La trasformazione delle organizzazioni e del lavoro è dominata da qualche decennio dalle tecnologie digitali. Dopo aver colonizzato e integrato quasi tutti gli ambiti di sviluppo delle tecnologie precedenti, il cerchio si stringe e ha ormai raggiunto il lavoro umano. Lavoro sia fisico che intellettuale, sempre che la distinzione abbia ancora senso in un contesto di diffusione dell’intelligenza artificiale. Tuttavia, l’evoluzione dei modelli organizzativi tende a essere sottovalutata rispetto a quella delle tecnologie, alla quale è connessa in modo inscindibile e di cui è l’insostituibile complemento.
La crescita delle organizzazioni è avvenuta fino agli anni Ottanta del secolo scorso sulla base di un modello definibile come distribuito. Ciascuna unità organizzativa, dotata di propria funzione e gerarchia, operava con livelli definiti di autonomia e scambiava informazioni sulla base di protocolli procedurali condizionati dalla tecnologia dell’epoca. Il ruolo di direzione, supervisione, controllo e distribuzione della conoscenza erano fondamentali e prevalenti. Il modello distribuito viene superato dalla crescita parallela dei sistemi informativi, che consentono di registrare e far circolare le informazioni con velocità molto superiore, e dalla globalizzazione. Il modello evolve verso una logica centralizzata, che consente di migliorare l’efficienza tramite la specializzazione e la concentrazione degli investimenti in tecnologie e competenze.
Nel presente l’evoluzione vede emergere le organizzazioni decentrate. Non si tratta di un ritorno al passato, la “trama organizzativa” diviene sempre più fitta e articolata, talmente integrata da apparire unica e richiedere una lente d’ingrandimento per identificare le unità organizzative, le responsabilità, le performance. Non serve un centro regolatore, l’organizzazione è strutturata in base al suo software che ne determina i comportamenti, i vincoli, gli obiettivi, le misure. È un modello molto più simile a quello degli esseri viventi, si sviluppa secondo principi organici, come appunto quelli dell’ecosistema. Le singole “cellule” e i “tessuti specializzati” sono dotati di elevata autonomia operativa e si sviluppano attraverso l’apprendimento, anch’esso in larga parte autonomo. L’apparente assenza di gerarchia e la rapidità dei movimenti fa erroneamente pensare alcuni studiosi che l’organizzazione decentrata rappresenti il giorno del giudizio per i dirigenti (Hamel, 2011) e che il futuro veda emergere l’organizzazione liquida, prendendo anche spunto dalle teorie sociologiche di Zygmunt Bauman (2020). Ritengo si tratti di un errore di prospettiva, talvolta in buona fede, talaltra ispirato da uno spirito de-costruttivo e dalla contrapposizione ideologica con i detentori di un qualche potere. Scompaiono in realtà solo quei dirigenti condizionati da modelli organizzativi sorpassati, ma il contributo di conoscenza, capacità decisionale, assunzione di responsabilità richiesti dalle organizzazioni decentrate è alto e in forte crescita.
Lo stadio raggiunto dalle organizzazioni più evolute vede prevalere la struttura della piattaforma (digitale, logistica, conoscitiva), elemento abilitante che tende a incorporare, superare e trasformare i modelli classici dell’intermediazione e del mercato. La piattaforma re-intermedia con profondità e pervasività molto maggiore i settori e gli ambiti ai quali è destinata, benché spesso si presenti come strumento di disintermediazione. Le piattaforme rappresentano in realtà uno stadio evolutivo delle organizzazioni. Dopo un periodo iniziale di incondizionato entusiasmo, oggi iniziano a emergere le reazioni dei sistemi organizzativi tradizionali, che ricercano protezione nelle norme e nell’imposizione fiscale territoriale (come nel caso del commercio tradizionale vs. e-commerce e degli hotel nei confronti delle OTA, Online Travel Agency). Nell’organizzazione del lavoro umano emergono aspetti di criticità derivanti dalla parcellizzazione delle prestazioni e dalla pervasività dei sistemi di tracciamento, che suscitano l’attenzione delle organizzazioni sindacali dei lavoratori.
Secondo la delegazione italiana all’ILO, la sfida del sindacato futuro verterà proprio sul lavoro digitale e su piattaforma, attraverso un sistema di tutele che protegga quei lavoratori che con enfasi sono definiti “i nuovi schiavi”. L’obiettivo di tutela della qualità e della dignità del lavoro è condivisibile, a patto che venga raggiunto tramite strumenti adeguati alla realtà contemporanea. È sufficiente tentare di attrarli in un modello di “lavoro dipendente”, già obsoleto anche per le categorie tradizionali? È vincente puntare sul riconoscimento del diritto di sciopero?
Ancora più complessa è la partita del “diritto alla disconnessione”, che rischia di penalizzare proprio quei lavoratori che si vorrebbero proteggere, in particolare quelli più qualificati e in grado di assumere responsabilità. Non sarebbe più efficace parlare di tempi di risposta, indipendentemente dalla connessione o meno, in base alle diverse situazioni? Alle organizzazioni con base sociale, sindacati e Stati in testa, conviene occuparsi di possibilità e capacità d’accesso delle persone all’ecosistema, garantendo in primis la disponibilità delle risorse. La sfida della nuova rappresentanza dei lavoratori si gioca infatti nella capacità di trasformare le “conquiste” e le “tutele” sviluppatesi soprattutto in Europa negli ultimi decenni del Novecento in strumenti efficaci e flessibili, in un nuovo contesto di competizione globale o macro-regionale basato su eco-sistemi organizzativi organici in perenne trasformazione.
Il primo vincolo da superare è la rigida distinzione tra lavoro dipendente e autonomo.
Nella maggior parte dei casi il lavoro si inscrive infatti in una realtà organizzata, in cui quel servizio specifico ha un ruolo, regole, obiettivi, modalità, requisiti di competenza, risultati da raggiungere, tempo da dedicare, orari di servizio al pubblico. La sfida concettuale e pratica consiste nell’estendere le tutele, oggi tipiche del lavoro dipendente, a molte professioni e attività oggi definite come autonome, preservandone gli aspetti di flessibilità e di decentralizzazione organizzativa, di cui beneficerebbero le aziende e anche i lavoratori oggi definiti come dipendenti. Nel modello del lavoro organizzato si prospetta un nuovo ruolo per il sindacato, in cui fanno premio le competenze contrattuali, la capacità di costruire e gestire sistemi di welfare su base solidaristica, la possibilità di trasferire esperienze, buone prassi e soluzioni tra aziende e tra territori.
La contrattazione collettiva, profondamente rinnovata, può rappresentare, al contrario di molte opinioni correnti, un luogo centrale d’innovazione del lavoro, anche sostitutivo dell’azione normativa statale. Un modello basato su norme generali e contrattazione collettiva consente un’evoluzione molto più graduale e coerente nel tempo; per queste ragioni ne sostengo la superiorità rispetto a modelli che prevedono leggi più invasive. Sul fronte opposto, la contrattazione collettiva deve difendersi rispetto alla prevalenza degli accordi aziendali o individuali, che i più strenui sostenitori invocano come antidoto contro la rigidità. In realtà tra le due forme esiste un’osmosi favorevole all’evoluzione del sistema.
Nell’orizzonte del futuro contemporaneo, come sopra definito, assisteremo a trasformazioni profonde del lavoro e delle sue strutture organizzative e regolamentari. Trasformazioni che possono comportare rischi anche gravi per le nostre comunità. Utilizzerò un’immagine in qualche modo simbolica per rappresentarne alcuni.
Fonte: Mantovani, 2019
È l’immagine di una villa sviluppata su due piani: in quello superiore si possono facilmente immaginare le attività con maggior contenuto di conoscenza, leadership, valore aggiunto, remunerazione; in quello inferiore le altre. In passato i due piani erano collegati da scale e ascensori “sociali” e il percorso di carriera era normalmente in crescita, più o meno intensa, fino al pensionamento. Nel tempo futuro contemporaneo sono state apportate alcune modifiche decisive alla struttura della villa: la più rilevante prevede una netta separazione, non valicabile, tra i due piani, senza più scale, né ascensori. Di conseguenza i due piani hanno ingressi e uscite separati, che suggeriscono il titolo del quadro: la Grande Segregazione (cfr. Mantovani, 2019).
Anche gli interni sono stati profondamente ristrutturati, tanto da non poterli più associare a professioni “alte” o “basse” nella scala sociale. Il piano inferiore è infatti basato sulle esigenze delle intelligenze artificiali, è l’area occupata da quella parte dell’organizzazione in cui esse prevalgono: il lavoro umano è utilizzato per collegare parti di lavoro robotico che costerebbe maggiormente automatizzare, e comprende anche tutte le figure altamente qualificate che sviluppano, mantengono, addestrano le intelligenze artificiali. Possiamo definirla un’organizzazione cibernetica, in cui orari, ferie, permessi, luoghi del lavoro e altri retaggi del lavoro propriamente umano sono elementi quasi sconosciuti. Ciò non significa che gli esseri umani che vi lavorano siano necessariamente de-qualificati o guadagnino poco: ci sono rider e programmatori junior, ma anche ingegneri, neuro-biologi, innovatori e miner di cripto-valute. Si possono guadagnare grandi cifre sfruttando gap di know-how, sviluppando innovazioni, approfittando d’improvvisi picchi di domanda, speculando. Oppure incassando micro-pagamenti per attività realizzabili nei ritagli di tempo, altrimenti dedicato allo studio, all’assistenza, all’arte.
Il piano superiore possiamo definirlo “direzionale”. Non è più accessibile dal basso, ma si entra soltanto da un ingresso presso il quale occorre presentare un profilo altamente qualificato, caratteristiche professionali eccellenti, capacità di visione e d’elaborazione superiori. Occorre saper imparare e prepararsi a farlo per tutta la vita. L’esperienza conta poco, a meno che non sia codificata in un modello, in una struttura condivisibile e validabile e utilizzata per accelerare la crescita. Molte attività d’ingresso, anche nei settori un tempo ritenuti intellettuali, come gli studi legali, la medicina, l’informatica, sono ormai svolte al piano inferiore e sono quindi utilizzabili solo a distanza, con l’ausilio di strumenti di analisi della realtà aumentata. Si accede quindi con master program e altre forme d’avviamento, ma è necessario ottenere rapidamente un ruolo distintivo per competenze e responsabilità. Qui potete trovare manager, scienziati, statisti, ma non è facile avere successo e rimanervi a lungo. Ovviamente vivono al piano superiore anche le persone che si occupano dei servizi agli altri lavoratori, che non sempre amano la compagnia di robot: artisti, architetti, cuochi, persone di spettacolo, ma anche camerieri. È facile uscire dal piano superiore, ma è poi difficile rientrare, anche nel piano inferiore. Più si rimane, più occorre capacità d’adattamento, anche economico, a causa di una forte competizione per ottenere gli incarichi migliori.
La struttura del piano superiore, tendente alla separazione rispetto al resto del mondo, può favorire la crescita di élite nel senso proprio del termine. L’ascensore sociale ha funzionato e il numero di piani si è ridotto, nella seconda metà del XX secolo, distribuendo poteri e responsabilità orizzontalmente. Ora tuttavia emergono segnali di rallentamento di questo processo, e non vanno ricercati tanto nella distribuzione della ricchezza (che pure è una componente importante) quanto nello scenario del lavoro che sto descrivendo. Ma gli osservatori più attenti avranno notato che la villa è immersa in uno spazio esterno, con cieli, prati, alberi. Se molte persone dovessero trovarsi all’aperto, senza possibilità d’ingresso o re-ingresso in uno dei due piani, uscire dalla villa potrebbe essere pericoloso. Chi vorrebbe vivere in una società estremamente polarizzata, in cui chi ha un lavoro vive asserragliato e chi non ce l’ha è immerso nel degrado, nel risentimento, nella violenza? Si può immaginare di risolvere tutto con la tassazione, pagando le persone per non lavorare ? La coda sotto la finestra da cui piovono soldi si allungherà ogni giorno, poi qualcuno monterà sulle spalle dell’altro, sfonderà i vetri e reclamerà più soldi.
Lo scenario della Grande Segregazione rivela il rischio principale del futuro contemporaneo: una divaricazione non più colmabile. Già oggi alcuni economisti ipotizzano una Grande Biforcazione (Toufani, 2018) che potrebbe realizzarsi entro il 2030 e condurre l’umanità a differenziarsi, per effetto di tecnologie in grado di modificare la specie umana. Solo una parte dell’umanità potrebbe avvalersi di nuove tecniche in grado di prolungare la vita, di superare i limiti dell’intelligenza umana, di acquistare in definitiva il futuro. Lo scenario della Grande Segregazione suggerisce la possibilità che le differenze si vadano esplicitando nei medesimi luoghi, in modo simile a quello in cui da secoli convivono le caste indiane, e non attraverso la distinzione tra paesi ricchi e poveri.
La vera sfida del lavoro nel futuro contemporaneo sta perciò in quei cieli, in quei prati, in quegli alberi. Sta in una nuova definizione di lavoro che consenta a chi si prende cura dell’ambiente e della società di essere valorizzato e stimato come il resto dei lavoratori, sta nella possibilità di lavorare per aumentare bellezza e gradevolezza dei luoghi e delle persone, per far sì che le finestre della Villa possano rimanere aperte senza pericolo. La Grande Segregazione si potrà evitare se la riflessione sul lavoro rimarrà al centro dell’attenzione politica ed economica, attirando le forze intellettuali e operative migliori. L’avversario principale è l’ideologia che vede il lavoro umano marginalizzato, reso inutile dallo sviluppo tecnologico, concentrando perciò l’attenzione sul reddito da garantire ai cittadini. Il lavoro dovrà tendere a incorporare una serie di diritti che danno sostanza a un vero e proprio contratto sociale: oltre alla remunerazione, i diritti riguardano sicurezza, salute, conoscenza, inclusione sociale, accesso a beni e servizi non monetari, welfare, mobilità territoriale, cura dei bambini e dei deboli, non discriminazione.
La sfida degli economisti sta tutta qui: costruire un modello che dia un nuovo significato al lavoro, che non si proponga utopicamente di eliminare ricchezza e povertà, ma ci aiuti a non precipitare nell’inutilità, nell’ostilità, nel degrado.
Bibliografia
- Hamel G., First, Let’s Fire All the Managers, «Harvard Business Review», dicembre 2011.
- Mantovani M., Il lavoro ha un futuro. Anzi tre, Guerini & Associati, Milano, 2019.
- Toufani A., Exonomics, SingularityU Italy Summit, Milano, 2018.
- Bauman Z., Modernità liquida, Laterza, Bari-Roma, 2020.