Nel 2012 l’uragano Sandy, il più grande uragano atlantico registrato fino ad oggi (ma il cui record sarà presto superato, data l’accelerazione del cambiamento climatico), mise in ginocchio la città di New York, allagando buona parte della rete della metropolitana. In una metropoli così grande, densamente popolata e tecnologicamente avanzata, un evento estremo come un uragano è un bel problema. Ma non è necessario scomodare fenomeni meteorologici estremi per mettere K.O. la metropolitana di New York, che serve ogni giorno 5 milioni di passeggeri ed è in pratica l’infrastruttura più vitale della città. Nel suo libro Il mondo senza di noi (2008), Alan Weisman ha rivelato come basterebbero due giorni d’inattività delle 753 pompe che permettono il deflusso delle acque piovane e fognarie sotterranee per allagare completamente la metropolitana, e già dopo quattro o cinque ore la circolazione sarebbe impossibile. Qualche altro giorno basterebbe a produrre tali infiltrazioni di acqua da far collassare interi quartieri di New York.
Le metropoli rappresentano meglio di qualsiasi altro sistema il concetto di “complessità sociale”. Nate e sviluppatesi in buona parte senza alcuna pianificazione a priori, richiedono una manutenzione enorme e sono così dipendenti dall’intervento esterno da essere estremamente vulnerabili. I prodotti alimentari che gli abitanti delle metropoli consumano quotidianamente, la rete elettrica che porta l’energia nelle case, le condutture idriche, le strade asfaltate su cui corrono le auto, sono elementi dati spesso per scontati. Eppure, un’improvvisa interruzione dell’approvvigionamento alimentare esaurirebbe nel giro di pochi giorni le scorte alimentari di una metropoli; un severo black-out renderebbe la vita difficile soprattutto per chi abita ai piani alti degli edifici, o nelle fredde giornate d’inverno; un collasso nella rete idrica metterebbe a repentaglio l’accesso alla propria fonte di acqua potabile e una manutenzione troppo a lungo rimandata può facilmente provocare cedimenti nel manto stradale tali da rendere impercorribile la strada che ogni giorno si prende per andare al lavoro.
Come all’interno di una geometria frattale, la metropoli non è però che una parte di una più ampia struttura sociale complessa e vulnerabile: quella in cui viviamo. Nel suo classico The Collapse of Complex Societies (1988), l’americano Joseph Tainter definisce il termine “complessità sociale” in riferimento alla grandezza di una società, al numero e alla differenziazione delle sue parti, alla varietà dei ruoli sociali specializzati che incorpora, al numero delle distinte personalità sociali presenti e alla varietà dei meccanismi per l’organizzazione di tutte queste componenti in un insieme coerente e funzionante. È indubitabile che la società occidentale contemporanea post-industriale sia il più alto stadio di complessità sociale che la nostra civiltà abbia finora raggiunto nell’arco della sua storia millenale. Mentre le società di cacciatori e raccoglitori si limitavano ad avere poche decine di ruoli sociali, spiega Tainter, i censimenti dell’epoca contemporanea classificano fino a 20mila ruoli occupazionali. La parcellizzazione del lavoro è del resto indispensabile man mano che i bisogni della società aumentano e superano quelli legati alla mera sussistenza. Per gestire un mondo complesso è necessario un altissimo numero di specializzazioni.
Questa specializzazione, tuttavia, è un tratto assolutamente recente della nostra civiltà. Per migliaia e migliaia di anni, i nostri antenati si limitavano a un’economia di sussistenza dedita all’agricoltura, con pochissime innovazioni. L’innovazione tecnologica non ha caratterizzato né l’età classica né quella medioevale, e in buona misura nemmeno l’epoca rinascimentale. Essa ha iniziato ad accelerare solo a partire dalla prima Rivoluzione industriale. Secondo Tainter, ciò dipende dal fatto che, fino a due o trecento anni fa, il 90% delle economie di sussistenza implicava la produzione di energia, principalmente attraverso l’agricoltura, per cui c’era poca ricchezza da destinare all’istruzione o al finanziamento di idee innovative. Quando la Rivoluzione industriale ha reso disponibile energia a buon mercato, il mondo è iniziato a cambiare e il ritmo delle innovazioni ha preso a crescere. L’innovazione è strettamente connessa alla complessità: problemi più complessi richiedono soluzioni più ingegnose. L’aumento della complessità, d’altro canto, richiede più energia e produce società “energivore” come la nostra.
L’aumento della complessità è un fenomeno non gestibile né controllabile. Richiede un continuo adattamento alle novità, un continuo aggiustamento della macchina per renderla più performante e maggiormente in grado di tenere insieme e far funzionare bene i diversi componenti del sistema. Può capitare facilmente, quindi, che un pezzo si rompa. Una struttura molto complessa dispone di ridondanze sufficienti a rendere innocua la rottura di quel pezzo, almeno per il tempo necessario alla sua sostituzione. Ad esempio un aereo di linea è equipaggiato con fino a quattro motori, per cui il malfunzionamento di uno o due motori non compromette la sicurezza del velivolo in volo. Può accadere tuttavia che si rompa, tutt’a un tratto, un pezzo vitale, della cui importanza i progettisti non avevano alcuna consapevolezza. Quasi tutti i principali incidenti aerei, compresi i più tristemente noti, come quello del Concorde Parigi-New York del 2000 o del volo AirFrance 447 Rio-Parigi del 2009, sono stati causati dalla rottura di componenti vitali ignorati dai progettisti. Un velivolo ancora più complicato come lo Space Shuttle è esploso per ben due volte a causa di difetti di progettazione imprevisti.
Può accadere lo stesso a società complesse come le nostre? Senza dubbio. Pensiamo alla rete elettrica, da cui siamo disperatamente dipendenti. Il 28 settembre 2003 l’Italia subì il peggiore black-out della sua storia, causato dalla caduta di un albero su un traliccio della linea ad alta tensione che porta l’energia della Svizzera nel nostro paese. Si trattò di un fatto imprevedibile che, in un sistema ridondante, non avrebbe dovuto provocare che qualche interruzione di corrente. Invece, la vulnerabilità della rete elettrica si rivelò tale che quel piccolo incidente tolse l’energia all’intero paese per ore. Per fortuna il black-out avvenne in piena notte, poco dopo le tre, e di domenica, per cui i suoi effetti crearono pochi disagi (a Roma alcune migliaia di persone che rientravano dalla Notte Bianca rimasero bloccate nella metropolitana o negli ascensori). Se lo stesso fenomeno fosse accaduto nel pieno di una giornata lavorativa, i contraccolpi economici sarebbero stati gravissimi. Pensiamo allora a cosa accadrebbe nel caso di un black-out di più giorni. Uno scenario solo apparentemente fantascientifico: una forte tempesta solare diretta verso la Terra provocherebbe sconquassi tali nel campo elettromagnetico che circonda il nostro pianeta da mandare in tilt buona parte dei circuiti elettronici e delle reti di trasmissione dell’elettricità. Da gravi, le conseguenze diventerebbero catastrofiche.
La vulnerabilità del sistema energetico che costituisce l’infrastruttura vitale della nostra società è solo una parte del problema. La complessità può assumere ben altre forme. La crisi finanziaria che nel 2008 ha innescato la Grande Recessione è stata provocata dall’impiego di strumenti finanziari così complessi che nessuno era in grado di comprenderli fino in fondo, cosicché le trappole che nascondevano hanno potuto produrre gli effetti nefasti che conosciamo prima che fosse possibile prevederli. La burocrazia farraginosa è un altro esempio delle forme che può assumere la complessità sociale. Una burocrazia “bizantina” ha messo in ginocchio sistemi precedenti ai nostri, dall’Impero romano (e poi quello bizantino, per l’appunto) all’Ancien régime precedente alla Rivoluzione francese, il cui coacervo di norme, esenzioni, vincoli e distinzioni era divenuto così intollerabile da far tracollare l’intera società francese. La Rivoluzione prima e il sistema napoleonico poi riusciranno a semplificare il paese uniformando pesi e misure, eliminando le barriere interne, creando un unico sistema fiscale, accentrando l’autorità esecutiva e formando una burocrazia in grado di gestire la (pur temporaneamente ridotta) complessità del sistema.
Secondo il matematico John Casti, che al tema della complessità sociale ha dedicato un libro di grande successo, Eventi X (2012), riprendendo solo in parte alcune delle considerazioni esposte dall’economista Nassim Nicholas Taleb nel suo bestseller Il cigno nero (2007), il mondo in cui viviamo è come un castello di carte. Nel suo libro, lo studioso racconta dello sforzo di un architetto americano di completare il più grande castello di carte mai realizzato. Ci riuscì, dopo molte difficoltà, ma una banale folata di vento o uno starnuto troppo forte avrebbe potuto compromettere tutto. Anche la nostra società potrebbe crollare come un castello di carte a causa di un evento assolutamente insignificante, come un albero che cade su un traliccio. Quale può essere la soluzione? Quella apparentemente più risolutiva è avviarci verso una semplificazione del sistema. I teorici della decrescita condividono quest’opzione e sostengono che l’adozione di stili di vita più sostenibili sia la soluzione migliore per evitare i contraccolpi di una crisi sistemica. Tuttavia, è difficile trovare esempi storici di successo che vadano in questa direzione. Esperimenti volontari di semplificazione finirebbero per sfociare nell’eremitaggio e nell’isolamento dal mondo, rivelandosi fallimentari se non supportati da uno sforzo generale. Ben più probabile è che la semplificazione del sistema avvenga forzatamente, come risposta a gravi crisi.
Quest’ultimo scenario non è però, di certo, auspicabile. Un collasso sociale o una rivoluzione come metodi per ridurre la complessità generano, come effetti indesiderati, caos e catastrofi. L’altra soluzione, che invece vale la pena percorrere, è quella di investire nella capacità di comprendere il futuro evolversi del sistema. L’unico modo per gestire la complessità è attraverso un sistema più complesso. Il rapido evolversi della tecnologia potrebbe presto donarci degli strumenti attraverso i quali guidare la civiltà attraverso il suo tumultuoso sviluppo. Pensiamo alla rivoluzione dei Big Data. Se fossimo in grado di impiegare gli strumenti di analisi del data mining per metterli al servizio – piuttosto che di agenzie pubblicitarie o catene di supermercati, come avviene ora – dei decisori politici e dei pianificatori sociali, potremmo aver trovato un valido strumento in grado di gestire l’enorme complessità della società contemporanea. I Big Data sono in grado di rivelarci pattern che non saremmo in grado, altrimenti, di scoprire, e guidarci nell’individuazione dei pezzi guasti prima che il sistema vada in pezzi. Le simulazioni multi-agent based, integrando le strutture individuate dal data mining, possono permetterci di progettare modelli e strumenti in grado di prevedere gli eventi estremi, disinnescando la bomba prima che esploda. Sono strumenti estremamente complicati da utilizzare, ma proprio la complessità può salvarci dagli scenari peggiori che altrimenti ci troveremo ad affrontare una volta superati i limiti (umani) della complessità.
Per approfondire:
- Casti J., Eventi X. Eventi estremi e il futuro della civiltà, il Saggiatore, 2012.
- Tainter J., The Collapse of Complex Societies, Cambridge University Press, 1988.
- Taleb N.N., Il cigno nero. Come l’improbabile governa il mondo, il Saggiatore, 2007.
- Weisman A., Il mondo senza di noi, Einaudi, 2008.