Quello di Joseph Stiglitz non è proprio un nome sconosciuto. Premio Nobel per l’economia, saggista prolifico i cui libri hanno grande seguito anche da noi in Italia, è un critico degli attuali processi di globalizzazione pur provenendo da quello che può essere definito l’establishment dell’economia e della finanza. In un articolo pubblicato oggi su “Project Syndicate” dal titolo The Innovation Enigma, Stiglitz pone alcune domande molto interessanti sul mito dell’innovazione prodotta dalla Silicon Valley – e in generale del mondo della digital innovation – partendo da un problema: “E’ difficile rilevare i vantaggi di quest’innovazione nelle statistiche del PIL”. Dopotutto, la crescita economica in Occidente è crollata proprio negli anni d’oro dell’innovazione digitale che stiamo vivendo e i benefici economici prodotti restano irrilevabili dal punto di vista del prodotto interno lordo. “Forse il PIL non riesce a catturare davvero i miglioramenti del tenore di vita che l’innovazione dell’era informatica sta generando”, ammette Stiglitz. “O forse questa innovazione è meno significativa di quanto credano i suoi appassionati”.
L’esempio storico portato da Stiglitz è quella della bolla del dot-com, scoppiata agli inizi degli anni 2000 dopo una crescita esponenziale del valore finanziario delle aziende del Web negli anni Novanta. L’esplosione di quella bolla, anticamera della più vasta e attuale crisi economica iniziata nel 2008, “è stata caratterizzata dall’innovazione: siti web attraverso i quali si poteva ordinare cibo per cani e bevande analcoliche online… Ma non è una cosa facile valutare come il risparmio di tempo derivante dallo shopping online, o il risparmio economico che potrebbe derivare da una maggiore concorrenza (grazie a una maggiore facilità di confronto dei prezzi online) influenzi i nostri standard di vita”. La rivoluzione informatica degli anni Novanta ha avuto almeno il vantaggio di diffondere in tutto il mondo occidentale la fibra ottica e perfezionare i motori di ricerca, riconosce Stiglitz. Ma che dire degli anni in cui viviamo?
“Ricordiamo come qualche anno fa, appena prima del collasso di Lehman Brothers, il settore finanziario si vantava della sua innovatività. Dato che le istituzioni finanziarie attiravano i migliori talenti da tutto il mondo, non ci si poteva aspettare niente di meno. Ma, a un più attento esame, divenne chiaro che la maggior parte di quest’innovazione concerneva l’ideazione dei modi migliori di truffare gli altri, manipolare i mercati senza essere scoperti (almeno per un po’) e sfruttare il potere di mercato”, scrive Stiglitz. “In questo periodo, quando le risorse affluivano a questo settore ‘innovativo’, la crescita del PIL era nettamente inferiore rispetto a prima. Anche nei tempi migliori, non ha portato a un miglioramento del tenore di vita (eccetto per i banchieri), e alla fine ha portato alla crisi dalla quale solo ora ci stiamo riprendendo. Il contributo sociale netto di tutta questa innovazione è stato negativo”.
Parole forti, ma condivisibili. Per anni l’innovazione digitale ha riguardato solo modi migliori per fare soldi, spesso in maniera illecita. I mutui subprime e i derivati finanziari sono strumenti estremamente complessi che menti estremamente intelligenti hanno messo a disposizione del mercato finanziario con esiti disastrosi, dimostrando quanti danni possano produrre l’innovazione e l’intelligenza se applicati male. Ma non è così ancora oggi? “Un sacco di sforzo intellettuale è stato dedicato all’escogitare modi migliori per massimizzare la pubblicità e il marketing – rivolti alla clientela, soprattutto i ricchi, che potrebbero effettivamente acquistare il prodotto. Ma il nostro tenore di vita sarebbe potuto aumentare molto di più se tutto questo talento innovativo fosse stato destinato maggiormente alla ricerca fondamentale – o anche alla ricerca applicata in grado di condurre a nuovi prodotti. Certo, essere più connessi tra noi, attraverso Facebook o Twitter, ha un valore. Ma come possiamo mettere a confronto queste innovazioni con quelle come il laser, il transistor, la macchina di Turing e la mappatura del genoma umano, ciascuna delle quali ha portato a una marea di prodotti che hanno cambiato il mondo?”.
Stiglitz, in sintesi, sostiene che l’impatto economico dell’innovazione digitale sia minimo, se non irrilevante nell’economia mondiale. Allora perché ci riempiamo tanto la bocca con la rivoluzione delle start-up, che nella maggior parte dei casi non fanno altro che creare nuovi siti web, e investiamo in questi sedicenti processi d’innovazione così tanti soldi pubblici e privati? “Nella nostra economia del ‘chi vince prende tutto’, un innovatore che sviluppa un sito web di cibo per cani migliore per vendite e spedizioni può attirare chiunque nel mondo utilizzi Internet per ordinare cibo per cani, facendo enormi profitti nel processo. Ma senza il servizio di spedizione, buona parte di questi profitti sarebbero semplicemente andati ad altri. Il contributo netto del sito web alla crescita economica può quindi essere relativamente piccolo”, conclude Stiglitz.
Un punto di vista destinato a far discutere ma non privo di verità. Investire nell’innovazione digitale e nel web non può essere la via d’uscita dalla crisi, come oggi sostengono tanti guru in Italia e non solo. Il vero motore della crescita e dell’innovazione risiede nella ricerca scientifica e tecnologica, in quella ricerca di base di cui parla Stiglitz. Un transistor è in grado di cambiare il mondo ben più di Facebook. Al modello della Silicon Valley dovremmo affiancare – non opporre, perché anche l’innovazione digitale serve – il modello del CERN, un grande centro di ricerca che nei suoi 60 anni di attività ha accelerato lo sviluppo tecnologico della nostra civiltà, implementando i benefici della ricerca di base nella vita di tutti i giorni, dal World Wide Web alla radioterapia. E dove, anche se pochi lo sanno, gli ingegneri superano di dieci volte il numero dei fisici, perché la ricerca scientifica non riguarda solo la caccia al bosone di Higgs, ma il reale e concreto miglioramento della nostra vita.