioni di una società composta da persone troppo differenti, incapaci di dialogare, distanti. Ciò assume rilievo dal momento che la questione culturale è destinata presto ad avere conseguenze sull’ordine legale, considerando che quello che per taluni è un crimine ad altri può apparire legittimo e anzi doveroso. E in Europa, come dimostrano gli ultimi tragici eventi terroristici, vi è una tipica frustrazione di seconda e terza generazione, caratterizzate rispetto alle precedenti da elementi di discontinuità, in particolare nel campo delle aspettative lavorative e della ricerca di identità. L’integrazione di questi soggetti rappresenta, dunque, la sfida più importante per la coesione sociale europea. Più che un’immigrazione libera, quella che sta interessando l’Europa occidentale, secondo Hoppe, è un’«integrazione forzata bella e buona» ed è per questo che propone la gestione dei flussi e di escludere l’immigrato dai servizi finanziati dal settore pubblico finché non diventerà cittadino (Hoppe, 2006).
Sotto accusa vi sono anche i modelli di integrazione europei. Il riferimento è all’assimilazionismo francese basato sull’offerta dei valori della Republique agli immigrati e sull’inclusione degli stessi, attraverso il facile accesso alla cittadinanza e il riconoscimento dei diritti, anche politici; il multiculturalismo inglese che prevede che gli immigrati rimangano gruppi dotati di identità culturali distinte ai quali riconoscere diritti; il modello tedesco caratterizzato da prestatori immigrati ospiti, accolti cioè in relazione alle esigenze dello Stato e indotti poi a rientrare nel Paese di origine al termine dell’esperienza lavorativa. A questi si aggiunge il modello belga, che nel 1974 ha riconosciuto ufficialmente la religione islamica e che oggi fa notizia nel mondo per il quartiere di Molenbeek. Sotto la dottrina multiculturale, del multiculti, del meticciato, i nuovi arrivati in Europa probabilmente non sono stati incoraggiati a integrarsi, a dialogare, a confrontarsi ma a separarsi dal Paese che li ospitava: e l’idea è che non ci fosse più una società ma differenti comunità. Appare, così, evidente il rischio che il mondo multiculturale sia un fallimento, una finzione. Per Sartori «il terzomondismo imperante e il fatto che la sinistra, avendo perso la sua ideologia, ha sposato la causa (ritenuta illuminata e progressista) delle porte aperte a tutti, anche le porte dei Paesi sovrappopolati e afflitti, per di più, da una altissima disoccupazione giovanile, fallisce se ci si appella al meticciato, laddove meticcio significa persona nata da genitore di razze (etnie) diverse» (Sartori, 2013). La tesi di fondo che Sartori ribadisce più volte è che la cosiddetta “buona società”, ovvero per natura aperta, tollerante e fondata sul pluralismo, sulla tolleranza e sulla fede nel valore delle diversità, non ha nulla a che vedere con il multiculturalismo, il quale invece di fatto non persegue «un’integrazione differenziata ma una disintegrazione multietnica» e può diventare il nemico mortale di una società aperta (Sartori, 2000). È necessario, dunque, interrogarsi su fino a che punto la società pluralistica possa accogliere e integrare senza disintegrarsi estranei che la rifiutano, immigrati di tutt’altra cultura, religione ed etnia. Assodato che gli immigrati non sono tutti uguali, tanto più quelli di cultura teocratica, ben diversi da coloro che accettano la separazione tra politica e religione, corollario obbligato è che la definizione di “arricchimento” riferita a una diversità radicale sia «una formula di sconvolgente superficialità. Perché esiste un punto oltre il quale non si può e non si deve andare. Pluralismo è sì vivere assieme in differenza e con differenza, ma lo è se c’è contraccambio. Entrare in una comunità pluralistica è, congiuntamente, un acquisire e un concedere» (Sartori, 2000).
Il trattamento riservato agli stranieri, agli estranei e agli altri fra noi non può che costituire, dunque, un formidabile terreno di verifica della coscienza morale e della riflessività politica delle democrazie liberali. Ed è proprio la sfera politica l’area dove è più evidente la separazione tra cittadini e immigrati: dal momento che i primi godono di pienezza dei diritti, mentre ai secondi è negata la partecipazione, ad esempio, alle consultazioni elettorali e all’elaborazione dei programmi politici. Inoltre, molti sostengono che l’origine degli attentati in Europa risieda nella disuguaglianza economica, nella disoccupazione, nell’ingiustizia sociale che crea orde di odiatori alla ricerca del sostegno economico del Califfato. Gli ultimi eventi terroristici, però, hanno dimostrato come molti attentatori avessero frequentato ottime scuole, fossero imprenditori, appartenenti alla ricca borghesia musulmana. Quanto premesso dimostra che gli Stati europei si trovano a fronteggiare problemi di integrazione variamente declinati. «Volevamo uomini, sono arrivati con i loro conflitti» (Lo Prete, 2015) potrebbe rappresentare la versione aggiornata di quella considerazione, sempre più diffusa in Europa con riferimento ai nuovi arrivati nella società democratico-liberale. Il crescente sovraffollamento aumenta le possibili cause di attrito tra individui e gruppi così come il clash cultural-religioso. Ci troviamo di fronte a una crisi che, come spesso accaduto nella storia europea, potrebbe tramutarsi in un’occasione di avanzamento nel processo di integrazione e di democratizzazione dell’Unione, o, al contrario, al suo completo disfacimento. D’altronde, se l’ipotesi di immigrazione zero appare irrealistica, se non addirittura pericolosa, un’immigrazione irregolare, non adeguatamente controllata, può pregiudicare, come già osservato, la coesione sociale dei Paesi di destinazione.
Il fenomeno migratorio va, dunque, affrontato tenendo conto della capacità di accoglienza dell’Europa sul piano del mercato del lavoro, dei servizi sanitari, sociali, scolastici, dell’alloggio, nonché proteggendo i migranti dal rischio di sfruttamento da parte di reti criminali. Ed è indubbio che il successo di ogni politica migratoria dipenda dall’effettiva integrazione degli stranieri e dal riconoscimento nei loro confronti dei diritti sociali, per i quali è necessario garantire una tutela effettiva sul piano sostanziale. Se, dunque, non si considera il fenomeno migratorio nel suo complesso, considerando le ricadute, non solo economiche, ma anche sociali e culturali, si rischia un’implosione del modello di integrazione ed il completo disfacimento del sogno europeo.
Per approfondire:
- Borjas G.J., The economics of immigration, in “Journal of Economic Literature”, 1994.
- Borjas G.J., The economic benefits from immigration, in “Journal of Economic Perspectives”, 1995.
- Caggiano D., Scritti sul diritto europeo dell’immigrazione, II edizione, Giappichelli Editore, Torino, 2015.
- Calafà L., Stranieri tra politiche e diritti dopo Lisbona: la stagione degli ossimori?, in Lavoro e diritto, 2011.
- Casadei T., I diritti sociali. Un percorso filosofico – giuridico, Firenze University Press, Firenze, 2012.
- Chiaromonte, W., Lavoro e diritti sociali degli stranieri. Il governo delle migrazioni economiche in Italia e in Europa, Giappichelli, Torino, 2013.
- Commissione europea, Indagine Eurobarometro standard della primavera 2015: I cittadini vedono l’immigrazione come la sfida più importante per la UE, Bruxelles, 31 luglio 2015. Url: http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-5451_it.htm
- Hoppe H.H., Democrazia: il Dio che ha fallito, trad. di A. Mingardi, LiberiLibri – Oche del Campidoglio, Macerata, 2006.
- Keynes J.M., Alcune conseguenze economiche della diminuzione della popolazione, in C. Napoleoni (a cura di), Il futuro del capitalismo, Laterza, Bari, 1976.
- Lo Prete M.V., Volevamo uomini, sono arrivati con i loro conflitti, “Il Foglio”, 10 ottobre 2015.
- Marx, Il Capitale, New Compton Editori, Venezia, 1979 [1867].
- Montanari A., Stranieri extracomunitari e lavoro, CEDAM, Padova, 2010.
- Pécoud A., De Guchteneire P. (a cura di), Migration without borders: Essays on the Free Movement of People, New York, Berghahn, 2007.
- Recchi E., Senza Frontiere. La libera circolazione delle persone in Europa, Il Mulino, Bologna, 2013.
- Rifkin J., Il sogno europeo. Come l’Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano. Mondadori, Milano, 2004.
- Sartor N., Invecchiamento, immigrazione, economia. Quali politiche pubbliche?, Il Mulino, Bologna, 2010.
- Sartor N., Immigrazione e finanza pubblica, in AA.VV., L’incidenza economica dell’immigrazione, Giappichelli, Torino, 2005.
- Sartori G., Pluralismo, multiculturalismo e estranei: saggio sulla società multietnica, Rizzoli, Milano, 2000.
- Sartori G., L’Italia non è un Paese meticcio. Ecco perché lo ius soli non funziona, “Corriere della Sera”, 17 giugno 2013.