In quanto continente più “vecchio” in termini di urbanizzazione, l’Europa ha un grande problema con il consumo di suolo. Rispetto ad altre aree del mondo dove gli insediamenti sono concentrati all’interno di grandi megalopoli, in Europa nel corso dei secoli il suolo “naturale” è stato progressivamente consumato in favore di attività antropiche, con tutte le conseguenze che ciò comporta: perdita di biodiversità, maggiore vulnerabilità nei confronti di alluvioni, frane e fenomeni meteorologici estremi, riduzione delle aree boschive con conseguente limitazione della capacità naturale di sequestro dell’anidride carbonica ecc. Le grandi città, paradossalmente, hanno il vantaggio di ridurre l’estensione degli insediamenti abitativi, sviluppati in altezza, e minimizzare lo spazio abitabile pro capite; ma se è vero che tutto il mondo sta sperimentando da tempo una crescita dell’urbanizzazione – agli inizi di questo secolo per la prima volta la popolazione delle città ha superato, a livello mondiale, quella delle aree rurali – in Europa si assiste piuttosto a uno spostamento verso le periferie e le aree suburbane, con conseguente aumento del consumo di suolo nella fascia verde che tradizionalmente circonda le grandi aree metropolitane. La diffusione di grandi centri commerciali in periferia risponde al desiderio degli abitanti di avere accesso a una vasta gamma di servizi commerciali senza dover recarsi nei centri cittadini, potendo così risiedere in zone suburbane economicamente più vantaggiose minimizzando gli svantaggi dell’isolamento rispetto al centro. Il risultato è che, nonostante il progressivo calo del ritmo di crescita della popolazione europea, aumenta lo sprawl, ossia la dispersione abitativa. Dalla metà degli anni Cinquanta a oggi, la superficie totale delle città europee è aumentata del 78% a fronte di una crescita della popolazione pari al 33%.
Un fenomeno a cui l’Unione europea guarda con preoccupazione: ogni anno un’area delle dimensioni di Berlino – circa 1000 km2 – di suolo agricolo o naturale scompare, rimpiazzata da infrastrutture artificiali. In Germania lo spazio abitativo medio pro capite è salito da 34,9 metri quadri nel 1991 a 46,5 nel 2015. Nasce così l’obiettivo di raggiungere, entro il 2050, un consumo netto di suolo zero, previsto dall’Environment Action Program dell’UE nell’ambito del Settimo programma quadro. Il recente documento No net land take by 2050 pubblicato all’interno del servizio “Future Briefs” dell’ufficio per le politiche scientifiche e ambientali della Commissione europea fa il punto sulle azioni da intraprendere per realizzare questo ambizioso obiettivo. Che cosa si intende per “consumo netto di suolo zero”? Non si tratta di fermare il consumo di suolo, ossia impedire un’ulteriore estensione delle aree urbane e infrastrutturali, obiettivo utopico che andrebbe a detrimento dello sviluppo economico; ma si parla di “consumo netto”, il che vuol dire che per ogni superficie di terreno antropizzata è necessario prevedere la rinaturalizzazione di una superficie di terreno di uguale estensione. La strategia europea si fonda dunque su tre princìpi:
- Evitare, vale a dire scoraggiare la conversione di spazi aperti non edificati o terreni agricoli in nuovi insediamenti urbani.
- Riciclare, ossia trasformare le aree urbane abbandonate e non più attive riconvertendole a nuovi usi o favorendo la loro rinaturalizzazione.
- Compensare, cioè bilanciare l’edificazione di aree precedentemente non edificate con progetti di rinaturalizzazione o de-impermeabilizzazione di aree edificate laddove l’impermeabilizzazione del suolo non è più necessaria.
Questa strategia appare tanto più urgente in paesi come l’Italia, soggetti a un sensibile calo della popolazione nei piccoli centri urbani. La persistenza di insediamenti ormai abbandonati su suoli che potrebbero altrimenti essere riconvertiti e riportati al loro stato naturale impone l’adozione di politiche che favoriscano questa trasformazione, evitando che il paesaggio italiano finisca per essere costellato di rovine urbane e industriali. L’UE guarda con grande attenzione soprattutto alla possibilità di riconversione delle grandi aree industriali dismesse, non solo quelle prodotte dalla de-industrializzazione, ma anche dagli effetti dell’attuale recessione economica, che ha portato alla chiusura di numerosi stabilimenti anche piccoli. L’Agenzia europea per l’ambiente stima che in Europa siano presenti circa tre milioni di aree industriali dismesse. La CABERNET – la rete europea che si occupa della rigenerazione di queste aree – le divide in tre categorie: i siti A, facilmente riconvertibili attraverso l’impiego di soli capitali privati; i siti B, che offrono meno garanzie di sviluppo e la cui riconversione va pertanto sostenuta da una qualche forma di finanziamento pubblico, generalmente partnership pubblico-privato; i siti C, che presentano complessità tali da richiedere il massiccio investimento di capitali pubblici per attirare investitori privati, solitamente perché contaminati e pertanto richiedenti una preventiva bonifica per la riconversione.
Riportare a uno stato “naturale” queste aree dismesse permetterebbe di realizzare più facilmente l’obiettivo del consumo netto di suolo zero: i siti industriali abbandonati sono spesso situati all’interno di centri urbani, pertanto le amministrazioni possono usarli per recuperare quella superficie di terreno che invece altrove si trovano costretti a sacrificare per esigenze di ampliamento abitativo o industriale. Al fine di verificare la diffusione dello sprawl, nel 2015 l’Agenzia europea per l’ambiente si è dotata di un servizio – il Copernicus Land Monitoring Service – in grado di effettuare una mappatura con risoluzione fino a 10 metri delle 700 città più grandi dell’UE, per ottenere dati precisi sul processo di estensione degli insediamenti urbani. Questi dati potranno essere messi a disposizione degli uffici di pianificazione urbanistica delle amministrazioni locali, così da rendere più facilmente realizzabile il compito di pianificare nuovi insediamenti rispettando l’obiettivo del consumo netto di suolo zero. Altre strategie passano per l’adozione di legislazioni ad hoc, sull’esempio delle best practices già adottate in diversi paesi europei. Il report cita una serie di esempi: la legge adottata nel 1989 in Danimarca, che prevede che nuovi uffici di dimensioni superiori a 1500 m2 siano costruiti esclusivamente entro un raggio di 600 metri da una stazione ferroviaria, per contenere la dispersione urbana; il Piano di utilizzo del suolo adottato in Svizzera nel 1970, che ha stabilito con precisione i confini della crescita urbanistica; le leggi attive in Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e in Lombardia che prevedono il pagamento di una tassa per la conversione del suolo agricolo ad altri usi, e in particolare quella adottata in Polonia che prevede, nel caso di conversione di un terreno agricolo, il recupero dello strato superficiale del suolo da impiegare per aumentare la fertilità di altri suoli; o infine le linee guida per la pianificazione territoriale adottate in Germania, in Austria, in Toscana e nella provincia di Bolzano che considerano la diversa qualità dei suoli e favoriscono l’insediamento urbano nei suoli di minore qualità, per tutelare quelli più fertili.