La clonazione dei macachi Zhong Zhong e Hua Hua da parte di un’équipe cinese, annunciata all’inizio di quest’anno, arriva al termine di un lungo e faticoso percorso, costellato da difficoltà e insuccessi. Occupandosi sporadicamente della questione, i quotidiani tendono a presentare al pubblico l’immagine di una scienza trionfante e a tratti inquietante, obliterando il fatto che alla base di ogni scoperta scientifica vi è lo sforzo collettivo di migliaia menti, in diverse aree del mondo, che ereditano e sviluppano idee sedimentatesi in tempi talora lunghissimi, e procedono per tentativi ed errori. In sintesi, la clonazione dei primati non è l’eccentrica iniziativa di un team cinese nell’anno 2018, ma l’esito finale di un percorso della civiltà umana iniziato nell’era neolitica. Il presente contributo rientra tematicamente nell’ambito della storia della scienza, sicché centreremo l’attenzione sugli aspetti precipuamente tecnici, lasciando a margine del discorso le questioni etiche, politiche e giuridiche che le scoperte dei biologi hanno sollevato.
Il concetto di clonazione e le origini di questa pratica
Clonare un organismo vivente significa farne una copia identica. È possibile clonare diversi tipi di organismo: batteri, virus, piante e animali. Ora sappiamo che anche organismi complessi come i primati possono essere clonati.
Il termine clonazione è utilizzato anche nell’ambito di altre discipline tecniche e scientifiche. In fisica, si ottiene una clonazione quando si è in grado di riprodurre lo stato quantico di una particella elementare. Nel campo dell’informatica si parla di clonazione quando vengono prodotte copie identiche di prodotti software o hardware (dispositivi elettronici, programmi per computer, dischi, ecc.) partendo da un prototipo. Si parla anche di clonazione di telefoni, codici di accesso e carte di credito. Il termine ha quindi acquisito una connotazione negativa, legandosi al concetto di riproduzione abusiva e illegale. La clonazione non è un processo esclusivamente artificiale, ovvero ottenibile soltanto in laboratorio. Diversi organismi si riproducono naturalmente per partenogenesi, scissione, gemmazione, frammentazione, dando origine a individui identici all’organismo genitore. È il caso degli organismi unicellulari, di alcuni invertebrati come i Platelminti e gli Anellidi, e delle piante. In tutti questi casi si è in presenza di riproduzione asessuata.
È scorretto anche pensare che la clonazione artificiale sia un’innovazione recente. Da poco si è scoperto il modo per clonare gli animali, ma da molto tempo l’uomo utilizza tecniche in agricoltura per clonare piante. Tanto è vero che il termine clonazione deriva dal termine greco klōn (ramo, ramoscello). Chi avesse dubbi in proposito non deve far altro che consultare gli autori antichi, a partire da Esiodo, Senofonte, Teofrasto, Magone, per arrivare a Plinio, Varrone e Catone. Particolarmente istruttiva è L’arte dell’agricoltura di Lucio Giunio Moderato Columella, militare romano e scrittore contemporaneo di Gesù Cristo. Columella fu, infatti, «uno sperimentatore razionale di innesti», nonché «un uomo che consultava sempre e dapprima i libri, ascoltava gli altri, aveva un entusiasmo illuministico per la scienza», anche se in ultima istanza «concludeva che quel conta sono la pratica e l’esperienza» (Carena, 1977).
L’innesto è una delle tecniche più utilizzate per la riproduzione delle piante, giacché, come tutte le propagazioni agamiche, garantisce una uniformità di specie che non è realizzabile mediante la riproduzione naturale. Grazie all’innesto, l’uomo ottiene artificialmente l’uniformità di coltura, la resistenza alle malattie e l’adattamento alle condizioni climatiche.Se i moderni manuali di giardinaggio tendono a presentare le tecniche senza fare riferimenti alla loro genealogia (cfr. Del Fabro, 2001), i manuali dei secoli passati tendono invece a mantenere viva la memoria storica. Un buon esempio è il Trattato degli innesti di Giammaria Venturi, dato alle stampe nel 1816. Qui, si ricorda che «Plinio nella sua Storia Naturale lib. 17 cap. 27, riporta, che il fico è suscettibile di tutte le maniere di propagazione, praeter quam talea, fuorché per piantone o per palo o ramo d’albero tagliato nelle sue estremità, e piantato». E si fa pure riferimento all’Opus ruralium commodorum dell’agronomo medievale Pietro de’ Crescenzi, notando che «il fico si innesta sul fico: di questo innesto parla Crescenzio al lib. 5, cap. 10» (Venturi, 1816). La talea è, in effetti, un metodo di propagazione utilizzato da millenni. Da una singola pianta, anche piccola, si possono ottenere innumerevoli talee e, in genere, le piante ottenute con questa tecnica sono identiche alla pianta madre. I contadini praticano le talee erbacee in primavera, prelevando una porzione apicale di ramo, oppure un piccolo rametto, cercando di conservare un “piede”, ossia una parte della scorza del ramo a cui la talea era attaccata. In estate, praticano invece le talee dette semilegnose, prelevando porzioni di ramo giovani, ma già parzialmente lignificate, tagliando appena al di sotto di un nodo. Venturi fa di nuovo riferimento a Plinio, citando per esteso l’autore romano, quando deve spiegare il metodo di propagazione detto margotta: «Se questi rami superflui sono in una pianta di mediocre grossezza in vicinanza a terra, come quelli nati da una seconda marza, che dopo qualche tempo bisognerebbe levare; invece di tagliare quelli superflui all’innesto, io lodo il farne delle margotte: Plinio lib. 17, cap. 21, si spiega: = Cato propagari praeter vitem tradit fìcum, oleam, punicam, malorumque genera omnia, laurum, prunos, myrtos, nuces, avellanas, praenestinas et platinum» (Ibid.).
È importante evidenziare questi aspetti, perché i commentatori poco informati tendono a contrapporre la naturalità della civiltà contadina all’artificiosità della società industriale, scordando che è almeno dal neolitico che l’uomo interagisce profondamente e coscientemente con la natura delle piante e degli animali, attraverso le tecniche di coltivazione e di allevamento (Mazoyer e Roudart, 2006). Tali tecniche includono da tempo immemorabile tanto la selezione genetica, quanto la clonazione.
Primi esperimenti su animali
La clonazione di animali in laboratorio rappresenta un’acquisizione recente nei metodi e nei risultati. La tecnica consiste nel trapiantare il nucleo proveniente dalla cellula di un donatore in una cellula uovo ospite. Se questa viene fatta sviluppare fino allo stadio adulto, si ottiene la generazione di un soggetto avente corredo genetico identico a quello del donatore. Al perfezionamento di questa tecnica si arriva dopo molti anni di studi e tentativi. Il primo contributo risale al 1938, quando Hans Spemann concepisce un esperimento teoricamente corretto, ma non realizzabile ai suoi tempi per mancanza di mezzi tecnici adeguati alla manipolazione e dissezione delle cellule somatiche e germinali. L’idea è proprio quella di prelevare il nucleo da una cellula di un embrione in avanzata fase di sviluppo e trasferirlo nel citoplasma di una cellula uovo enucleata (Spemann, 1938).
L’esperimento viene eseguito alcuni anni più tardi da Robert Briggs e Thomas J. King (1952), i quali prelevano il nucleo da una cellula embrionale di rana leopardo (Rana pipiens) allo stadio di blastula e lo trasferiscono in una cellula uovo enucleata, ossia privata del nucleo. Il 60% di tutti i nuclei trasferiti portano a girini, ma non riesce l’impresa di ottenere l’individuo adulto. In ogni caso, si ha la conferma che i nuclei di blastula sono “totipotenti”, nel senso che ognuno può potenzialmente dare origine a un nuovo individuo. I due ricercatori scoprono anche che la probabilità di successo diminuisce se si prelevano nuclei a un livello di differenziazione maggiore. Questa limitazione viene tuttavia superata in seguito, attraverso una sincronizzazione tra cellule somatiche donatrici e cellula uovo, ottenuta attraverso un’oculata scelta delle cellule e un’attivazione del processo attraverso impulsi elettrici. L’esperimento parzialmente riuscito di Briggs e King ancora non chiarisce, però, se il nucleo contiene l’intero corredo genetico, anche quando differenziato. Inoltre, non dà indicazioni chiare sulla possibilità di innescare lo sviluppo di un nuovo individuo, attraverso la riprogrammazione del nucleo. Infine, non chiarisce in modo inequivoco se le interazioni tra nucleo trasferito e oocita permettono di ridifferenziare il nucleo e di dirigerne lo sviluppo.
Il passo successivo, volto a dare risposta a queste domande, si deve al biologo britannico John Gurdon. Nel 1962, Gurdon ritenta l’esperimento con un anfibio più primitivo della rana leopardo, lo Xeanopuslaevis, che ha una capacità di rigenerazione maggiore. Esso mostra uno sviluppo iniziale tre volte più rapido di quello della Rana pipiens e, inoltre, può rigenerare arti perduti. I nuclei di cellule differenziate vengono prelevati dall’intestino di girino e trasferiti in una cellula uovo enucleata. Inizialmente, soltanto dieci dei 726 nuclei trasferiti si sviluppano fino allo stadio di girino. Poi, il biologo modifica la tecnica, utilizzando il cosiddetto “trapianto in serie”. In altre parole, pone prima un nucleo intestinale in un uovo e lo lascia sviluppare fino allo stadio di blastula, dopodiché trasferisce i nuclei delle cellule della blastula in altrettante uova. Il risultato finale è un maggiore numero di cloni e sette girini clonati riescono ad attuare la metamorfosi in rane adulte fertili (Gurdon, 1962).
Dopo vent’anni di esperimenti sugli anfibi, si ottiene un parziale successo anche in un esperimento su mammiferi. Nel 1981, Peter Hoope e Karl Illmensee riescono infatti a trasferire nuclei di cellule embrionali di topo allo stadio di blastocisti in oociti enucleati e a ottenere dei topolini. Il successo è parziale, perché l’esperimento non riesce più né a loro né ad altri biologi che adottano la tecnica da loro descritta. Il fallimento provoca il momentaneo blocco dei finanziamenti e lo scioglimento del gruppo di ricerca.
Tuttavia, la ricerca nel settore non può fermarsi, perché promette vantaggi economici notevoli. La clonazione è una tecnica estremamente importante nel campo dell’agricoltura e lo può diventare anche nel campo dell’allevamento, favorendo la riproduzione in serie degli esemplari “migliori” (nel senso di più funzionali alle esigenze umane). Le ricerche in campo zootecnico infatti riprendono e, dal 1986 in avanti, vengono effettuati moltissimi esperimenti di trasferimenti nucleari da embrioni di bovini, suini e ovini. Vengono ottenuti molti cloni allo stato embrionale, ma non individui adulti. Fino alla nascita di Dolly.
La nascita della pecora Dolly
Per vedere il primo mammifero adulto clonato si deve attendere il 1996, quando nasce Dolly in un laboratorio di Edimburgo (Campbell et al., 1996). L’annuncio della nascita di una pecora clonata, partendo da cellule somatiche adulte e quindi completamente differenziate, sorprende il mondo. I precedenti insuccessi facevano infatti pensare che molti anni di ricerche sarebbero stati ancora necessari per comprendere bene i meccanismi della riproduzione dei mammiferi e utilizzare a livello bio-ingegneristico queste conoscenze.
Il “padre” di Dolly è per tutti Ian Wilmut, anche se successivamente ne disconoscerà la paternità. Durante un processo in tribunale, ricordando le vicende che lo avevano visto protagonista un decennio prima, Wilmut ebbe ad affermare «di non essere stato lui lo scienziato veramente impegnato nell’operazione di clonazione di Dolly» (Caprara, 2006). Non si trattava di una causa intentata per stabilire la priorità scientifica. Il noto biologo era stato infatti trascinato in tribunale dal collega Prim Singh, con l’accusa di maltrattamenti e angherie. Nel corso della deposizione era però emersa questa verità, fino ad allora tenuta nascosta. «L’avvocato dell’accusa cogliendo la stranezza dell’affermazione gli chiedeva chiarimenti: “Lei non creò Dolly?”, “Sì, è vero, non sono stato io”, confermava Wilmut, precisando che il 66 per cento dell’intero lavoro era condotto da un suo collaboratore, il professor Keith Campbell, già noto per la sua bravura, ma allora inserito soltanto come uno dei cinque nomi autori dell’esperimento. “Io mi sono limitato a istruire il team e a coordinarlo”, precisava ancora Wilmut» (Ibid.).
Nel 1996, Wilmut si era fatto fotografare vicino al mammifero clonato, senza i suoi collaboratori, prendendosi tutta la scena. Caprara (2006) racconta che «Campbell, ignorato e offeso per il trattamento subito, abbandonava l’istituto e fondava una sua società di ricerca. Sfruttando la celebrità pure Wilmut avviava, con minore fortuna, una company analoga che nel giro di poco tempo però falliva. Il disconoscimento della paternità di Dolly ha fatto emergere anche la rivendicazione di due altri specialisti, Bill Ritchie e Karen Mycock, i quali compirono il duro lavoro del trasferimento del DNA senza venir minimamente considerati. Wilmut intanto veniva coperto di onori e premi…».
Sicché, per fare giustizia storica, d’ora in poi attribuiremo il lavoro a Campbell e ai suoi collaboratori (tra i quali figura senz’altro anche Wilmut). Un atto dovuto, anche se Campbell non può più godersi gli onori, essendo prematuramente deceduto, all’età di 58 anni. Caduto in depressione, il 5 ottobre 2012, si è infatti tolto la vita “per errore”. Secondo un’indagine, il biologo non aveva davvero intenzione di suicidarsi. In stato di pesante ubriachezza, avrebbe tentato il suicidio, ma soltanto per indurre la moglie a soccorrerlo. La consorte non si sarebbe però accorta della gravità della situazione e non sarebbe intervenuta in tempo (Britten, 2013).
Per dare i natali all’esemplare clonato, i ricercatori elaborano un procedimento molto complesso, che fa tesoro di tutte le esperienze precedenti. Innanzitutto, prelevano cellule dalla ghiandola mammaria di una pecora adulta di razza Finn Dorset. Quindi, le disgregano e le mantengono in un terreno di coltura privo di alcuni nutrienti per rallentarne la divisione cellulare e bloccarle in una fase del ciclo chiamata G0 (stadio di quiescenza). Come abbiamo anticipato, parlando dell’esperimento sui girini, è importante per la riuscita del trasferimento che l’ovocita e il nucleo donatore siano in sincronia. Le cellule vengono poi incubate in un terreno contenente il virus Sendai. Questo virus si lega alla membrana plasmatica delle cellule somatiche e svolge la funzione di facilitarne la fusione con l’oocita. Campbell e i suoi collaboratori trasferiscono 277 cellule somatiche in altrettanti oociti prelevati da pecore di razza diversa. Soltanto 27 di questi si sviluppano fino allo stadio di morula/blastocisti. Le morule vengono infine trasferite nell’utero di 13 femmine surrogate, ma soltanto una di queste si sviluppa raggiungendo lo stadio di individuo adulto: la celebre pecora Dolly.
Clonazione dei topi e malattia di Dolly
L’anno successivo, sull’onda del successo del team scozzese, Yanagimachi Ryuzo e il suo gruppo di ricerca ritentano l’esperimento di clonazione dei topolini che Karl Illmensee non era riuscito a ripetere. Stavolta l’esperimento riesce, utilizzando però altri tipi cellulari come donatori del nucleo, tra i quali le cellule nervose estratte dalla corteccia cerebrale di individui adulti. Sono, però, soltanto i trasferimenti dei nuclei di cellule follicolari che hanno successo, sviluppandosi fino alla nascita del topolino (Wakayama et al., 1998).
L’ipotesi formulata da Spemann nel 1938 risulta così verificata. Ora sappiamo che una cellula differenziata di un adulto contiene l’intero patrimonio genetico. Sappiamo anche che, con particolari accorgimenti tecnici, è possibile riprogrammare e dirigere la cellula verso lo sviluppo di un nuovo individuo. Abbiamo scoperto, infine, che per ottenere questo risultato è fondamentale il ruolo svolto dalla cellula uovo, anche se non è ancora chiaro attraverso quali meccanismi essa riesca a riprogrammare una cellula già completamente differenziata e avviarla verso lo sviluppo embrionale. A scoprire questi meccanismi, tassello dopo tassello, si impegna la ricerca nei due decenni successivi.
Ma la ricerca si trova ad affrontare anche un altro problema. Nello stesso anno della clonazione dei topolini, Dolly partorisce un agnellino di nome Bonnie, al quale farà seguito un secondo cucciolo l’anno successivo. Tutto sembra procedere per il meglio, ma, subito dopo il secondo parto, Dolly inizia a mostrare problemi di salute. La circostanza induce gli organi di informazione a sollevare la questione della sicurezza della tecnica. È una questione che ha particolari ricadute nel dibattito bioetico, in vista della clonazione di un essere umano. Quando Dolly compie tre anni, iniziano a circolare voci su una sua possibile morte prematura. Si prevede un invecchiamento precoce dell’esemplare clonato, perché ha i telomeri più corti rispetto ad altri individui della sua specie (AdnKronos, 1999). Nel gennaio del 2002 viene diagnosticata all’animale una forma di artrite alla zampa posteriore sinistra e al bacino. Il 14 febbraio 2003, si decide di praticare l’eutanasia alla pecora, a causa di complicazioni dovute a un’infezione polmonare. I media danno grande risalto alla notizia e molti opinionisti colgono l’occasione per denunciare i pericoli della clonazione. In realtà, sono giudizi affrettati, perché è necessario un campione statistico ben più ampio di un individuo, nonché una osservazione di lungo periodo, per trarre qualsiasi conclusione.
Nel frattempo, la tecnica già sperimentata da Campbell e altre nuove procedure vengono perfezionate e applicate con successo, per clonare diverse specie animali. Dopo le pecore e i topi, è la volta di bovini, equini, gatti e persino cani. A ricercatori italiani si deve la clonazione del primo cavallo, la puledra Prometea, nell’agosto del 2003. Il relativo articolo scientifico appare su Nature, a firma del biologo Cesare Galli e dei suoi collaboratori del Consorzio di incremento zootecnico di Cremona. Anche questa conquista raggiunge le pagine dei quotidiani. Così racconta l’evento Repubblica (2003): «Il risultato, pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature, costituisce una novità assoluta. Perché finora l’embrione dell’animale clonato veniva trasferito nell’utero di una madre diversa da quella che aveva donato il nucleo cellulare. Mentre la puledra che ha partorito Prometea è la stessa da cui sono state prelevate le cellule per l’embrione. In altre parole, per la prima volta un mammifero ha partorito una copia perfetta di sé». Due anni più tardi, è annunciata la nascita del primo cane clonato, un cucciolo di levriero afghano chiamato Snuppy (Lee, 2005). A rivendicare l’impresa è un team di scienziati della Corea del Sud guidato da Hwang Woo Suk, ricercatore che poco prima aveva annunciato anche la realizzazione delle prime linee di cellule staminali embrionali umane “su misura”. Poco dopo, si scopre che questa seconda “conquista” è una colossale frode scientifica, per la quale il ricercatore coreano cade in discredito e viene coperto di disonore (Campa, 2017). Successive verifiche, anch’esse pubblicate sulla rivista Nature, confermano, però, che almeno la clonazione di Snuppy è autentica (Seoul National University Investigation Committee, 2006).
Anche la questione della salute dei cloni viene successivamente chiarita. Con la stessa tecnica, i ricercatori britannici producono diverse sorelle gemelle di Dolly, nonché altri cloni di pecore con diverso corredo genetico. La vita di questi animali viene osservata in ogni dettaglio. A distanza di vent’anni, uno studio approfondito, pubblicato su Nature Communications, fuga ogni dubbio sullo stato di salute di questi animali (Sinclair et al., 2016). Così la rivista Le scienze (2016) dà notizia dei risultati della ricerca: «Kevin Sinclair dell’Università di Nottingham a Leicestershire, nel Regno Unito, e colleghi di altri istituti coreani e messicani, hanno concluso che le pecore clonate con la tecnica di trasferimento nucleare da cellule somatiche, la stessa usata a suo tempo per Dolly, invecchiano normalmente». Per anni, i ricercatori hanno studiato 13 pecore clonate, tra 7 e 9 anni di età. Oltretutto, quattro di questi animali sono stati generati utilizzando la stessa linea cellulare derivata da ghiandole mammarie che era stata usata nel 1996 per fare nascere Dolly. Sinclair e i suoi colleghi «hanno condotto una valutazione muscoloscheletrica, test metabolici e misurazioni di pressione sanguigna, oltre a esami radiologici e scansioni di risonanza magnetica di tutte le principali articolazioni degli animali clonati, confrontando poi i risultati con pecore di controllo, non clonate, di 5 e 6 anni di età» (Ibid.). Ebbene, dall’indagine risulta che gli animali clonati hanno un’aspettativa di vita e uno stato di salute in tutto e per tutto simile a quello degli animali non clonati.
La frontiera della clonazione umana tra frodi e tentativi falliti
L’idea che la tecnica della clonazione possa, prima o poi, essere applicata all’uomo non nasce soltanto al termine del percorso. Essa è sempre stata presente e corre parallelamente alle sperimentazioni sugli animali. Com’è noto, la clonazione umana può essere distinta in terapeutica e riproduttiva. Nel primo caso vengono prodotti embrioni umani che sono perfette copie, dal punto di vista genetico, di un individuo adulto, al fine di prelevarne cellule staminali embrionali che potranno poi essere utilizzate per curare patologie dello stesso individuo adulto. A questo preciso scopo, nel novembre del 2001, ricercatori della Advanced Cell Technology hanno già attuato e annunciato la clonazione del primo embrione umano (Cibelli et al., 2001). Nel secondo caso, si produce invece un embrione con lo stesso corredo genetico dell’adulto al fine di impiantarlo in utero e ottenere un essere umano in tutto e per tutto identico al padre o alla madre. Si tratterebbe di un gemello più giovane o, se vogliamo, di un fratello-figlio o di una sorella-figlia. Al momento, tutti i tentativi di trasformare in realtà questa ipotesi teorica sono falliti.
I fallimenti sono riconducibili tanto a difficoltà tecniche, quanto a limitazioni alla ricerca introdotte per ragioni bioetiche. Alcuni paesi hanno messo al bando entrambe le pratiche biomediche. Altri hanno vietato soltanto la clonazione a scopo riproduttivo. Altri ancora non hanno promulgato alcuna legge al riguardo. E, poiché ciò che non è esplicitamente vietato è permesso, alcuni scienziati americani ed europei si sono trasferiti nei paesi non proibizionisti per cercare di dare vita al primo essere umano clonato. Tra i medici più noti impegnati su questo fronte figurano Panyotis Zavos, Karl Illmensee, Severino Antinori e Avi Ben-Abraham.
Non mancano annunci riguardanti casi di riproduzione umana per clonazione, provenienti da ambienti estranei al mondo accademico. Per esempio, il 27 dicembre 2002, la Clonaid – società legata al culto religioso dei Raeliani – ha annunciato la nascita della prima bambina clonata. Così il Corriere della sera ha riportato la notizia: «La scienziata Brigitte Boisselier, legata alla setta dei Raeliani e presidente della società di clonazione umana Clonaid, ha annunciato la nascita di Eve, la prima bimba concepita attraverso il controverso metodo della clonazione. In una conferenza stampa a Hollywood in Florida Boisselier ha detto che la prima bimba-fotocopia, nata con parto cesareo, “gode di buona salute” ed è geneticamente identica alla madre, una donna di trent’anni. “La bimba si chiamerà Eve”, ha detto Boisselier» (Corriere, 2002). Secondo quanto riferito dalla ricercatrice raeliana, Eve sarebbe stata clonata da una cellula della pelle della madre. «La Boisselier ha detto che la bimba alla nascita pesava tre chili. La scienziata ha poi precisato che i genitori di Eve non appartengono alla setta dei raeliani e che non potevano avere figli con metodi naturali» (Ibid.). Boisselier ha aggiunto che Clonaid è riuscita a far partire dieci gravidanze: cinque si sono concluse in aborti spontanei, altre cinque hanno avuto successo. La nascita di Eva, nata con parto cesareo, sarà perciò seguita da altre quattro.
Non è mai stato possibile controllare la veridicità di questa affermazione. Secondo quanto riportato dal Guardian, Boisselier è un ingegnere chimico e non un biologo specializzato in riproduzione. Si presenta inoltre al pubblico non tanto come scienziato, ma come “vescovo” della Chiesa Raeliana (Guardian, 2002). Ad alimentare ulteriormente lo scetticismo è il fatto che la donna ha rimandato di qualche giorno la produzione delle prove, per rispettare il diritto alla privacy e alla sicurezza della famiglia. Rivolgendosi ai giornalisti, la scienziata francese ha detto: «Spero che voi ricordiate ai vostri lettori, quando parlate di questa bambina, che non state parlando di un mostro, del risultato di qualcosa di disgustoso» (Ibid.). La portavoce di Clonaid ha anche promesso che entro una settimana avrebbe consentito a esperti indipendenti di prendere campioni di DNA dalla madre e dalla figlia, per provare l’evento. Perciò, ha aggiunto: «Potete tornare nel vostro ufficio e trattare la vicenda come una frode, ma avete soltanto una settimana per fare questo». Le prove prodotte da osservatori indipendenti non sono mai arrivate. Il quotidiano inglese ha fornito anche informazioni sul centro di ricerca tali da sollevare più di un dubbio: «Clonaid è stata fondata alle Bahamas nel 1997 da Claude Vorilhon, un ex giornalista francese ora leader di un gruppo chiamato Raeliani. Vorilhon e i suoi seguaci sostengono che gli alieni lo hanno incontrato negli anni Settanta e gli hanno rivelato che hanno creato tutta la vita sulla Terra attraverso l’ingegneria genetica» (Ibid.). Infine, il giornale ha riportato le dichiarazioni scettiche di Antinori, che in precedenza aveva dichiarato il suo impegno nel campo della clonazione riproduttiva: «L’annuncio mi fa ridere e allo stesso tempo mi sconcerta, perché getta discredito su coloro che fanno ricerche scientifiche serie. Noi continuiamo il nostro lavoro scientifico, senza fare proclami» (Ibid.).
In effetti, i tentativi di clonazione umana a scopo riproduttivo continuano negli anni, ma con scarso successo. Una nota dell’agenzia ANSA datata 5 febbraio 2004 ci fa sapere che «è fallito l’esperimento di impiantare in una donna un embrione umano ottenuto per clonazione, annunciato tre settimane fa a Londra dall’andrologo americano Panayotis Zavos. Dai test, rende noto oggi la BBC on-line, non risulta che la donna nella quale è stato impiantato l’embrione sia in stato di gravidanza» (ANSA, 2004). Tre settimane prima, durante una conferenza stampa tenutasi a Londra, Zavos aveva annunciato che avrebbe impiantato un embrione ottenuto con la tecnica del trasferimento nucleare in una donna di trentacinque anni. L’andrologo aveva aggiunto che l’embrione era stato ottenuto utilizzando un ovocita della donna, privato del nucleo, nel quale era stato introdotto materiale genetico prelevato da una cellula della pelle appartenente al marito della donna. «Non è noto quando l’embrione ottenuto con questa tecnica sia stato trasferito nell’utero della donna. Eseguito l’esperimento, Zavos e il suo gruppo avrebbero cercato conferma dell’avvenuta gravidanza, ossia dell’attecchimento dell’embrione. Avrebbero quindi cercato di rilevare la presenza dell’ormone che viene prodotto a distanza di due o tre settimane dall’attecchimento dell’embrione in utero. I risultati ottenuti, riferisce la Bbc on-line, sarebbero però negativi» (Ibid.).
Zavos è uno tra i medici più attivi sul fronte della clonazione umana. Ha più volte dichiarato che un insuccesso non lo avrebbe fatto desistere. Infatti, ci riprova cinque anni più tardi. Nel 2009, l’andrologo annuncia nuovamente l’impianto in utero di embrioni umani clonati. Per l’esattezza, afferma di avere clonato 14 embrioni e di averne impiantati 11. Secondo quanto riporta il quotidiano The Independent, l’operazione è stata registrata da un produttore cinematografico indipendente, il quale ha confermato che «la clonazione ha avuto luogo e che le donne speravano sinceramente di divenire gravide del primo embrione clonato specificamente creato per lo scopo della riproduzione umana. Panayiotis Zavos ha rotto l’ultimo tabù del trasferimento di embrioni clonati nell’utero umano, una procedura che è un reato in Gran Bretagna ed è illegale in molti altri paesi. Ha portato avanti il lavoro in un laboratorio segreto, probabilmente situato in un paese del Medio Oriente dove la clonazione non è stata messa al bando» (Connor, 2009). Il documentario video che prova l’attendibilità delle dichiarazioni del medico viene diffuso dallo stesso quotidiano inglese su Youtube (Independent, 2009). Tuttavia, ancora una volta, il tentativo non produce l’esito sperato. Nessuno degli embrioni attecchisce. Non per questo, però, Zavos si arrende. Afferma che, se non sarà lui ad ottenere il primo clone umano, sarà qualcun altro.
Anno 2018: clonazione dei primati
Con il progredire delle ricerche, si intuiva che la clonazione dei primati era soltanto questione di tempo. Ciononostante, l’annuncio della riproduzione in serie di macachi da parte di scienziati cinesi non ha mancato di provocare stupore tra i non addetti ai lavori. A ben vedere, cloni di scimmie erano già stati prodotti in precedenza, diciannove anni prima per l’esattezza, ma il risultato era stato ottenuto attraverso la tecnica della fissione gemellare (“embryo splitting”). In altre parole, il processo era stato innescato attraverso la divisione di un embrione, nello stesso modo in cui si generano due gemelli identici in natura. Un metodo spiccio, ma non particolarmente utile alla ricerca biomedica. Invece, il risultato ottenuto dall’equipe cinese nel 2018 è molto importante, perché ottenuto con la tecnica del trasferimento nucleare di cellule somatiche (SCNT), che è poi l’approccio già utilizzato per clonare la pecora Dolly nel 1996.
Se si tiene presente la ragione che spinge enti pubblici e privati a investire in questo filone della ricerca, risulta chiaro anche il motivo per cui biologi e medici ritengono che il protocollo SCNT rappresenti la strada maestra della clonazione. Ovini, bovini ed equini possono essere clonati per ottenere un maggior numero di individui dotati di certe qualità, in funzione commerciale (animali da macello o cavalli da corsa). Topi e scimmie vengono invece clonati per ottenere cavie da laboratorio. Le cavie non solo devono essere esattamente uguali e non semplicemente simili, affinché i risultati dei test abbiano un valore probante attendibile, ma devono anche essere molte e modificabili. Il team cinese afferma che la tecnica del trasferimento nucleare è preferibile alla scissione di un embrione, proprio perché quest’ultimo approccio può produrre soltanto un piccolo numero di cloni e, inoltre, non consente di modificare i geni negli embrioni con precisione.
È stato, infatti, anticipato che il corredo genetico dei macachi sarà modificato, utilizzando per esempio la nuova rivoluzionaria procedura CRISPR/Cas9, affinché i cloni nascano affetti da malattie ereditarie e possano poi essere utilizzati come cavie in laboratorio. Il dottor Mu-ming Poo, co-autore della ricerca e direttore dell’Istituto di Neuroscienze dell’Accademia delle Scienze cinese, ha riferito che il primo gruppo di scimmie clonate saranno modelli per lo studio delle malattie neurodegenerative. Saranno molte, perfettamente identiche e tutte affette dalla stessa malattia che distrugge lentamente il sistema nervoso. I ricercatori potranno, così, comprendere meglio i meccanismi alla base delle patologie e testare farmaci o altre terapie per curarle.
Sebbene l’intero progetto possa apparire brutale – e tale apparirà certamente agli animalisti che avversano in linea di principio la sperimentazione animale –, i ricercatori sostengono che, in realtà, si tratta di una tecnologia “compassionevole” che ridurrà le sofferenze. Ora, infatti, non potendo utilizzare cloni, gli sperimentatori debbono sacrificare un numero molto superiore di esemplari delle diverse specie, affinché la diversità genetica tra individui perda rilevanza e i risultati diventino statisticamente attendibili. Inoltre, non tutti gli animali saranno modificati affinché si ammalino. Una delle grandi domande della biologia è come l’ambiente influisca sul DNA delle specie viventi. Potendo disporre di molti individui sani ed esattamente identici alla nascita, i ricercatori potranno finalmente scoprire come il comportamento dei geni cambia nel tempo, a mano a mano che cambiano le condizioni ambientali.
Sulla rivista Cell, il team cinese rivela di avere usato la tecnica con due diverse fonti di nuclei e, precisamente, le cellule di un feto di macaco abortito e le cellule che circondano le uova di un macaco adulto. In totale, con la prima procedura, i ricercatori hanno prodotto 79 embrioni e li hanno impiantati in 21 madri surrogate, ottenendo sei gravidanze e infine due scimmie vive, nate con la tecnica del taglio cesareo. I due macachi sono stati chiamati Zhong Zhong e Hua Hua, riprendendo e duplicando due frammenti del termine che indica l’area geografica della civiltà cinese: Zhōnghuá. Con la seconda procedura, ossia usando come fonte di nuclei le cellule di un macaco adulto, i ricercatori hanno prodotto 181 embrioni e li hanno impiantati in 42 madri surrogate. Anche in questo caso sono nati due cuccioli, ma sono morti entrambi subito dopo la nascita. Si ritiene che questo esito sia da ricondurre alla maggiore difficoltà nella riprogrammazione dei geni che l’utilizzo di cellule di adulti comporta.
Considerazioni finali
La clonazione è uno dei temi più caldi della bioetica, tanto che in diversi paesi sono state promulgate leggi volte a impedirla o limitarla, nonostante non si sia ancora registrato alcun caso certo di riproduzione umana per clonazione. De facto, la ricerca è arrivata a un punto che riesce ad estrarre e trasferire nuclei, ad accendere e spegnere i geni quasi a piacimento, a riprogrammare cellule e, infine, a ottenere cloni di animali adulti, inclusi i mammiferi più vicini all’uomo nella scala evolutiva. Come abbiamo visto, la clonazione di esseri umani è stata tentata più volte ed è fallita, ma dopo il successo del team cinese con i primati, la domanda che ci assilla maggiormente non riguarda più la fattibilità, quanto l’opportunità. Ci chiediamo sempre meno se sia tecnicamente possibile clonare un uomo e sempre più se sia eticamente giusto, o di qualche utilità. Lo stesso Mu-ming Poo ha chiarito che, se non esiste nessun ostacolo alla clonazione di primati non umani, si può ragionevolmente presumere che non vi sia alcuno ostacolo di natura tecnica alla clonazione di primati umani. Si è, però, affrettato a chiarire che questa opzione non è sul tavolo. Precisamente, Poo ha detto che «la clonazione degli esseri umani è più vicina alla realtà. Tuttavia, lo scopo della nostra ricerca è interamente rivolto alla produzione di modelli di primati non umani al fine di studiare malattie umane. Non abbiamo assolutamente alcuna intenzione di estendere questo lavoro agli umani e, del resto, la società non lo permetterebbe» (cfr. Davis, 2018).
Così come per la pecora Dolly, anche dopo la clonazione dei macachi sono stati sollevati dubbi sulla sicurezza della procedura, proprio nella prospettiva di un’applicazione all’uomo. L’esperto di genetica Robin Lovell-Badge, direttore dell’istituto Francis Crick di Londra, ha infatti affermato di avere dubbi sul fatto che la procedura basata sul trasferimento nucleare di cellule somatiche in altri animali offra dei vantaggi tangibili rispetto al metodo della scissione dell’embrione, se si considera l’esiguo numero di cuccioli vivi che sono stati generati. «Questa procedura – ha detto Lovell-Badge – è così inefficiente, così pericolosa, che non sono sicuro che sia davvero giustificata, ad essere onesti» (cfr. Davis, 2018). C’è da aspettarsi che l’efficienza della procedura sia destinata aumentare con il tempo, fino a garantire una sicurezza non inferiore a quella delle gravidanze naturali. Tuttavia, è evidente che i dubbi etici in materia di clonazione riproduttiva umana non sono legati soltanto alla questione della prudenza e della sicurezza. Con un certo margine di certezza, possiamo prevedere che la controversia bioetica non cesserà nel momento in cui la tecnica sarà assolutamente sicura. Al contrario, quello sarà il momento in cui raggiungerà il suo zenit.
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