In un pezzo pubblicato dal “Guardian” intitolato The meaning of life in a world without work, “Il senso della vita in un mondo senza lavoro”, l’ormai celeberrimo Yuval Noah Harari, l’autore dei bestseller Sapiens. Da animali a dèi e Homo Deus, si chiede in che modo l’essere umano potrà reinvantare se stesso nell’epoca post-lavoro che sembra profilarsi all’orizzonte. Vincenzo Moretti, sociologo dell’organizzazione e sindacalista di lungo corso, uno che di lavoro se ne intende – è il patron della “Notte del Lavoro Narrato” e l’autore del Manifesto del lavoro ben fatto – ha scritto al riguardo un post sul suo blog ospitato su Nova-Il Sole 24 ore dal titolo Una vita senza lavoro è una vita senza significato, che prende le distanze dalla visione ambiguamente utopica di Harari. Moretti, che al Congresso Nazionale di Futurologia 2014 organizzato dal nostro Istituto presentò la sua tesi del “lavoro che cambia ma non finisce”, è tra coloro che non condividono l’idea di una società post-lavoro prossima ventura. Su questa dicotomia oggi si gioca molto del dibattito sul futuro dell’occupazione mondiale.
Scrive Moretti:
Sì, perché come sai l’idea di un mondo senza lavoro non mi piace, e non per gli aspetti materiali della questione, della serie senza soldi come si fa a vivere, perché anzi su questo sono d’accordo con Harari, si può vivere anche senza lavoro, se ci pensi già i cittadini greci compresi i filosofi che tanto amiamo di lavoro in senso stretto ne facevano poco, a quello ci pensavano gli schiavi e per noi potrebbero farlo le macchine. A non piacermi, o se preferisci a non convincermi, è proprio la tesi di fondo di Harari, perché sono convinto che il lavoro abbia un valore non solo in sé ma anche per sé, che insomma sia qualcosa di cui noi sapiens non possiamo fare a meno se vogliamo vivere vite più degne di essere vissute.
Nel suo libro Superintelligenza Nick Bostrom – l’influente filosofo di Oxford e direttore del Future of Humanity Institute che con quel libro lanciò per primo l’allarme sui rischi di sviluppare un’intelligenza artificiale superiore alle capacità cognitive umane – si dice convinto che la nuova età delle macchine sia destinata a sostituire il lavoro umano, perché nel momento in cui, a partire dall’inizio di questo secolo, gli algoritmi hanno iniziato ad automatizzare anche molte mansioni del terziario avanzato, tutto lasciare credere che, in prospettiva, intelligenze artificiali generali saranno in grado in un prossimo futuro di fare tutto quello che l’uomo fa oggi, meglio di oggi – e in generale meglio di qualsiasi essere umano. L’idea che l’unico significato della vita di un essere umano stia nel suo lavoro diventa a questo punto molto pericolosa.
C’è un passaggio del libro di Bostrom particolarmente inquietante: quello in cui ricorda come, nel momento in cui il motore a combustione ha iniziato a sostituire il cavallo come principale mezzo di locomozione, il numero di cavalli nei soli Stati Uniti sia sceso da 26 milioni nel 1915 a 2 milioni all’inizio degli anni Cinquanta. Una sorta di “estinzione di massa” dei cavalli. Potrebbe accadere qualcosa del genere anche per noi esseri umani? Noi sappiamo che, con l’inizio della seconda rivoluzione industriale, la popolazione umana – rimasta per millenni a livelli più o meno stabili salvo periodici incrementi e decrementi (questi ultimi causati da epidemie come la peste del Trecento, o collassi come quello dell’Impero romano) – ha iniziato a crescere in maniera esponenziale: ha raggiunto il miliardo di abitanti agli inizi del XIX secolo e i due miliardi negli anni Venti del secolo scorso, i tre miliardi negli anni Sessanta, e da lì un miliardo di persone in più per ogni decennio. I due fenomeni sono naturalmente collegati. Il miglioramento delle condizioni di salute grazie alla rivoluzione scientifica che ha preceduto la rivoluzione industriale ha ridotto la mortalità infantile e aumentato la speranza di vita. L’aumento della produttività industriale e agricola ha permesso alla ricchezza mondiale di aumentare esponenzialmente, garantendo più benessere nei paesi occidentali. Ma il ruolo determinante che il lavoro ha assunto con la rivoluzione industriale ha trasformato anche l’essere umano in pura forza-lavoro. Affinché la produzione industriale e agricola e l’estrazione mineraria potesse mantenere i suoi alti livelli di crescita, occorreva forza-lavoro. Crescita della popolazione e crescita della produzione mondiale sono quindi due fenomeni che vanno di pari passo.
Tuttavia, nel momento in cui l’automazione, inizialmente integrativa della forza-lavoro umana, ha iniziato a diventare sostitutiva, nei paesi a industrializzazione avanzata le cose hanno iniziato a prendere un’altra piega. I tassi di natalità sono cominciati a declinare fino a scendere ben al di sotto dei livelli di ricambio generazionale. Se si ignora l’apporto delle migrazioni, le popolazioni occidentali sarebbero già da qualche decennio in fase di calo; in alcuni paesi, come l’Italia, questo calo della popolazione è iniziato negli ultimissimi anni anche tenendo conto dell’apporto dei migranti. È possibile che ci sia un legame con la riduzione del lavoro? Fare più figli oggi vuol dire rischiare di mettere al mondo persone che fino a un’età ben più avanzata rispetto ai decenni precedenti sono dipendenti dal reddito famigliare (ormai quest’età supera, in paesi come il nostro, i trent’anni; negli anni del boom economico l’emancipazione economica avveniva circa dieci anni prima). Il rischio che restino tagliati fuori dal mercato del lavoro o che lavorino con retribuzioni al di sotto del livello di sussistenza, tale da necessitare dei redditi famigliari per diventare autonomi, è molto forte. È la classe disagiata di cui ci parla Raffaele Alberto Ventura nel suo controverso saggio. In quest’ottica, potremmo leggere il calo della popolazione nei paesi occidentali come l’effetto della mancanza di lavoro? Per dirla più chiaramente: stiamo assistendo all’inizio di quel fenomeno che ci vedrà, come i cavalli, ridurci ai minimi termini, perché tanto non serviamo più nella logica capitalista di aumento progressivo della ricchezza mondiale, demandata alle macchine?
Può essere, se restiamo ancorati all’idea della persona umana come forza-lavoro. È stato così per tutta la storia umana, ma in modi molti diversi. Fino alla Rivoluzione francese, in Europa il lavoro era considerato squalificante; lo schiavismo nell’antichità e il servaggio della gleba in età feudale ancorarono la relazione persona/forza-lavoro ai soli ceti-paria. La Chiesa stessa teneva in conto solo il lavoro intellettuale, in vista della realizzazione del proprio destino nell’altro mondo. L’avvento della borghesia mercantilistica e industriale ha cambiato tutto questo, rendendo il lavoro l’elemento centrale dell’emancipazione umana. I movimenti operai nel XIX e XX secolo hanno fatto il resto. Il lavoro, da attività squalificante, è diventato centrale: non solo nei paesi socialisti, ma anche in quelli dell’orbita atlantica, come l’Italia del dopoguerra, “fondata sul lavoro”. Il capitalismo si basa sul lavoro, lo impariamo a scuola; il concetto di emancipazione attraverso il lavoro è – se vogliamo limitarci a letture un po’ vetuste di tipo marxiano – la sovrastruttura di questo meccanismo. Cosa accadrà allora se, al termine di questa grande transizione in cui le macchine sostituiscono la forza-lavoro umana, iniziata nella metà del XVIII secolo e che potrebbe completarsi entro la fine del XXI, la produttività non sarà più legata alla forza-lavoro umana ma alle macchine? Semplice: la nostra vita cesserà di avere significato e diventeremo inutili, sostituibili.
Nello scenario più inquietante tratteggiato da Bostrom, ci ridurremo a cervelli in una vasca impegnati in attività ricreative in mondi digitali, uno scenario paventato anche da Harari. È quello che immagina anche Michel Houellebecq nel suo libro La possibilità di un’isola, dove la specie postumana trascorre il suo tempo trastullandosi davanti agli schermi dei computer, perdendo la voglia di vivere; o, ancor prima, da Isaac Asimov, che nel suo Il sole nudo immagina gli abitanti di Solaria relegati in enormi tenute gestite dai robot, privi di ogni contatto con altri esseri umani se non mediati dagli ologrammi. Saranno i robot, gli algoritmi, le emulazioni digitali a compiere il lavoro per noi; e se fino alla Rivoluzione francese l’aristocrazia poteva ancora godere la douceur de vivre di cui parlava Talleyrand ricordando i tempi belli della sua giovinezza, noi non potremmo mai tornare a quei livelli di ozio: intanto perché l’aristocrazia francese costituiva l’1-2% della popolazione dell’epoca, mentre una situazione simile non potrebbe essere estesa all’intera popolazione umana; e poi perché almeno due secoli di ideologia pro-lavoro ci hanno giustamente abituati a disprezzare l’ozio dell’aristocrazia francese.
Eppure, se vogliamo evitare il rischio esistenziale di un’estinzione della civiltà umana in una società post-lavoro, o l’avveramento di uno scenario distopico come quello di Bostrom, di Harari, di Houellebecq o di Asimov, dobbiamo iniziare a immaginare che la realizzazione della persona umana possa prescindere dal suo ruolo di unità produttiva o, per usare un linguaggio più pudico, di risorsa umana. Questo non vuol dire alimentare pericolosi discorsi a favore di ulteriori deregolamentazioni del mercato del lavoro, il cui unico effetto è stato proprio quello di erodere ulteriormente i redditi a un livello inferiore a quello di sussistenza, favorendo la spirale della bassa natalità. Significa iniziare a considerare lavoro anche quello che oggi non consideriamo come tale. I corsi di formazione a cui spesso i lavoratori disoccupati o cassaintegrati partecipano in una logica di ricollocamento, per fare un esempio, sono spesso disertati o inefficaci, perché il lavoratore, anche se retribuito per seguirli, non li considera alla stregua della tradizionale attività produttiva salariata. Non si tratta quindi semplicemente di aumentare gli ammortizzatori sociali per minimizzare il rischio della disoccupazione, ma di avviare un lungo processo di ridefinizione del concetto di lavoro. In prospettiva, anche la formazione universitaria e post-universitaria andrà retribuita. Lo dovrà essere anche l’attività di volontariato a favore di categorie svantaggiate, come i rifugiati, i disabili e le persone anziane non autosufficienti (che, nei prossimi decenni, aumenteranno sempre di più). Lo dovrà essere la cura dei propri famigliari. Lo dovrà essere il lavoro intellettuale. L’operosità dovrà sostituire il tradizionale concetto di “lavoro”. Una vita operosa e appagante per tramite dell’operosità sostituirà il lavoro salariato tradizionale.
Si dirà che, per realizzare tutto ciò, non ci sono risorse. È chiaro infatti che questo ragionamento si fonda sull’idea di un reddito universale di base, che non impedisce redditi integrativi da altre attività, ma assicura a tutti un reddito garantito ben superiore a quello di sussistenza. Oggi questo discorso ha senso a livello teorico, non sul piano pratico. La sua realizzazione è del tutto prematura, non solo per l’assenza di risorse, ma proprio perché il cambio di paradigma in vista della società post-lavoro richiede tempo, e sappiamo che la mentalità è l’elemento più difficile da cambiare, la “gabbia della lunga durata”, come diceva Fernand Braudel. D’altronde, la transizione durerà ancora diversi decenni. Essa si basa sull’idea che l’automazione e l’avvento di intelligenze artificiali con capacità cognitive superiori a quelle umane sarà in grado di aumentare la ricchezza mondiale a tassi più rapidi di quanto sia mai avvenuto nella storia; i redditi da lavoro si ridurranno a zero e aumenteranno esponenzialmente i redditi da capitale. Ma per evitare che questo scenario favorisca solo chi dispone di capitali, la politica avrà l’obiettivo della redistribuzione del reddito.
Oggi la politica subisce passivamente l’accelerazione tecnologica. I veri protagonisti di questa epoca sono, come avevano immaginato gli scrittori di fantascienza fin dagli anni Ottanta, le grandi corporation diventate potenti quanto interi Stati-nazione. Sono loro a decidere i cambiamenti del mercato del lavoro e della società, e tra gli effetti che producono c’è la polarizzazione dei redditi, una diseguaglianza sempre più pericolosa. Regolamentare la loro attività sarà fondamentale, ma non dovrà essere una regolamentazione punitiva, o rischiamo di danneggiare migliaia di lavoratori a cui la platform economy ha dato un reddito che il lavoro tradizionale non era in grado di fornire. La politica dovrà elaborare soluzioni nuove per la redistribuzione della ricchezza prodotta in modi nuovi, per favorire la transizione verso una società post-lavoro. Una società in cui la persona umana torni a dare senso alla propria vita più di quanto poteva essere quando, dopo qualche anno di vita e un’educazione sommaria, trascorreva decenni nel buio di una miniera o alla catena di montaggio, dava al mondo qualche figlio e infine spirava dopo una manciata di anni di vecchiaia in cattiva salute. L’alternativa sarà quella che già vediamo nelle società più avanzate: gli hikikomori, giovani e meno giovani chiusi nelle loro stanze, davanti agli schermi di un computer, di una consolle, di uno smartphone, immersi in un’esistenza meramente virtuale, dove tutti i prodotti di cui hanno bisogno vengono consegnati a domicilio, privi di qualsiasi progetto di vita, di relazioni sociali e di affetti. Avanzi di un mondo che non ha più bisogno di loro.
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