Secondo Hegel, il talento è una “disposizione specifica dello spirito” e quindi una modalità limitata dell’esser dotati, mentre il genio sarebbe una qualità dalla tendenza universale. Se la speculazione estetica di Kant aveva portato il filosofo di Königsberg a riconoscere nell’impossibilità di riprodurre meccanicamente il processo di creazione artistica una condizione imprescindibile per definire il genio (Kant, 2011) – rimanendo fedele all’etimologia latina del termine gignere, che indica un processo di generazione non mai ascrivibile a canone determinato – e con l’avvento della cultura romantica era stato celebrato il valore dell’ispirazione, dell’immaginazione evocatica e dell’intuizione (che vide il suo culmine filosofico nell’idealismo soggettivo di Schelling), Hegel ridimensiona l’aspetto immaginativo e creativo della produzione artistica e di una qualunque “tecnica” in quanto tale, rivalutando non solo la rilevanza dell’educazione intellettuale e dell’esercizio specifico, ma soprattutto del talento.
Esso, a differenza del genio, è l’abilità tecnica di cui un qualsiasi soggetto è dotato relativamente ad uno specifico campo (Hegel si riferisce esplicitamente all’ambito artistico, ma tale distinzione può legittimamente avere portata più generale), e che in quanto strutturalmente determinata da procedure o metodologie particolari può essere razionalmente controllata e volontariamente riprodotta, nonché sistematicamente allenata: Hegel stesso sostiene che le conoscenze metriche, ritmiche e poetiche non siano bastate ai giovani Schiller e Goethe – ma lo stesso vale, più indietro nel tempo, per Omero – per la produzione di opere tecnicamente eccelse, date alla luce solo nella maturità (Hegel, 2003).
Sebbene Hegel non ritenga che possa esistere un talento strettamente scientifico (e tantomeno un genio scientifico, condividendo la posizione di Kant in merito) e per quanto la ragione speculativa hegeliana si distingua dalla ragione scientifica, il suo pensiero eminentemente antiromantico in merito si avvicina comunque alla tendenza razionalizzante con la quale è stato progressivamente inteso il talento durante la modernità e soprattutto nell’attuale età della tecnica, nella quale i compiti eseguibili da calcolatori ed intelligenze artificiali aumentano costantemente e una probabile quarta rivoluzione industriale (stavolta con protagoniste non più l’informatica, l’elettronica e la telematica, ma la meccatronica, la robotica e l’automazione) porterà nei prossimi decenni a delegare a macchine adeguatamente performanti mansioni sufficientemente meccaniche che prima potevano essere svolte solo da esseri umani.
Se infatti si definisce il talento come la capacità di eseguire compiti specifici secondo modalità sufficientemente performanti (oppure più performanti della norma, in relazione a uno standard fissato sull’analisi sistematica di un numero finito di campioni) tramite l’applicazione di una metodologia, di un procedimento o di una tecnica determinata, e invece il genio come l’abilità unica di ottenere risultati del tutto rivoluzionari e non preventivamente prevedibili in uno o più determinati ambiti specifici, resta da chiedersi se e quanto il genio possa essere logicamente inteso come l’estremo culmine del talento – secondo una concezione calcolistica della razionalità, che va dall’hobbesismo allo sviluppo dell’informatica moderna, passando per il pensiero e per il contributo fondamentale di Leibniz – oppure se esso risulti derivare da caratteristiche qualitativamente differenti, non riproducibili e non intrinsecamente contenute, seppur in forma basilare, nel talento stesso – secondo la prospettiva romantica, ma anche kantiana ed hegeliana, come già visto –; se, quindi, si possa in modo legittimo distinguere pascalianamente tra esprit de géométrie ed esprit de finesse (Pascal, 2000), oppure se quest’ultimo non possa essere in qualche modo riassorbito ed inglobato costitutivamente nel primo.
La questione può essere riproposta e più precisamente definita facendo riferimento a un moderno ambito di ricerca, capace di offrire indizi e prove concretamente risolutive a riguardo: quello delle neuroscienze computazionali, a cavallo tra la neurofisiologia, la neurobiologia e la psicologia sperimentale da una parte, e la teoria dell’informazione, l’informatica e la già citata intelligenza artificiale dall’altra. Proprio in quest’ultimo campo si è originato, agli inizi degli anni Sessanta, il dibattito che si è esteso poi interdisciplinarmente in molte branche delle neuroscienze e dell’ingegneria, che riguardava la pretesa di riprodurre e ricostruire il funzionamento della mente umana su un calcolatore, e che vide inizialmente due schieramenti contrapposti: quello della cosiddetta intelligenza artificiale “debole”, per il quale i calcolatori ad hardware elettronico sarebbero costitutivamente impossibilitati a giungere a uno stato di coscienza di sé, e allo stesso modo sarebbe impossibile riprodurre completamente le funzioni cognitive umane mediante l’implementazione algoritmica di opportuni programmi; e quello dell’intelligenza artificiale “forte”, secondo cui invece non solo sotto certe condizioni (si ricordi il classico Gedankenexperiment della “stanza cinese” proposto da Searle [1984]) i processi di ragionamento di un calcolatore sarebbero indistinguibili da quelli umani, ma sarebbe possibile riprodurre qualsiasi forma di pensiero tipicamente umana (quindi logica, emozionale, di coscienza, e così via) su un supporto fisico elettronico e non biologico: in particolare, molti sostenitori dell’IA forte ritengono che la tesi di Church-Turing, secondo cui la classe delle funzioni intuitivamente calcolabili coincide con la classe delle funzioni Turing-calcolabili (la quale diviene principio dalla valenza fisica nell’ambito della computazione quantistica, ma pur avendo avuto moltissimo riscontro “sperimentale” positivo in ambito computazionale, non può essere dimostrabile deduttivamente) sia applicabile anche alla mente umana.
L’avvio e lo sviluppo di tale ricerca ha condotto a due approcci fondamentali volti a riprodurre le funzioni cognitive umane sulle strutture dei calcolatori: quello funzionalista, inaugurato da Putnam (1987), che tentava la riproduzione dei processi mentali mediante l’associazione e l’implementazione di singoli programmi a singole funzioni cerebrali, vedendo la mente come una macchina di Turing ideale, e quello connessionista, originatosi a partire dalla “crisi” del funzionalismo, che mira a ricreare il funzionamento strutturale della mente attraverso le cosiddette reti neurali (ovvero sistemi di elaborazione ad elevato parallelismo distribuito).
Oltre a sottolineare un’avversione nei confronti della reificazione ipostatizzata del pensiero in un ente chiamato “mente”, di matrice perlopiù fisicalistica o eliminativistica e tipica di certi recenti orientamenti (per l’appunto) della filosofia della mente, le critiche filosofiche dirette alla pretesa di riprodurre computazionalmente ogni processo di pensiero umano o animale, e quindi ogni talento o genio esplicantesi a partire da esso, si rivolgono perlopiù alla tendenza riduzionistica – considerata illecita poiché scientificamente infondabile – sottostante all’intendere la mente come un’entità sintattica ed asituazionale slegata dall’esperienza concreta e dal vissuto coscienziale (l’Erlebnis husserliano) e sociale nel quale tipicamente il pensiero umano è inserito: in questa direzione vengono mosse le critiche di Hubert Dreyfus e Harrison Hall (1982), nonché quelle di Terry Winograd e Fernando Flores (1987). Un’altra critica all’isomorfismo mente-computer sostenuto dall’intelligenza artificiale forte, concettualmente simile ma dal carattere scientifico, viene portata avanti da Roger Penrose: egli ritiene infatti che il funzionamento della mente e i processi di coscienza relativi all’intuizione e alla dimostrazione matematica presentino delle caratteristiche intrinsecamente non algoritmiche (citando, a tal proposito, anche un’interpretazione controversa e indebitamente generalizzante del primo teorema di incompletezza di Gödel), e che ciò probabilmente dipenda da caratteristiche peculiari dei meccanismi biochimici regolanti l’attività delle usuali funzioni neurofisiologiche, così come dai processi che definiscono la biologia del cervello umano in generale (Penrose, 1992).
Il talento matematico sembra però, tra gli altri, quello che assieme al talento “decisionale” (nel senso della teoria dei giochi) risulta più facilmente riproducibile dai computer: le intelligenze artificiali preposte al cosiddetto automated theorem proving si sono rivelate prolifiche nell’ambito dei sistemi formali espressi in un linguaggio del primo ordine, e sono riuscite a fornire autonome dimostrazioni del teorema dei quattro colori e della congettura di Robbins, sebbene non riescano a distinguere i risultati matematicamente banali da quelli realmente significativi (e per questo, un futuro in cui le macchine riescano a proporre idee di ricerca innovative appare oggi lontano); il talento filosofico, invece, che comporta capacità di autoriflessione intrapersonale e concettuale in senso hegelianamente dialettico e gerarchico, nonché di chiarificazione (l’Aufklärung tipico della logica pura, che non si riduce all’assiomaticità della logica formale né presuppone alcun oggetto la cui posizione non possa mostrare come univocamente necessaria) pare essere uno dei più complessi a riprodursi, così come quello interpersonale o quello artistico.
Può dunque un’intelligenza artificiale, in futuro, riuscire a scrivere opere profonde quali quelle di Shakespeare, poesie magistrali come quelle di Petrarca, oppure dipingere emulando il talento figurativo di Leonardo o Picasso, o ancora comporre meravigliose sinfonie paragonabili alla musica di Mozart o di Beethoven? Può un calcolatore sufficientemente potente sviluppare autonomamente la teoria della relatività generale di Einstein, oppure unificare le moderne teorie quantistiche dei campi fino al Modello Standard? Può una macchina sviluppare e scrivere questo testo, giungendo a riflettere sulle sue strutture di pensiero, senza che sia chiaro se essa pensi realmente o meno?
La risposta potrebbe sembrare effettivamente sorprendente se si considerano i recenti progressi (Schmidhuber, 2015) conseguiti nella costruzione di reti neurali massivamente parallele (che non sono propriamente macchine algoritmiche di Turing, e per le quali sono stati proposti metodi per esprimere computazionalmente anche eventuali meccanismi non algoritmici [Zizzi, 2012]) sempre più complesse ed efficienti, nonché nello sviluppo di tecniche di pattern recognition, deep learning e scenarios forecasting progressivamente più versatili e performanti, i quali depongono a favore di una completa computabilità della mente anche qualora ne venisse dimostrata la non algoritmicità, e quindi della visione per la quale il genio è propriamente e solamente il punto d’apice del talento.
Tale tesi di fondo, se si considera anche il mutato atteggiamento di parte della comunità scientifica nei confronti dell’IA, non più finalizzata alla realizzazione della possibilità di una replica esatta di una mente umana o animale e quindi alla simulazione perfetta del pensiero (visto anche che tale obiettivo non viene perseguito più tentando di costruire da zero una mente in senso funzionalistico o connessionistico, ma tracciando il connettoma – cioè l’insieme delle connessioni neurali e sinaptiche – di un cervello animale per poi elaborarlo informaticamente), ma all’emulazione di esso nei risultati specifici ottenibili da parte di una “mente artificiale” i cui processi di calcolo possono non essere identici a quelli umani, appare sensata e filosoficamente consapevole, specialmente in riferimento ad una concezione deantropomorfizzata della macchina, così come a una visione del talento e del genio tanto multiforme per le modalità tramite cui si manifesta, quanto per la diversità degli ambiti in cui lo fa, ma transumanisticamente universale e unificata in quanto disposizione specifica dello “spirito” di un essere senziente intelligente, sia esso umano o robotico, biologico o meccatronico.
In prospettiva di un’integrazione progressiva e sinergica tra l’attività dell’uomo e quella delle macchine, calata nel contesto di un’imminente rivoluzione industriale dell’automazione e del sistema socioeconomico neoliberistico – costitutivamente incapace di guidare lo sviluppo tecnologico alla sua imperativa identificazione con il progresso eticamente finalizzato – non può non porsi la questione del merito, della sua fondabilità e legittimità concettuale e delle effettive conseguenze che una sua valorizzazione non solo professionale ed istituzionale, ma sociale e culturale porterebbero nella práxis.
Quanto al primo punto, già riferendoci al significato etimologico del termine – meritum come lucro, premio, ricompensa – si rende chiaro come il concetto di merito sia intrinsecamente dipendente da un’azione valevole o da un’attività encomiabile (sia essa conseguita in riferimento all’aretè greca, alla virtus romana, alla valentia rinascimentale o a qualsiasi concezione di agire morale viga nella cultura di riferimento, e dalla quale la meritevolezza in sé risulta formalmente indipendente) per la quale il merito spetta a colui che è riuscito a metterla in atto, e che in qualche modo se l’è “guadagnato” – ancora traducibile per i latini con meritum, supino del verbo mereo, dal significato sia di guadagnare che, appunto, di meritare; si potrebbe lecitamente dire, rivisitando opportunamente la formula vichiana, che «meritum et lucrum reciprocantur seu convertuntur» (cfr. Vico, 1977).
Potrebbe apparire ovvia, nell’operazione di determinazione del merito, la necessità di valutare, nei casi specifici, se vi sia volontarietà e consapevolezza dell’atto per il quale il merito stesso viene attribuito, il che rimanda inevitabilmente all’annosa questione del determinismo e della sua compatibilità col libero arbitrio; se quindi un individuo che compia un’azione moralmente encomiabile, o che finalizzi eticamente l’espressione del suo talento o genio, sia degno di merito per aver liberamente deciso di farlo o meno, e se tale azione sia derivata davvero dalla sua volontà (e da un suo talento specifico) o se sia stata solamente una conseguenza necessaria del mondo rispetto al cui accadimento egli non aveva facoltà di scelta.
In realtà, se si sposta l’attenzione dal piano puramente deontologico a quello utilitaristico e consequenzialistico – giungendo così a toccare il secondo punto sopra citato – risulta comunque razionale attribuire merito a coloro che contribuiscono positivamente al progresso tecnico-scientifico, economico, culturale ed intellettuale della società, sia in quanto incentivo a produrre ulteriore progresso da parte dei già meritevoli e di coloro che, resisi conto della ricompensa, sarebbero portati a farlo, sia in quanto valorizzazione delle caratteristiche indispensabili a definire una cultura dell’eccellenza fondata su un’assiologia che prescriva universalmente la finalizzazione etica del talento e del genio di ognuno. Anche negando l’esistenza del libero arbitrio a favore del determinismo, con conseguenze teoretiche decolpevolizzanti e deresponsabilizzanti nel bene e nel male, non sarebbe comunque delegittimata l’utilità sociale e civile derivante dal premiare i meritevoli e dal punire giuridicamente coloro che mettono in pericolo la società, senza per questo scadere in conservatorismi o giustificazionismi, come Spinoza aveva già brillantemente riconosciuto (Spinoza, 1995).
Proprio nella sua utilità eticamente orientata, il concetto di merito trova la sua legittimazione, a maggior ragione se in particolare il merito attribuito all’esercizio del talento consiste praticamente anche nell’attribuzione di una carica politicamente rilevante, in un sistema di governo che ricalca concettualmente una noocrazia di matrice platonica adattata alle esigenze attuali, quindi tecnologicamente esperto, capace di applicare metodologie scientifiche (quali statistica, data mining, teoria dei giochi e delle decisioni, simulazioni informatiche di modelli socioeconomici) alla gestione politica, rapido e reattivo all’innovazione nella legiferazione ed attento al benessere dei cittadini come alla crescita nell’intervento in materia economica.
Tale soluzione permette da una parte di porre fenomenologicamente in epoché la questione di una definizione deontologica del merito, evitando la caduta nella fallacia naturalistica (in riferimento alla distinzione metaetica humiana per cui ciò che è, l’is, non è già anche ciò che deve essere, l’ought) e la legittimazione di una morale meritocratica che per i socialisti più estremi non sarebbe distinguibile dal mero darwinismo sociale o dal culto calvinista della predestinazione che per Weber costituisce il fondamento dello “spirito del capitalismo” (Weber, 1991), e dall’altra di mettere in evidenza la necessità di un ripensamento sistematico dell’attuale sistema politico ed economico, che qualora venisse ridefinito in senso noocratico (con figure altamente competenti, sapienti e capaci ad amministrare la gestione della cosa pubblica secondo una finalità etica comune) permetterebbe una sistematica valorizzazione ed attribuzione di merito relativa all’utilità non solo economica, tecnica o scientifica ma anche culturale ed intellettuale che i vari talenti sono in grado di generare.
In relazione a quanto detto finora, resta anche la questione riguardante la riproducibilità artificiale del talento e del genio, che si estende adesso al merito: risulta sensato e razionale attribuire merito a robot, calcolatori ed intelligenze artificiali che riescano a svolgere delle specifiche mansioni in modo straordinariamente più performante rispetto agli umani? Anche non considerando in questa sede la prospettiva futura dell’emergenza di potenziali coscienze non biologiche ma informatiche (già considerata da Putnam e dalla nascente filosofia transumanista), che estenderebbe a dismisura la portata filosofica della questione, si può rispondere affermativamente a tale interrogativo se non ci si limita ad intendere il merito come prestigio, gratificazione o soddisfazione personale o professionale, ma più generalmente come la possibilità di acquisire sempre maggior libertà di esercitare e perfezionare il proprio talento fino a trasformarlo in genio, col fine ultimo di mettere i suoi risultati al servizio della collettività. In questo modo anche le macchine avrebbero legittimamente il loro merito, cosicché possano massimizzare la loro utilità sociale, e allo stesso tempo permettono di valorizzare maggiormente i talenti umani che più difficilmente sono da esse riottenibili e riproducibili, dei quali alcuni a oggi sono notevolmente svalutati e sottostimati.
Tra gli altri, il talento filosofico è probabilmente quello più sottovalutato e a cui meno si attribuisce merito: l’attuale società mass-mediatica dei consumi e dello spettacolo, rifiutando la concezione pratico-esistenziale di filosofia come Lebensberuf prospettata da Husserl (2004), e delegittimando l’altrettanto husserliana figura dell’intellettuale come “funzionario dell’umanità”, si costituisce strutturalmente come la negazione sistematica del pensiero autenticamente filosofico, di per sé neutralizzato tramite i meccanismi economici tipicamente liberistici rispetto al cui funzionamento il merito non spetta a chi agevola la realizzazione del bene comune o produce progresso umanitariamente finalizzato, ma a chi banalmente riesce a sfruttare le logiche del mero consumismo a suo favore.
Questo, oltre al profondo stato di crisi culturale che vede come protagonista un relativismo e uno scetticismo intrinsecamente postmoderni e nichilistici, nonché uno specialismo ultrasettoriale acritico che sancisce l’incomunicabilità tra i vari saperi particolari così incapaci di ricostituirsi concretamente nell’intero, fa sì che il pensiero filosofico, dopo più di due millenni, abbia di fatto rinunciato all’adempimento della sua finalità fondativa, sistematizzante ed unificatrice, rischiando di sgretolarsi e di frammentarsi fino a scomparire.
Ma propriamente e solamente attraverso il ripensamento di una filosofia rigorosa, sistematica ed unitaria, che – lungi dal cadere nei dogmi dello scientismo – sappia fare uso della matematica e rapportarsi con la scienza e con la tecnologia informatica è possibile fondare una cultura diretta alla ricerca della verità e alla conquista del bene, nonché ridefinire una società che dal sistema giuridico a quello economico, dall’orientamento etico a quello politico riesca a valorizzare sommamente il vero conoscere e il retto agire, sapendo sistematicamente riconoscere il dovuto merito a chiunque metta al servizio dell’umanità il suo talento.
Per approfondire:
- Dreyfus H. e Hall H., Husserl, Intentionality and Cognitive Science, The Mit Press, Cambridge, Massachusetts, 1982.
- Hegel G. W. F., Lezioni di Estetica. Corso del 1823, trad. di P. D’Angelo, Laterza, Bari-Roma, 2007.
- Husserl E., La storia della filosofia e la sua finalità, Città Nuova, Roma, 2004.
- Kant I., Critica della facoltà di giudizio, a cura di E. Garroni, Einaudi, Torino, 2011.
- Pascal B., Pensieri, a cura di A. Bausola, Bompiani, Milano, 2001.
- Penrose R., La mente nuova dell’imperatore, Rizzoli, Milano, 1992.
- Putnam H., Mente, linguaggio e realtà, tr. it. di R. Cordeschi, Adelphi, Milano, 1987.
- Schmidhuber J., Deep Learning in Neural Networks: An Overview, “Neural Networks”, vol. 61, gennaio 2015.
- Searle J., Menti, cervelli e programmi. Un dibattito sull’intelligenza artificiale, CLUP-CLUED, Milano, 1984.
- Spinoza B., Trattato Teologico-Politico, a cura di A. Petterlini, Zanichelli, Bologna, 1995.
- Vico G., La scienza nuova ed altri scritti, UTET, Torino, 1976.
- Weber M., L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano, 1991.
- Winograd T. e Flores F., Calcolatori e conoscenza, Mondadori, Milano 1987.
- Zizzi P., When Humans Do Compute Quantum, in: Zenil H. (a cura di), A Computable Universe, Word Scientific Publishing, Singapore, 2012.
Bravo. per ora ho letto metà e la conclusione, molto bella. Complimenti da Renata Fregonese
ma come ripensare, fare una filosofia che sia nello stesso tempo unitaria e non dogmatica? forse dipende dal metodo non dal fatto di essere unitaria, non so. Valorizzare il retto agire… riconoscere il dovuto merito a chiunque metta al servizio dell’umanità il suo talento. Parole condivisibili, entusiasmanti, bellissimi intenti ma stabilire nella concretezza della quotidianità di volta in volta il retto agire non è semplice scontato univoco, merito per chi è a servizio dell’umanità, ottimo!! ad es. aiutare i malati… poi ti trovi Mereu e tanti che dicono, in sintesi, che le malattie te le crei da te e continui ad averle perchè non vuoi crescere, cambiare, vuoi avere le attenzioni su te, che il medico pietoso fa la piaga purulenta ecc e quindi sembrerebbe che chi si dedica ai malati è solo un masochista complice di negatività! la vita è complessa… detta da non filosofa 🙂