L’essere umano ha desiderato estendere la propria vita e superare la propria finitezza sin dalla notte dei tempi. L’idea della morte, come trauma originario, come salto verso l’ignoto, lo ha spinto tragicamente a difendersi dal dolore e dall’oblio. Sebbene non manchino esempi cronologicamente anteriori o geograficamente lontani – si pensi rispettivamente al Gilgameš dell’omonima epopea classica babilonese, il leggendario re sumero di Uruk «che scrutò i confini del mondo alla disperata ricerca della vita eterna», o al primo sovrano della Cina imperiale Qín Shǐ Huángdì, iniziatore della muraglia cinese ed ossessionato dall’idea di ottenere l’immortalità – il tema assume una connotazione ancor più forte e del tutto peculiare all’interno della cultura europea e occidentale a partire dai greci.
Durante il passaggio dal sapere mitico a quello razionale, filosofico, avvenuto in concomitanza con il passaggio alla cultura della scrittura contro all’oralità mimetico-poetica omerica grazie all’opera di Platone, l’atteggiamento dell’umanità nei confronti della morte comincia a configurarsi diversamente: se prima si tentava di difendersi dalla sua presa tramite l’evocazione degli avi o il solo affidamento a una divinità, in una prospettiva mitologico-religiosa, da quel momento in poi venne concepita l’idea di affrontarla razionalmente, con le credenze teologiche ad assumere eventualmente validità solo se giustificabili logicamente. La stessa affermazione aristotelica secondo la quale la filosofia nascerebbe dalla “meraviglia” è tanto nota quanto fraintesa: il thaûma non è infatti un candido ed entusiastico sconcerto intellettuale, ma piuttosto un “angoscioso stupore” o, ancora più chiaramente, un “terrore”. Precisamente, come riconosciuto anche da Severino, quello provato nei confronti della caducità delle cose naturali e del divenire del mondo (Severino, 1989), che l’uomo apprende razionalmente e da cui tenta prometeicamente di emanciparsi, come già prefigurato da Eschilo, tramite l’applicazione sistematica del sapere epistemico; in una parola, tramite la tecnica.
Le faticose prove affrontate da Psiche per poi divenire immortale e vivere eternamente assieme ad Amore, la ricerca della pietra filosofale quale “elisir di lunga vita” nell’alchimia rinascimentale, il patto diabolico che il Faust goethiano stipula con Mefistofele per salvaguardarsi dalla propria natura mortale ed accedere alla conoscenza e alla felicità assolute esprimono la tendenza umana, e in particolar modo europea, all’autotrascendimento perpetuo, all’anelito titanico di vivere oltre la storia.
È ciò che Hegel, nella Fenomenologia dello Spirito, esplicita filosoficamente, trattando della dialettica signoria-servitù, quale carattere proprio dell’uomo e della sua autenticità: solo chi apprende il pericolo supremo della morte e l’affronta, riconoscendo il valore oltre la semplice sopravvivenza, potrà divenire authéntēs, signore (ovvero soggetto razionalmente autonomo), mentre chi ne verrà soggiogato diverrà servo, legato, come l’animale, alla sopravvivenza biologica come unico valore (Hegel, 1807); è ciò che immaginificamente Bergman esprime nella scena chiave de Il settimo sigillo, dove il protagonista Antonius Block, temerario cavaliere, è intento a sfidare la morte in una partita a scacchi (Bergman, 1957). Ed è anche ciò che sopravvive, ancorché in forma talvolta ingenua o spuria, nelle posizioni immortaliste o longeviste radicali degli esponenti delle varie sottocorrenti dei tecno-utopismi di oggi, che sostengono l’auspicabilità e la realizzabilità dell’estensione radicale della vita: la tenacia dell’umanità nella sua ribellione originaria contro la consunzione del divenire.