Pare che oggi in Italia tutti sappiano leggere, scrivere e far di conto, almeno quel minimo necessario per sfuggire alla tradizionale definizione di “analfabeta”. La fiction RAI sul coraggioso esperimento – riuscito – di Alberto Manzi con il programma Non è mai troppo tardi, trasmesso nell’Italia del miracolo economico, celebra una grande vittoria del nostro paese sull’ignoranza e l’analfabetismo che a lungo l’hanno caratterizzata. Eppure, le cose non stanno proprio così. Certo, si può sapere leggere, scrivere e far di conto abbastanza bene, e persino avere un titolo di studio superiore, con cui oggi si conclude la scuola dell’obbligo. Ma questo non ci rende necessariamente in grado di comprendere il mondo in cui viviamo. I “nuovi analfabeti” dei paesi industrializzati, tra cui in primo luogo l’Italia, sono una categoria crescente, diversificata e preoccupante. Costituiscono, senza alcun dubbio, la vera grande sfida per il futuro di questo paese.
I nuovi analfabeti si dividono in tre categorie: quelli “di ritorno”, che dopo aver terminato il loro percorso di studi tendono a dimenticare con gli anni le regole grammaticali, la sintassi, l’ortografia, l’aritmetica e la capacità di leggere fluentemente un testo; gli analfabeti digitali, che non sono in grado di navigare su Internet, inviare e-mail e in alcuni casi utilizzare un personal computer; e gli analfabeti funzionali, oggetto di recenti indagini dell’OCSE: sono coloro che si rivelano incapaci di interpretare la realtà in cui vivono, che sanno leggere ma non riescono a comprendere un testo anche semplice e che non comprendono nulla al di fuori della realtà che sperimentano direttamente nella loro vita quotidiana.
Ciascuna di queste categorie rappresenta un’autentica emergenza. L’analfabetismo di ritorno può essere combattuto con politiche di long-life learning, la formazione continua di cui si parla tanto ma che raramente produce strategie efficaci. Analogamente, enormi sprechi di denaro pubblico collegati con corsi di formazione per l’alfabetizzazione digitale hanno prodotto, come spesso accade in Italia, risultati pressoché nulli. Piuttosto che lavorare sulla continuità, costruendo percorsi di lunga durata per accompagnare la formazione degli adulti nel corso di tutto l’arco della loro vita, si è insistito su interventi sporadici ed estemporanei. Lo dimostra soprattutto il fatto che, negli ambienti di lavoro, poco o nulla si investe nell’ambito della riqualificazione delle risorse. Si continua a credere che, una volta formato, il lavoratore debba utilizzare quelle competenze per produrre, senza alcuna considerazione per la necessità di aggiornare il lavoratore sui nuovi, mutati scenari in cui si trova ad operare. E in questo modo milioni di maestranze, perso il loro posto di lavoro a causa della crisi economica, non hanno alcuno strumento che può consentire loro di riformarsi e re-inventarsi.
Questo ci porta al più grave dei problemi su cui oggi si concentra l’attenzione dei media: l’analfabetismo funzionale. Un articolo su Wired di Vanessa Niri pone oggi l’accento su un argomento di cui si è spesso discusso negli ultimi mesi, sulla base degli allarmanti dati OCSE in proposito. L’analfabeta funzionale è quello che non riesce a interpretare un foglietto illustrativo di un medicinale, un contratto di polizza assicurativa, un bando di concorso, un modulo per il rinnovo della carta d’identità. È quello che non comprende buona parte delle notizie di cui sente al telegiornale (o che legge su Internet), interpretandole spesso in modo superficiale e approssimativo. È quello che non guarda al lungo periodo, che non è in grado di programmare, ipotizzare, proiettare sul futuro. Il numero di analfabeti funzionali è destinato ad aumentare nei prossimi anni. Come già ribadivamo nel Manifesto dell’Italian Institute for the Future, i NEET (i giovani che non studiano, non si formano e non lavorano) sono l’avanguardia di questo fenomeno: non sono persone anziane che non comprendono il mondo in cui vivono, ma giovani che sanno usare le tecnologie più recenti, nativi digitali a loro agio su Facebook. Eppure, ugualmente incapaci di essere “connessi” con la realtà.
Il grande dramma dell’analfabetismo funzionale è il prodotto di una società sempre più complessa, che non fornisce e non vuole fornire a nessuno il libretto d’istruzioni. Di fronte alla complessità del mondo – che si esplica nella burocrazia dilagante e bizantina, nella parcellizzazione estrema del sapere, nell’accelerazione vertiginosa del cambiamento – l’uomo medio si ritrova in balia delle onde senza una bussola. Terminato il suo percorso di studi, non riceve ulteriori input formativi e gli viene chiesto di aggiornarsi autonomamente, o perire. Il modello competitivo fino allo sfinimento che l’Occidente ha adottato a partire dagli anni ’80 dello scorso secolo non viene incontro a questi naufraghi. Non getta loro i salvagenti, li guarda con distacco e indifferenza. Formazione continua, riqualificazione, riduzione della complessità, programmazione, pianificazione, sono dunque gli strumenti che possiamo impiegare per vincere la grande sfida dei nuovi analfabeti. Per farlo, tuttavia, dovremo iniziare a cambiare il nostro modello di società.