L’invecchiamento della popolazione, fenomeno di per sé prettamente demografico, riguarda oggi e riguarderà in futuro tutta la società e i suoi molteplici aspetti (Kinsella, Phillips, 2005). Se fino ad oggi le sue implicazioni – eccetto quelle demografiche – sono state poco rilevanti e soprattutto poco percepite e spesso positive e gestibili, nel medio e lungo periodo le sue conseguenze saranno stravolgenti.
Le dinamiche demografiche, quali l’abbassamento dei livelli di mortalità e la diminuzione delle nascite e, in misura diversa e spesso contradditoria, la limitazione alle migrazioni, hanno fatto sì che gli individui permangano sempre più a lungo nella popolazione fino ad età, anche solo 50 anni fa, inimmaginabili e che il numero di individui immessi nella popolazione sia sempre meno consistente. Questo ha portato ad uno stravolgimento della struttura della popolazione (Golini, 1997).
Prima di tali cambiamenti – per l’Europa ci si riferisce a prima dell’Ottocento – la struttura della popolazione era, infatti, costituita da una fascia giovanile molto numerosa, da quella in età lavorativa più consistente, grazie al numero maggiore di generazioni, anche se già ridotte nella consistenza per gli importanti effetti della mortalità, e una popolazione anziana molto ristretta sia per numerosità delle singole generazioni sia per numero di generazioni ancora in vita. La fascia di età giovanile (da 0 a 14 anni), considerando una generazione per ogni anno di nascita, era composta da 14 generazioni, mentre quella adulta (da 15 a 60 anni) da 45 e quella anziana da circa 20. Nel corso dell’Ottocento in diversi paesi europei, la diminuzione della mortalità – la prima determinante dell’invecchiamento – è diventata via via più importante, dapprima nell’età infantile, successivamente nell’età adulta, facendo sì che la consistenza della popolazione giovanile e di quella adulta sia diventata sempre più ampia. Solo in tempi molto più recenti, nella seconda metà del Novecento, gli effetti si sono visti nelle età anziane, grazie agli importanti progressi della medicina, a migliori stili di vita e alla prevenzione sanitaria (Vaupel, 1997). I progressi nella sopravvivenza si sono verificati in un contesto sociale ed economico in continua evoluzione, in cui, dopo l’avvenuta diminuzione della mortalità, il controllo delle nascite è diventato una realtà molto diffusa e spesso una necessità: i figli diventano un costo, soprattutto per le donne, anche in termini di tempo e di opportunità. La diminuzione del numero delle nascite – la seconda determinante dell’invecchiamento – diventa, nell’ultima parte del secolo, intensa a tal punto che il numero medio di figli per donna scende sotto il livello di sostituzione delle generazioni pari a 2,1, e comincia a perpetrarsi, dato che il numero di bambine che diventeranno madri sarà sempre più piccolo di quello delle generazioni delle loro madri. Si riduce così il numero di individui che si immettono nella popolazione rendendo sempre più ristretta la fascia di popolazione giovanile.
Oggigiorno, così, nei paesi che hanno già sperimentato gli importanti cambiamenti demografici e vissuto, quindi, la transizione demografica[1], la struttura per età è sostanzialmente diversa: con una ristretta popolazione giovanile, un’ampia fascia adulta dovuta anche all’ampliamento di questa classe di età di almeno 5 anni, e quindi del numero di generazioni presenti in essa, e una popolazione anziana sostanzialmente più consistente grazie sia a un numero molto più elevato di generazioni, almeno fino a 100 anni, sia alla maggiore numerosità di queste.
Le nostre società sono, però, rimaste permeate sulla passata struttura della popolazione, definita “a piramide”, caratterizzata dalla consistente fascia di popolazione in età lavorativa che si fa carico delle spese sociali e individuali di bambini e anziani. I bambini rappresentano un costo in termini di spese per l’istruzione, considerate un investimento per il futuro, ma pesano poco sulle spese sanitarie, e gli anziani, pur costituendo un patrimonio culturale e familiare prezioso, rappresentano un costo rilevante in termini di spesa sanitaria e pensionistica (Cagiano de Azevedo, Castagnaro, 2008).
La crescita della popolazione anziana in termini assoluti, che si sarebbe avuta anche con la sola diminuzione della mortalità, e, soprattutto, l’aumento della proporzione di anziani sul resto della popolazione e sulla componente giovanile, vengono denominati invecchiamento della popolazione. Questo fenomeno si è presentato attraverso una rivoluzione silenziosa, a causa della non visibilità delle dinamiche demografiche, ed è arrivato a rappresentare uno dei principali fenomeni demografici e sociali dei tempi moderni e una delle maggiori sfide che i paesi sviluppati, e non solo, devono e dovranno fronteggiare oggi e nel futuro.
Le determinanti dell’invecchiamento sono di per sé due componenti positive dello sviluppo umano: la diminuzione della mortalità e le migliori condizioni di sopravvivenza rappresentano un successo della società, come riportava già all’inizio del nuovo millennio l’Organizzazione mondiale della sanità, così come la possibilità delle donne di controllare la propria fecondità; l’invecchiamento di per sé non può quindi che essere considerato un processo positivo e ineluttabile grazie allo sviluppo demografico, ma soprattutto economico e sociale (Golini, Reynaud, 2005).
Il processo di invecchiamento della popolazione pone però numerose conseguenze, spesso non positive, che sono le più varie e coinvolgono tutti gli aspetti della popolazione, della società e dell’economia. Non c’è ambito sociale in cui non si registri un cambiamento dovuto all’invecchiamento della popolazione, basti pensare, ad esempio, all’introduzione nelle palestre di numerosi corsi per anziani o alla presenza di anziani nelle pubblicità. Le conseguenze più importanti appaiono immediate su alcuni settori, come quello sanitario e quello pensionistico: il primo è stato in parte messo in crisi, e lo sarà ancor di più nel futuro, dall’allungamento della vita media degli individui che necessariamente hanno e avranno bisogno di maggiori cure, sia perché gli anziani sono i maggiori fruitori del servizio sanitario – anche se non in termini di costi[2] – sia a causa di una più frequente cronicizzazione delle malattie; nel sistema pensionistico si è rotto l’equilibrio intergenerazionale sia perché l’allungamento della vita ha ampliato il periodo in cui un individuo percepisce la pensione sia perché si è ridotto il numero di coloro che pagano i contributi in proporzione a coloro che li percepiscono. Su altri settori le conseguenze possono sembrare meno dirette, ma non possono essere trascurate; il mercato del lavoro, ad esempio, vedrà presto ridurre l’ammontare della forza lavoro se non coinvolgerà maggiormente i lavoratori anziani e il suo stesso invecchiamento. In realtà, importanti cambiamenti si sono registrati nella famiglia che, al momento, ha sostenuto, in positivo e negativo, le conseguenze dell’invecchiamento: gli individui che sono usciti dal mercato del lavoro, hanno acquisito un periodo libero dai doveri del lavoro e dalle restrizioni delle malattie, che ha spesso permesso loro di dedicarsi alla famiglia sia verso l’alto, ai genitori anziani ancora in vita, sia verso il basso, aiutando i figli con i nipoti. La struttura della famiglia sta però continuando a cambiare, parallelamente a quella della popolazione, e nel futuro sarà sempre più difficile che essa continui ad avere lo stesso ruolo poiché il numero di figli che si possono occupare dei genitori sarà sempre minore (Golini, Basso, Reynaud, 2003).
A causa dei cambiamenti e delle problematiche che pone, l’invecchiamento della popolazione è stato al centro del dibattito sia scientifico sia politico (cfr. per es. Schoeni, Ofstedal, 2010). In campo internazionale si sono notevolmente diffusi gli studi su tale fenomeno, specialmente nel nuovo decennio (per es. Sanderson, Scherbov, 2006). In Italia, invece, tali studi si sono concentrati negli anni Novanta o nei primi anni del secolo e sembrano essere diminuiti, nonostante l’Italia si sia presentata, anche per molti anni a seguire, come il paese più invecchiato al mondo (Golini, Pinnelli, 1983; Golini, 1997, 1999, 2003).
Gli studi relativi all’invecchiamento, in realtà, si sono prevalentemente occupati delle relazioni tra le variabili demografiche ed economiche; in particolare si sono interessati alle conseguenze economiche dell’invecchiamento (per es. Lee, Mason, 2010), concentrandosi sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici e sugli effetti dell’invecchiamento sul welfare state (per es. Galasso, Profeta, 2007; Hirazawa, Kitaura, Yakita, 2010). A livello politico l’invecchiamento è diventato uno dei punti dell’agenda politica dell’Unione Europea e di alcuni paesi sviluppati; in particolare, la Commissione Europea ha presentato, nel 2006 e nel 2009, delle linee guida per trasformare la sfida dell’invecchiamento demografico in un’opportunità (Commissione europea, 2006, 2009). La politica italiana, invece, non sembra aver riposto attenzione verso questo fenomeno; l’unico aspetto considerato sembra essere stato quello riguardante la riforma del sistema previdenziale.
L’invecchiamento della popolazione italiana è stato molto lento: la popolazione anziana per raddoppiarsi dal 7% al 14% ha impiegato circa 80 anni, così come accaduto in molte popolazioni europee, e forse per questo il fenomeno è ancor meno percepito e affrontato, anche se poi il suo ritmo è cresciuto notevolmente visto che ha impiegato solo 20 anni per arrivare al 21%.
Questo percorso così differenziato nel tempo del processo di invecchiamento è da attribuire alla dinamica delle sue determinanti. La speranza di vita alla nascita[3] – che permette di misurare gli effetti della mortalità nel suo complemento che ne è la sopravvivenza – è nel 2015 pari a circa 80,1 anni per gli uomini e 84,7 anni per le donne, mentre all’inizio del secolo precedente era pari a circa 43 anni per entrambi i generi. Tale aumento si è verificato, sia pure in misura un po’ diversa, nel corso di tutto il periodo. Differente nel corso del tempo è stato invece l’andamento della speranza di vita a 65 anni, che caratterizza maggiormente l’invecchiamento dal momento che riguarda proprio gli individui anziani e quanto essi rimangano ancora, in media, nella popolazione. Questa diventa rilevante a partire dagli anni Ottanta: nel 1981 la speranza di vita a 65 anni era pari a 13,8 per gli uomini e 17,5 per le donne ed è arrivata nel 2015 a 18,7 e 22,0. Gli ulteriori aumenti della speranza di vita potranno essere determinati sempre più da uno spostamento in avanti dell’età in cui si muore, poiché, in paesi sviluppati come l’Italia, resta da fare poco per un’ulteriore contrazione della mortalità infantile e di quella degli adulti, sulla quale si può ormai agire molto relativamente attraverso il progresso medico e tecnologico e più significativamente attraverso il cambiamento degli stili di vita (Vaupel, Kistowski, 2005). La riduzione delle nascite, che in Italia più che altrove è stata persistente e protratta nel tempo, alla fine degli anni Novanta aveva rallentato, fino a mostrare una piccolissima ripresa. L’andamento del numero medio di figli per donna, mostra chiaramente come dai livelli superiori a 2,5 degli anni Sessanta – pari nel 1964 a 2,7 – si sia passati ad una fase di contrazione che ha portato a toccare nel 1995 il minimo storico di 1,19 figli per donna, arrivando poi nel primo decennio del duemila al massimo a 1,46 nel 2010. È proprio la dinamica della fecondità, e ancor di più nel numero di nascite, che influenzano oggi l’andamento dell’invecchiamento (Golini, 1999); la speranza di vita, considerati i valori molto elevati già raggiunti, seppur continui (almeno fino al 2014) ad aumentare, non ha subito negli ultimi anni e non subirà variazioni quantitative importanti che possano incidere significativamente sui livelli di invecchiamento. L’andamento della fecondità e il numero di donne in età feconda invece incidono direttamente e significativamente sul numero di individui che ogni anno si immettono nella popolazione e pertanto stanno segnando il percorso del processo di invecchiamento (Golini, 1997).
Il rialzo dei livelli di fecondità, realizzatosi dalla fine degli anni Novanta, ha permesso un rallentamento della crescita dei livelli di invecchiamento, inteso come proporzione degli anziani sia sul totale della popolazione sia sulla popolazione giovanile. La minore intensità del processo è, però, da attribuirsi anche e soprattutto alla trasformazione dell’Italia in paese di immigrazione e al boom di presenza straniera verificatosi negli anni 2000: la popolazione straniera ha, da un lato, rimpinguato la popolazione adulta e, dall’altro, sostenuto il numero di nascite grazie alla maggiore fecondità delle donne straniere (Blangiardo, 2003, Sartor, 2010; Gesano, Strozza, 2011). Nonostante ciò, a partire dal 2011 l’invecchiamento in Italia subisce un’accelerazione (fig. 1). La percentuale di anziani, incrementata dall’1.1.2008 al 1.1.2012 dello 0,3%, risulta aumentata nei successivi quattro anni dell’1,1%. Negli stessi periodi, l’indice di vecchiaia è passato da 143 anziani ogni 100 bambini all’1.1.2008 a 148 all’1.1.2012 e poi all’1.1.2014 a 154 anziani ogni 100 bambini. Ciò sembra essere legato alla crisi economica che il Paese, al pari degli altri paesi, sta vivendo. Sono note, infatti, le relazioni tra le crisi economiche e l’andamento della fecondità, approfondite negli ultimi anni proprio a causa di una nuova diminuzione della fecondità registrata da 2011 (Kreyenfeld, Andersson, Pailhè, 2012; Sobotka, Skirbekk, Philipov, 2011). Ancor più stretto appare il legame tra condizioni economiche e immigrazione, sia in termini di presenza straniera, sia di flussi di immigrazione, ma anche di emigrazione (Golini, Moretti, 2011; Serrano-Martínez, García-Marín, 2013). L’aumento dei tassi di disoccupazione, causati dalla crisi economica, fanno sì che gli stranieri vedano fallire il proprio progetto migratorio decidendo di cambiare meta o di tornare in patria, ma rendono anche allettante il trasferimento all’estero degli italiani che, infatti, negli ultimi anni hanno fatto registrare una crescita delle emigrazioni.
Nonostante ciò, l’interesse dei ricercatori e della politica, così come dei mass-media, sull’invecchiamento o sulle relazioni tra questo e le variabili economiche appare smorzato o indifferente alla crisi, cioè non tale da occuparsi degli effetti demografici della crisi economica.
Sembra, quindi, non essere stato considerato, almeno in Italia, l’effetto che la crisi economica avrà sull’invecchiamento. L’interesse, in Italia, si è più semplicemente riposto sull’andamento di specifiche dinamiche, quali quelle dei matrimoni e dell’immigrazione, facendo emergere gli effetti della crisi anche in campo demografico (Blangiardo, 2012). Che il quadro demografico sia decisamente peggiorato appare evidente dai dati sulla fecondità e sulle migrazioni: la fecondità appare in diminuzione dal 2011, quando era pari a 1,45, al 2014, quando è uguale a 1,37, e se lo scarto può apparire contenuto quando lo si moltiplica per il numero di donne le nascite in meno risultano essere dell’ordine di 40mila annue; il saldo migratorio è passato dal 6 per mille del 2008 all’1,1 del 2014. Questo peggioramento appare ancora più evidente se lo si confronta con lo scenario atteso, previsto dall’Istat con base 1.1.2011. Secondo tale scenario, all’1.1.2014, la percentuale di anziani sarebbe dovuta essere pari al 21,2% contro il 21,4 attuale, mentre l’indice di vecchiaia era previsto pari a 151,7 contro il 154,7 rilevato. Se tali cifre possono apparire poco significative, è importante sottolineare come questi effetti si amplificano e si amplificheranno nel tempo, dal momento che sempre meno figli metteranno al mondo sempre meno bambini.
Un aspetto fondamentale dell’invecchiamento è la sua ineluttabilità e di conseguenza i suoi tempi di realizzazione. Essi sono profondamente diversi nel tempo e nello spazio (Kurek, 2007). Il percorso dell’invecchiamento è stato estremamente diversificato a livello territoriale. Il Nord Italia, ricco e industrializzato, ha vissuto per primo il processo di invecchiamento grazie soprattutto a una più intensa e veloce diminuzione della fecondità, in gran parte dovuta al cambiamento del contesto lavorativo e del ruolo della donna nel mercato del lavoro; questa diminuzione non si è, invece, registrata per molti decenni nel Mezzogiorno, dove la famiglia e il ruolo della donna sono rimasti a lungo nella loro figura tradizionale e dove più alta fecondità ha permesso uno sviluppo sociale ancora più lento.
Scendendo ancora a livello territoriale, ogni contesto amministrativo, quale quello regionale, provinciale e comunale, si trova ad affrontare la gestione di una popolazione sempre più invecchiata con intensità estremamente diversificate. Oggi, in un contesto di regionalizzazione sanitaria, in cui la soddisfazione dei bisogni sanitari della propria popolazione è demandata alle regioni, ognuna di esse si trova a confrontarsi con una proporzione di anziani molto differente: la Liguria, che è ed è sempre stata la regione più invecchiata, all’1.1.2014 presenta, infatti, una percentuale di anziani sul totale della popolazione pari al 28,0% in confronto al 17,6% della Campania, che ancor oggi detiene il titolo di regione più giovane, grazie ad una fecondità, fino al 2008, leggermente superiore a quella della media italiana, ma pur sempre drasticamente sotto il livello di sostituzione. Le province presentano un quadro ancor più eterogeneo, con le province di Savona (28,5%), Trieste (28,4%) e Genova (28,1%), che presentano valori superiori a quelli della Liguria, mentre all’opposto, Napoli e Caserta presentano un valore (16,4%) inferiore a quelli della Campania. Il discorso è ancor più complesso a livello di comune, poiché si trovano comuni con una percentuale di anziani superiore al 40%, come Nasino e Castelvecchio di Rocca Barbena in provincia di Savona, e comuni in cui gli anziani sono ancora solo il 10%, come Melito di Napoli, in provincia di Napoli. Essendo l’invecchiamento un processo, come già sottolineato, ineluttabile, è stato verificato che laddove l’invecchiamento è ancora contenuto, la sua velocità sarà invece più elevata, mentre dove è stato sempre più elevato il processo ha subito un rallentamento (Golini, Basso, Reynaud, 2003; Miccoli, Reynaud 2016).
Appare, quindi, ancor più importante il ruolo della politica nei diversi livelli territoriali, ma soprattutto a livello centrale. Le politiche potrebbero, infatti, giocare un forte ruolo sia nell’intensità del fenomeno, sia, e soprattutto, nel rallentamento con cui si verifica (Golini, 2000). Essendo l’invecchiamento un fenomeno ineluttabile e positivo, questo non può essere in alcun modo annullato dalle politiche. Politiche che riescano ad aumentare la fecondità potranno far sì che l’invecchiamento nel futuro sia meno intenso di quello che si può prevedere oggigiorno, così come le politiche migratorie possono essere viste come una parziale soluzione alla diminuzione della fascia di età centrale della popolazione e vanno considerate come necessarie per l’aumento della forza lavoro e per il sostegno alla fecondità da parte delle donne straniere.
Le politiche dovrebbero, inoltre, agire sulle conseguenze dell’invecchiamento, che potranno essere fronteggiate, con più o meno successo, dalle politiche che si attuano in tema di salute, economia, sicurezza sociale, ambiente, e così via. Necessariamente si dovrà, infatti, ripensare all’organizzazione della nostra società e, soprattutto, ai sistemi di Welfare che, basandosi oggi sulla maggiore consistenza della popolazione attiva, non potranno più reggere il carico di una popolazione anziana sempre più ampia sia in valore assoluto sia in proporzione alle altre sub-popolazioni. Un ripensamento delle risorse destinate agli anziani e della visione dell’anziano potranno far sì che il futuro sia soprattutto più gestibile, anche se il rischio è quello di togliere risorse ai giovani, che così potrebbero scegliere di emigrare o non riuscire a realizzare i loro progetti di vita diminuendo ancor più la fecondità; questo significherebbe accentuare l’invecchiamento della popolazione e creare una sorta di circolo vizioso.
Conoscendo l’inerzia dei fenomeni demografici (Livi Bacci, 2011), che è ben più lunga e ingente di quella dei fenomeni economici, questi cambiamenti in atto saranno, infatti, difficili da invertire e gli effetti congiunturali della crisi economica di oggi si vedranno in realtà anche nel futuro poiché segneranno il comportamento di molte generazioni.
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[1] Il temine transizione demografica identifica il processo evolutivo di una popolazione che segna il passaggio da una fase di equilibrio, con alti tassi di natalità e di mortalità, ad una fase, sempre di equilibrio, con bassi tassi di natalità e mortalità, attraverso una fase di transizione in cui la mortalità comincia a diminuire provocando un forte incremento demografico, mentre la natalità rimane all’inizio su livelli elevati per poi diminuire successivamente fino ai livelli della mortalità (Blangiardo, 2006). La transizione demografica è un processo universale che diversamente nel tempo e nell’intensità tutte le popolazioni hanno vissuto, stanno vivendo o vivranno.
[2] È stato dimostrato che i costi maggiori riguardano terapie e strumentazioni più sviluppate e spesso non destinate agli anziani. Gli anziani, seppur si rivolgono ai servizi sanitari maggiormente, sfruttano maggiormente la medicina di base, molto più contenuta nei costi (ISAE, 2005).
[3] La speranza di vita alla nascita è pari al numero medio di anni che un individuo può sperare di vivere se sarà esposto nel corso della sua vita alle condizioni di mortalità osservate (Blangiardo, 2006).