Gli attacchi dell’11 settembre 2001, gli attentati internazionali che vi hanno fatto seguito e soprattutto le incursioni terroristiche che hanno colpito direttamente la Francia negli ultimi mesi hanno rivelato i difetti di coordinamento dei servizi di intelligence e innalzato il livello di allarme in tutti gli Stati europei, rendendo sempre più attuale la necessità del contrasto al terrorismo, che rappresenta una delle principali priorità per l’Unione europea. Inoltre, le sfide poste dall’immigrazione irregolare, con l’aumento e la diversificazione dei flussi migratori verso l’Europa mediterranea, insieme all’“esplosione” della rotta balcanica a fianco di quella marittima che dalla Libia conduce in Italia, hanno gradualmente coinvolto anche i Paesi della sponda sud del Mediterraneo (cfr. De Fazio R. S., 2015).
Tali elementi dimostrano oggigiorno ancor più rispetto al recente passato la fragilità, anche materiale, della costruzione identitaria europea, che si traduce politicamente nel rafforzamento dei confini esterni all’Unione e nelle restrizioni al principio di libera circolazione al suo interno. Contrariamente al progetto originario di enlargement che ha condotto all’attuale conformazione dell’Unione europea a 28 Stati, si percepisce oggi la presenza di correnti di disintegrazione, mentre la ri-nazionalizzazione della sicurezza ostacola significativamente l’architettura multilivello di governance sovranazionale e l’assetto geo-politico aperto e armonicistico propri del processo di integrazione europea. In tale contesto, l’odierno collasso e le crescenti tensioni hanno investito di cambiamenti sostanziali l’assetto geo-politico del Medio Oriente, richiedendo accordi di ultima generazione e nuovi piani d’azione bilaterali tra Unione Europea e Medio Oriente, ad esempio nel quadro politico-istituzionale dell’Unione per il Mediterraneo.
La holding del terrorismo jihadista
Napoli è una base logistica per il Medio Oriente. Ci sono contatti fra i clan mafiosi e gli estremisti islamici. La scorsa estate lo stesso Salah Abdeslam, fino a poco fa l’uomo più ricercato d’Europa per via dell’attentato a Parigi, ha liberamente viaggiato in Italia, ha preso un traghetto da Bari per la Grecia, aveva una carta prepagata italiana e documenti italiani falsi. Dopo gli attacchi alla redazione di “Charlie Hebdo” a Parigi nel gennaio 2015, i funzionari antimafia e antiterrorismo italiani hanno evidenziato connessioni di lunga data tra i jihadisti e la camorra napoletana. Inoltre hanno scoperto legami con la mafia siciliana Cosa Nostra e la ‘Ndrangheta, tracciando le armi oggetto di traffico clandestino arrivate facilmente nei porti napoletani (cfr. Colella, 2016).Tra l’altro la stessa modalità organizzativa delle cellule del terrorismo jihadista ricalca i profili di organizzazioni malavitose italiane. Si va dalla capacità di intrattenere rapporti ambivalenti con i poteri legali a link di collegamento più importanti che spaziano dal narcotraffico al riciclaggio di denaro. Il terrorismo jihadista per sopravvivere ha bisogno di basi logistiche per la produzione di video, di finanziamenti, di una solida rete di contatti per il reclutamento e soprattutto di documenti falsi (passaporti o carte di identità) che vengono utilizzati anche dai futuri attentatori (cfr. Colella, 2013). In questo ultimo settore si distinguono particolarmente Italia e Spagna. In Italia, nella regione Campania è molto diffusa la presenza di algerini legati al Gruppo Salafita per la Predicazione ed il Combattimento nato da una scissione all’interno del Gruppo Islamico Armato (G.I.A.). Si tratta di un’organizzazione legata al terrorismo con diramazioni in tutta Europa, dedita principalmente al traffico internazionale di documenti falsi, con collegamenti con le aree di Vicenza, Milano e soprattutto Santa Maria Capua Vetere.
Spesso nei comuni italiani negli ultimi tempi sono stati sottratti documenti. Al comune di Campobasso, in Molise, agli inizi di dicembre 2015 sono state rubate 1000 carte di identità in bianco. Nel luglio del 2014 invece a Gallipoli, nel Salento, scattava l’Operazione Bingo quando vennero rubate 12 pistole e 1050 carte di identità. Gli indagati facevano parte di un gruppo criminale operante nel Sud Italia e specializzato in documenti falsi molti dei quali poi finiti in mano ad immigrati siriani, palestinesi, afghani, albanesi ecc. I provvedimenti vennero eseguiti soprattutto in tre comuni del Casertano: Frignano, Teverola e soprattutto Santa Maria Capua Vetere. In territori come la provincia di Caserta è impensabile che non ci sia un legame tra la camorra locale e le attività strumentali al terrorismo internazionale.
Facendo un po’ di dietrologia, all’inizio degli anni Novanta gruppi di terroristi algerini si stabiliscono nel nostro Paese. Essi utilizzano l’Italia come base logistica e per fare proselitismo ma si specializzano nella fabbricazione di documenti falsi, per gli altri gruppi, per se stessi, per Al-Qaeda. I terroristi di matrice islamica nel nostro Paese vengono in genere da ceti borghesi medio-alti. Come copertura fanno gli imprenditori, i commercianti, gestiscono aziende di import-export, call center. Ma ci sono anche professori, studenti, tecnici specializzati, artigiani, elettricisti, semplici manovali, disoccupati (Colella, 2015).
Ufficialmente riescono a mettere in piedi anche attività imprenditoriali autonome, come è stato nel caso di un gruppo milanese che aveva creato una società di servizi di pulizia a Gallarate – salvo poi scoprire che non svolgeva alcuna attività. Cellule importanti negli anni sono state scoperte a Milano, Roma, Torino, Napoli dove ci sono state perquisizioni, arresti, processi ed anche condanne. Il circuito jihadista in Italia ha origini – come visto – pregresse; in un primo momento ci si incontrava in garage o seminterrati, poi si è passati ai centri di culto islamici che in Italia sono letteralmente cresciuti in numero esponenziale non essendo regolamentati a livello normativo.
Il terrorismo jihadista, come anticipato in precedenza, ha bisogno di finanziamenti per alimentarsi. L’attività di finanziamento globale risulta segnata da due strategie: quella del money laundering, sicuramente la più conosciuta, basata sui proventi derivati dall’attività criminale, in seguito ripuliti per poi essere integrati nel mercato legale, e quella del money dirting basata sulla raccolta illecita dei fondi da parte dei terroristi per poi occultare la finalità ultima dei vari movimenti di capitali ed impiegarli in attentati terroristici. Diversi sono i canali per il finanziamento che vanno dalle cospicue elargizioni di Arabia Saudita, Kuwait e Qatar al riciclaggio del denaro attraverso il Kenya, il Libano, la Svizzera, la Tanzania, lo Yemen, il Pakistan. A ciò va aggiunto il traffico di armi attraverso i Balcani e la Svizzera; il traffico di diamanti attraverso l’Olanda, il Congo, il Libano, il Pamir e la Sierra Leone; la prostituzione dai Balcani all’Europa Occidentale, cyber-postazioni e infine non meno importanti i fondi di investimento tra Londra, Dubai e Singapore, conti bancari di prestanome e il commercio della droga attraverso l’Afghanistan lungo la direttrice dell’oppio e i diversi circuiti del narcotraffico mondiale.
Particolare attenzione è stata posta dall’Intelligence italiana al trasferimento di denaro con il sistema hawala, in cui si richiede l’intervento di un operatore hawaladar (broker) nella località di partenza ed in quella di destinazione. I vantaggi di un tale sistema sono diversi: da una parte, esso permette di trasferire rapidamente denaro da una persona all’altra in un Paese straniero, indipendentemente dalla distanza. Dal momento in cui A entra in contatto con l’hawaladar X e gli consegna la somma richiesta, quest’ultimo dà l’ordine di versamento all’hawaladar Y (in genere, via mail, fax o per telefono), il quale si attiva subito per trasferire la relativa somma di denaro a B. Questo permette dunque di trasmettere dei fondi in regioni isolate nel giro di 24 ore. L’altro vantaggio sta nel fatto che utilizzando una rete hawala si evita qualsiasi forma di tassazione, sfuggendo così ai controlli statali. Una rete hawala garantisce un certo anonimato, le transazioni sfuggono alle regolamentazioni e la loro tracciabilità risulta inesistente.
L’interesse verso il crimine organizzato e il terrorismo può ovviamente produrre hawaladar specializzati in compensazioni di denaro contro armi, operazioni che ottimizzano il matrimonio fra interessi fondamentalisti e interessi strettamente criminali (Muller, 2012). Un caso su tutti resta quello di Al Takwa risalente al 2001. Accadde che le polizie di Svizzera, Italia e Liechtenstein decisero di svolgere indagini su di una struttura societaria del Cantone Ticino nata come al-Taqwa e ribattezzata Nada Management Organization, i cui dirigenti Youssef Nada e Ali Ghaleb Himmat risiedevano a Campione d’Italia. Il governo americano aveva indicato questa specifica compagnia come una probabile fonte di finanziamenti a favore di Osama Bin Laden. La procura della Confederazione Elvetica dimostrò attraverso prove tangibili che Youssef Nada ed Ali Ghaleb Himmat si erano recati in Afghanistan tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta per incontrare il signore della guerra Gulbuddin Hekmatyar. Inoltre, nel novembre 2001 l’amministrazione Bush aveva congelato i beni di Al-Barakat, una società rimessa hawala somala utilizzata principalmente da una grande quantità di immigrati somali. Molti dei suoi agenti in diversi paesi vennero inizialmente arrestati, anche se poi liberati.
Di sicuro i flussi finanziari provenienti dagli hawala vengono gestiti da professionisti capaci e preparati oltre che esperti dei mercati, selezionati fra i fedelissimi anche della causa fondamentalista. Non mancano neppure i compiacenti paradisi fiscali alcuni di questi presenti anche in Europa, lieti di accomodare ingenti conti senza porre troppe domande. Con il sistema degli hawaladar, quindi, decine di milioni di persone costituiscono veri e propri spazi offshore, con circuiti economici paralleli che sfuggono ad ogni statistica e controllo. Un’intera economia offshore che muove, sotto banco, miliardi di euro. Infine, la rete dei contatti jihadisti nel tempo è cresciuta moto e si è sviluppata soprattutto in rete. La creazione di una virtual umma, che trascenda i confini territoriali, ha assunto una duplice funzione. Da un lato fomentare il radicalismo e reclutare individui che potrebbero potenzialmente commettere atti terroristici dall’altra diffondere una controcultura jihadista che sfidi l’establishment religioso islamico e le sue autorità.
L’avvento del Web 2.0 ha offerto la possibilità agli estremisti di incrementare la loro già cospicua presenza online verso un radical milieu interattivo e ciò è aumentato esponenzialmente dopo l’11 settembre 2001 in seguito alla frammentazione della struttura qaedista e al rapido sviluppo di Internet.Come evidenziato dal rapporto dell’AlgemeneInlichtingen- en Veiligheidsdienst (2012), il servizio d’intelligence e sicurezza olandese, negli ultimi dieci anni i servizi di sicurezza hanno assistito alla globalizzazione e alla professionalizzazione del jihad virtuale.
Il jihad online è caratterizzato da un processo di radicalizzazione di tipo top-down che inizia nel surface web per poi culminare nel deep net; nella prima fase di tale processo, gli individui intraprendono il loro percorso di radicalizzazione soprattutto sui social media nei quali viene distribuito il materiale propagandistico. Il secondo step consiste in un studio approfondito dell’ideologia jihadista che conduce gli aspiranti estremisti verso il dark web dove entreranno in contatto con dei secondaryforums, ossia delle piattaforme dedicate a tematiche radicali ma queste non avranno ancora una natura visibilmente violenta; l’ultima fase coinvolgerà i core forums, dei ‘breeding grounds’ nei quali avviene l’indottrinamento in favore del jihad e del martirio.
Gli strumenti di prevenzione e contrasto al terrorismo: la dimensione comunitaria e la risposta dell’Italia
La questione acquisisce tutta la sua attualità all’indomani dell’attentato compiuto nel centro di Ankara, dove alle 17.30 ore italiane del 13 marzo scorso un’autobomba è esplosa vicino ad una fermata dell’autobus, causando 37 morti e 125 feriti. Secondo le autorità turche l’attacco sarebbe riconducibile a seguaci del Pkk curdo, considerato organizzazione terroristica. Se i fatti di attualità mostrano le più recenti evoluzioni del terrorismo internazionale e rivelano il legame indissolubile tra la matrice ideologica ed economica del reato, da Bruxelles non sono mancate risposte sotto il profilo della normativa per contenere un fenomeno in inesorabile espansione.
Secondo le disposizioni del Trattato sull’Unione europea (TUE), il contrasto al terrorismo può considerarsi uno dei principali settori d’intervento della politica europea di sicurezza e difesa ed allo stesso tempo dell’azione esterna dell’Unione. L’articolo 24 del titolo V del TUE, relativo alle “Disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione e disposizioni specifiche sulla politica estera e di sicurezza comune”, delimita infatti la competenza dell’Unione a tutti i settori della politica estera e a tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione. Inoltre l’articolo 42 specifica la capacità operativa dell’Unione attraverso il ricorso a missioni esterne per garantire il rafforzamento della sicurezza internazionale, mentre l’articolo 43.1 aggiunge che tali missioni possono contribuire alla lotta contro il terrorismo, anche tramite il sostegno a Paesi terzi per combattere il terrorismo sul loro territorio.
Le modifiche al quadro geo-politico e l’intensificarsi degli episodi di terrorismo internazionale nell’Unione europea hanno tuttavia condotto il legislatore europeo a vararedi recente un nuovo piano d’azione più specializzato per intensificare la prevenzione e il contrasto del reato minando la sua matrice economica allo scopo di rafforzare la lotta contro il finanziamento del terrorismo[1], che rientra tra le principali priorità dell’Agenda di sicurezza comune agli Stati NATO/UE in ambito interno e nelle relazioni con i Paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente. Il nuovo programma nasce con il duplice scopo di prevenire e contrastare l’utilizzo abusivo del sistema finanziario a scopo di finanziamento del terrorismo, considerato il legame tra la matrice ideologica ed economica. A tal fine esso mira a sorvegliare e limitare le operazioni finanziarie nell’Unione europea per bloccare i movimenti dei fondi necessari a finanziare le attività terroristiche, oltre a facilitare le indagini transnazionali sulle reti terroristiche, gli autori degli attentati e i loro complici[2].Il piano d’azione riporta all’attenzione della Comunità internazionale la questione del contrasto al terrorismo e si pone in linea con gli atti normativi più recenti del diritto dell’Unione europea focalizzati sul contrasto al terrorismo di matrice islamica e sull’importanza di arginare il fenomeno dei foreign fighters. In primis, la proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio COM(2015) 625 fin. del 2 dicembre 2015 sulla lotta contro il terrorismo (che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/475/GAI sulla lotta contro il terrorismo) in cui si evidenzia la necessità crescente di affrontare il fenomeno del moltiplicarsi delle persone che si recano all’estero a scopi terroristici, i “combattenti terroristi stranieri”, in considerazione della minaccia che esse rappresentano al loro ritorno.
Entrambe le misure non disciplinano tuttavia la punibilità del reato di homegrown terrorism, nonostante numerosi attentati terroristici commessi nelle principali capitali europee siano invece riconducibili a tale categoria. Tale è la fattispecie di terrorismo che in Europa ha fondamenti legati al contesto nazionale degli Stati membri in quanto gli attentati sono eseguiti da individui che sono nati o cresciuti nel Paese in cui essi si svolgono. Nel contesto dell’estremismo islamico nei Paesi occidentali, queste persone non sono generalmente ufficialmente membri di organizzazioni terroristiche, ma si associano con i gruppi esteri radicali e sono influenzati dalle loro idee. Tale definizione (tra gli altri, dello Human Security Centre, 2016) scaturisce ripercorrendo i principali eventi criminosi a sfondo terroristico che si sono susseguiti a seguito dell’attentato alle Twin Towers e tentando di sistematizzarne gli elementi-chiave (le cause ideologiche, il legame con eventi storici, gli obiettivi politici). Gli attacchi terroristici homegrown costituiscono la maggior parte delle manifestazioni del terrorismo in Occidente e numerosi attentati – in ultimo la deflagrazione all’aeroporto di Zaventem ad opera di tre sospetti cittadini europei affiliati dell’organizzazione terroristica dell’IS, che ha provocato 20 morti e almeno 250 feriti – commessi nelle principali capitali europee sono riconducibili alla suddetta categoria. L’attuale legislazione europea per il contrasto alla dimensione transnazionale delle organizzazioni terroristico-eversive rischia pertanto di apparire incompleta, richiamando la necessità per il legislatore europeo di colmare le lacune insite nella normativa antiterrorismo vigente.
Per ciò che concerne l’Italia, significativi avanzamenti nel perfezionamento di prevenzione e contrasto del terrorismo di ultima generazione si rilevano nel diritto interno attraverso l’emanazione della legge 43/2015[3]: concepita sulla base della risoluzione delle Nazioni Unite 2178/2014[4], la nuova norma ha introdotto nell’ordinamento italiano nuove figure delittuose in materia di terrorismo (quelle dei foreign fighters, coloro che si arruolano per il compimento di atti di violenza, in base alla legge 43/2015 puniti con reclusione da 5 a 8 anni e i cd. “lupi solitari”, le persone che, anche autonomamente, hanno imparato a usare armi da fuoco o preparare esplosivi, con la finalità di compiere atti terroristici, puniti con la reclusione da 5 a 10 anni), disciplinato il terrorismo informatico[5] e previsto l’assegnazione al Procuratore nazionale antimafia dei compiti di coordinamento anche in materia di antiterrorismo, le intercettazioni preventive per le indagini in materia di terrorismo e l’arresto in flagranza per le persone accusate di immigrazione clandestina.
Anche nel caso di studio italiano si possono tuttavia rilevare alcune criticità: diversamente dal progetto normativo, in sede di applicazione potrebbero infatti presto emergere le conseguenze insite nell’emanazione di una legge dagli obiettivi troppo ambiziosi in rapporto agli attuali limiti di un sistema giudiziario e una Procura nazionale sinora specializzati nel contrasto alla mafia più che nel terrorismo di matrice internazionale, con il rischio di produrre risultati scarsamente effettivi.
Conclusioni
L’analisi dell’evoluzione della legislazione europea più recente per il contrasto e la prevenzione del terrorismo rivela in definitiva più ombre che luci sul tentativo degli Stati europei di dotarsi di un efficace apparato normativo e giurisdizionale comune antiterrorismo, con il conseguente rischio di mettere a repentaglio l’effettività delle politiche di sicurezza e difesa nel disegno istituzionale dell’Unione post-Lisbona (sul tema cfr. Cangelosi e Peronaci, 2009). La difficoltà insita nella differenziazione normativa tra Stati complica le indagini antiterrorismo e la cooperazione giudiziaria tra Paesi, mentre le possibilità di condividere una legislazione sovranazionale e delegare l’iniziativa a un organismo internazionale sono condivise solo dai Governi di Belgio, Francia e Spagna, con il risultato di accrescere – anziché contrastare – la minaccia del terrorismo. Seppur prevista già dalla proposta di regolamento del Consiglio COM(2013) 534 fin. del 17 luglio 2013, rimane inoltre incompiuta l’istituzione di una Procura europea competente a contrastare i reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, tanto più utile nella prospettiva di estendere la sua competenza materiale anche al terrorismo internazionale.
Tali questioni recano in sé alcune riflessioni di più ampia portata. Tanto sul deficit di sovranità delle istituzioni dell’Unione, cui la fallace azione dell’intelligence antiterrorismo dei singoli Stati è solo una delle rappresentazioni in termini di sicurezza europea: gli Stati nazionali concordano infatti nella condivisione della moneta, nel mercato unico e nella libera circolazione, continuando però di fatto a gestire autonomamente i delicati dossier concernenti la politica estera e di difesa, l’azione d’intelligence, la sicurezza interna e le politiche migratorie. Quanto sulla necessità di riconsiderare il delicato rapporto tra integrazione/convivenza delle comunità europee ed extra-europee e libertà di culto soprattutto nelle grandi capitali, evitando recrudescenze di fenomeni di estraneità sociale su cui agisce per prima l’azione del reclutamento del terrorismo di matrice islamica (sul tema cfr. De Fazio R. S., 2015).
Ci sono poi aspetti non trascurabili che evidenziano un funzionamento ben strutturato della rete jihadista e che coinvolgono in primo piano l’Italia in merito alla produzione di documenti falsi per i terroristi. A ciò si aggiunge l’aspetto economico-finanziario, un tassello fondamentale per la sopravvivenza di qualsiasi organizzazione jihadista, spesso sfuggente ai controlli. Una “buona intelligence” non può non tenerne conto, anche se prevale a livello europeo il cosiddetto “denail of information”. Spesso le informazioni delle varie intelligence europee non vengono così facilmente condivise o peggio vengono negate. Una cooperazione tra i vari Stati europei in tema di intelligence appare in definitiva ancora troppo lontana.
Bibliografia
- Algemente Inlichtingen – En Veiligheidsdienst (AIVD), Jihadism on the web: A breeding ground forJihad in the modern age, 2012.
- Bauccio L., L’accertamento del fatto reato di terrorismo internazionale. Aspetti teorici e pratici, Giuffrè, Milano, 2005.
- Bonante L., Terrorismo internazionale, Giunti, Firenze, 2002.
- Cangelosi R., Peronaci M., La geografia istituzionale post-Lisbona e la posizione dell’Italia, in “Studi sull’integrazione europea”, 2009.
- Colella R., Terrorismo e Fondamentalismo Islamico, Gump Edizioni, Campobasso, 2013.
- Colella R., L’Italia e il circuito jihadista, in “ITSTIME”, 10 febbraio 2015. Url: www.itstime.it/w/litalia-e-il-circuito-jihadista-by-roberto-colella/
- Colella R., I collegamenti tra camorra e jihad, in “Huffington Post Italia”, 4 aprile 2016.
- Colombo A., Magri P. (a cura di), Le nuove crepe della governance mondiale: Scenari globali e l’Italia, Epoké-ISPI, Novi Ligure, 2016.
- De Fazio R. S., La libertà di culto e il diritto: le moschee in Italia dopo Charlie Hebdo, in “Stradeonline”, 4 febbraio 2015. Url: www.stradeonline.it/diritto-e-liberta/940-la-liberta-di-culto-e-il-diritto-le-moschee-in-italia-dopo-charlie-hebdo
- De Fazio R. S., L’Agenda post Stoccolma 2014-2020: una maggiore garanzia di libertà, sicurezza e giustizia per i cittadini dell’Unione, su www.comune.napoli.it, 2014.
- De Fazio R. S., Tutela dell’immigrazione: maggiore libertà e sicurezza per i cittadini europei nel 2015, in “SudinEuropa”, 2015.
- El-Ashker F., Rodney F., Islamic Economics: a short history, Brill, Leiden-Boston, 2006.
- El-Gamal M., Islamic Finance. Law, Economics and Practice, Cambridge University Press,Cambridge, 2006.
- Gearty C., Il futuro del terrorismo, Garzanti, Milano, 2002.
- Giustiniani E., Elementi di finanza islamica, Marco Valerio Editore, Torino, 2006.
- Guolo R., I fondamentalismi, Laterza, Bari-Roma, 2002.
- Hamaui R., Mauri M., Economia e finanza islamica, Il Mulino, Bologna, 2009.
- Laqueur W., Il nuovo terrorismo, Corbaccio, Milano, 2002.
- Muller S.R., Hawala. An Informal Payment System and Its Use to Finance Terrorism, AV Akademikerverlag GmbH & Company KG, 2012.
- Napoleoni L., Terrorismo SpA, Il Saggiatore, Milano, 2008.
- Napoleoni L., La Morsa, Chiarelettere, Milano, 2009.
- Panzera F., Terrorismo- Diritto internazionale, in “Enciclopedia del Diritto”, Milano, 1992.
- Piccinelli G. M., Il sistema bancario islamico, Istituto per l’Oriente, Roma, 1989.
[1] Il piano è presentato nella Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europeo COM(2016) 50 fin. del 2 febbraio 2016 relativa a un piano d’azione per rafforzare la lotta contro il finanziamento del terrorismo e contenuto in un Allegato alla Comunicazione stessa.
[2]Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio COM(2016) 50 fin., cit., p. 4.
[3] Legge 17 aprile 2015, n. 43 di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonché proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione (GU Serie Generale n. 91 del 20-4-2015).
[4]Consiglio di Sicurezza, ris. n. 2178/2014, Threats to international peace and security caused by terrorist acts, 24 settembre 2014.
[5]Il provvedimento reca misure di prevenzione volte a contrastare in particolare le attività di proselitismo attraverso internet dei foreign fighters. Inoltre, l’uso di strumenti informatici diventa un’aggravante quando viene utilizzato per compiere reati di terrorismo, istigazione e apologia del terrorismo. La polizia postale e delle comunicazioni deve poi costantemente tenere aggiornato un elenco dei siti Internet che vengano utilizzati per attività e condotte di associazione terroristica e condotte con finalità di terrorismo nel quale confluiscono le diverse segnalazioni della polizia giudiziaria. Si stabilisce in particolare che, in presenza di concreti elementi che facciano ritenere che gli specifici delitti con finalità di terrorismo siano compiuti per via telematica, il pubblico ministero ordina con decreto motivato, preferibilmente tramite la polizia postale e delle comunicazioni, agli internet providers di provvedere alla rimozione dei contenuti illeciti accessibili al pubblico.