Il dilemma antropico
A partire dalla rivoluzione copernicana, l’antropocentrismo è stato oggetto di una continua destituzione di fondamento cominciata con la “periferizzazione” della Terra – non più al centro del sistema solare, posto alla periferia della galassia, a sua volta una tra le centinaia di miliardi che compongono l’universo – e proseguita con la “banalizzazione” della specie umana, sviluppatasi attraverso un processo evolutivo identico a quello delle altre specie animali presenti sulla Terra. Divenuto assioma con il cosiddetto “principio di mediocrità”, secondo cui, su scala cosmologica, la fetta di universo in cui viviamo non ha nulla di speciale, l’anti-antropocentrismo è condiviso dalla maggioranza della comunità scientifica e sintetizzato dal biologo e filosofo Jacques Monod, nel suo classico Il caso e la necessità, come la dimostrazione che l’universo è insensibile all’esistenza del genere umano, frutto del puro caso, come “un numero uscito alla roulette” .
Questa convinzione è tuttavia scossa in tempi recenti da alcune scoperte nel campo della biologia, della fisica e della cosmologia. Sul primo versante – quello biologico – un numero crescente di studiosi dell’evoluzione e dell’origine della vita condivide la convinzione che l’esistenza di specie viventi sia tutt’altro che comune, e ancora meno comune sia da considerare l’emergere dell’intelligenza. Tali e tanti sarebbero gli ostacoli allo sviluppo della vita, che molto probabilmente il caso della Terra è destinato a restare unico nel suo genere. Sul secondo e terzo versante – quello fisico e cosmologico – le considerazioni a favore dell’unicità della vita sulla Terra sono riassunte sotto la definizione di “principio antropico”. I suoi assertori dimostrano che anche solo una piccola variazione dei valori posseduti dalle principali costanti di natura renderebbe impossibile l’esistenza della vita nel cosmo, per cui esisterebbe una sorta di sintonia fine (fine tuning) nella struttura dell’universo tale da favorire l’emergere della vita.
Eppure, resta il fatto che la vita, nell’universo, sembra piuttosto rara. Quasi certamente non ci sono forme di vita sugli altri corpi del nostro sistema solare; e al momento non abbiamo nessuna prova dell’esistenza di civiltà extraterrestri, benché sia ormai assodato che pianeti simili al nostro non siano affatto rari nell’universo.
Questo problema è noto come “paradosso di Fermi” e, per usare le parole del fisico Enrico Fermi, che lo pose per primo alla fine degli anni Quranta, si chiede, ammettendo che l’esistenza di vita intelligente sia comune nell’universo, dove siano tutti questi extraterrestri. Difatti, data l’età dell’universo, è estremamente probabile che una o più civiltà tecnologiche si siano sviluppate ben prima della nostra, finendo per espandersi in tutta la galassia, se non in tutto l’universo, in tempi relativamente brevi su scala cosmologica (pochi milioni di anni), anche senza superare la velocità della luce. Dovremmo dunque avere esperienza diretta dell’esistenza di civiltà extraterrestri, che invece non abbiamo ancora scoperto nonostante i progressi compiuti nell’ambito dei programmi SETI.
La teoria della rarità della Terra, il principio antropico e il paradosso di Fermi concorrono a formare quello che qui definiamo “dilemma antropico”: se non c’è nulla di speciale nella nascita e nell’evoluzione della vita fino allo sviluppo di un’intelligenza autocosciente, perché l’universo sembra essere fatto apposta per consentire la nascita della vita e, ciò nonostante, la vita intelligente sembra limitarsi alla sola specie umana.