L’evoluzione delle tecnologie del lavoro ha subìto, lungo tutto l’ultimo decennio, consistenti accelerazioni. Non che questa evoluzione, le cui prime grandi accelerazioni coincidono con la rivoluzione industriale, si sia mai fermata. Ma è in questa ultima decade che, tra ibridazioni tecnologiche e mutazioni organizzative, la tecnologia del lavoro ha ottenuto risultati spettacolari, tra fabbriche dove la presenza umana è molto limitata e start-up vendute al prezzo di decine di miliardi di dollari con personale estremamente limitato (Instagram ne è un esempio). Se vogliamo un’idea – tutta schiacciata sul rapporto diretto tra presente e passato – di cosa sia il rapporto tra tecnologie e lavoro in questi anni basta un paragone. Oggi, Google, in tutto il mondo, è stimata con un numero di dipendenti pari a 60.000: lo stesso numero di operai di una delle fabbriche di una multinazionale dell’auto, la Fiat alla fine degli anni Settanta (Mirafiori). Questo per dire che l’uso, e l’evoluzione, delle tecnologie del lavoro, e degli stessi prodotti del lavoro, ha enormemente ristretto la base produttiva dei grandi gruppi nel corso di pochi decenni. E, oltretutto, cambiato l’idea stessa di lavoro, i gruppi sociali che lo abitano, e persino il concetto di economia.
Ma un’altra questione ha davvero, in questi decenni che vanno dalla metà degli anni Settanta a oggi, cambiato di abito: quella del finanziamento delle tecnologie del lavoro. È di questo che qui ci occupiamo, del rapporto tra mutazioni nel finanziamento delle tecnologie del lavoro e loro evoluzione, tema che finisce, troppo spesso, nelle pieghe della letterature specialistica, quando invece si rivela centrale per capire le tendenze in atto nella nostra società in materia di evoluzione tecnologica del lavoro e di localizzazione dei poteri reali.
Per evitare una descrizione superficiale appiattita sui luoghi comuni da convegnistica mainstream, inutile quando si tratta di delinare scenari, si tratta quindi di delineare uno scenario dei conflitti finanziari e uno di evoluzione delle tecnologie del lavoro. I due scenari, come vedremo, sono strettamente collegati: perché la produzione di valore, tipica dei conflitti finanziari, tende naturalmente a occupare il campo del finanziamenteo delle tecnologie del lavoro.
In materia ci sono due luoghi comuni consolidati che vanno sicuramente rivisti. Il primo lo possiamo sintetizzare con l’espressione “i mercati sono in grado di correggersi da soli”. Una espressione non tanto romantica ma legata alla concezione che ciò che viene definito mercato è in grado, anche attraverso robusti ribassi, di regolare i propri stessi squilibri. Il secondo lo possiamo sintetizzare con l’espressione “le banche centrali sono in grado di governare gli squilibri del mercato”. Sono entrambe affermazioni dotate di un granello di verità, ma non di tutti i tasselli dello scenario. In situazioni storicamente decisive, dalla crisi delle dot.com in poi, il mercato è semplicemente crollato e le banche centrali si sono trovate ostaggio della logica dell’uscita, a tutti i costi, da questi crolli. Entrambe le convinzioni vedono comunque i mercati finanziari come luogo di scambi e di servizi dove, al massimo, euforia irrazionale e speculazione possono farsi sentire, prima di essere “corretti” dall’andamento stesso del mercato o dal comportamento regolativo delle banche centrali. Invece la realtà dei mercati è molto più movimentata e attraversata da conflitti finanziari, legati a logiche sia rialziste che ribassiste, di ogni genere.
Se vogliamo vedere quanto regge questa teoria del mercato che si corregge da solo, o della banca centrale che regola gli squilibri, bisogna registare qualche semplice, e spettacolare, dato. Il primo è che, dopo Lehman Brothers, su dati raccolti da Der Spiegel, il PIL globale era di 63 trilioni di dollari mentre i derivati finanziari, quelli in grado di scatenare violente crisi sui mercati, era di 601 trilioni di dollari. Dopo sei anni di “correzioni” dei mercati, e di interventi delle banche centrali (anche coordinati tra loro), le stesse fonti ci danno un PIL globale di 72,6 trilioni di dollari e un ammontare planetario di derivati pari a 710 trilioni. In poche parole, in oltre un lustro, nessuno dei due grandi regolatori degli squilibri del mercato, quello “naturale” e quello istituzionale, è stato in grado di frenare la crescita dei titoli a rischio. E la questione è viva anche in Europa dove, a fronte di un Pil europeo, nel 2015, di 14,6 trilioni di dollari, la sola Deutsche Bank deteneva titoli a rischio per 42 trilioni.
Di fronte a questo scenario, che è di forte rischio per l’economia e la società globali, emerge una teoria che spiega la crescita dei derivati come veri e propri effetti collaterali della guerra finanziaria: quella di predazione dei titoli sul mercato, gonfiando o sgonfiando artificialmente i prezzi, o tra soggetti forti del mercato stesso per l’egemonia (si ricorda che Bear Stearns era, nel 2007, la prima azienda nel mercato delle securities; fu attaccata dalle consorelle nella crisi e perse tutto). Si ricorda, oltretutto, che la guerra finanziaria, che non è solo distruzione ma anche costruzione di valore, non è questione odierna, ma strutturale. Nasce come Finanzkrieg, almeno come concetto, ovvero guerra finanziaria tra stati dell’Ottocento, si sviluppa come guerra al finanziamento delle fonti terroristiche, e oggi è riconoscibile come strumento della finanza privata per condizionare gli stati e i mercati. I conflitti finanziari, che non sono solo un fenomeno interno ai mercati ma determinano i ritmo del finanziamento delle tecnologie del lavoro, hanno diverse tipologie. Sicuramente si determinano come gioco sistematico, di rialzi e di ribassi, verso uno e più soggetti nel mercato azionario, obbligazionario, dei derivati e delle divise. Al fine di produrre quando più valore possibile in questo gioco oppure l’annichilimento delle risorse dell’avversario.
I conflitti finanziari possono poi svolgersi tra Stati, tra Stati e terroristi, tra hedge fund e Stati, tra soggetti finanziari, e fanno svolgere i derivati e i titoli a rischio in genere in modo esponenziale. Le evoluzioni tecnologiche (si pensi in passato alle dot.com) sono attraversate da questo genere di conflitti. I titoli di un’azienda tecnologica, quando passa la finanza di rischio, vengono infatti gonfiati per poi cadere grazie alle bolle. Le tecnologie del lavoro non sfuggono a questa legge, essendo appetibili come tutte le innovazioni, attirando grosse masse di investimento.
La bolla delle dot.com è, come detto, paradigma di questo processo. Un processo nel quale accaparrarsi le migliori tecnologie di evoluzione del lavoro significa impadronirsi di uno strumento che procede per ritmi di crescita dettati dall’aumento del valore su titoli innovativi. Tanto che oggi, oltre alle tecnologie del lavoro, si finanzia qualsiasi cosa che significhi innovazione (dai chip nel cervello ai viaggi su Marte). Innovazione, bolla, predazione e conflitti finanziari: tutto questo tocca il finanziamento delle tecnologie del lavoro. Con valori azionari che crescono quanto la tecnologia che innova.
In questo modo si svela la doppia natura del sapere se prezzato in borsa: di crescita (della tecnologia del lavoro) e di bolla (grazie ai conflitti che la generano speculando sulle tecnologie del lavoro ad alta intensità di capitale). Ma anche lo stesso mondo finanziario è investito dalle tecnologie del lavoro. Tanto che persino in quel settore il lavoro umano è sostituito da robotrading e High-Finance-Trading. L’innovazione tecnologica è così oggetto di finanziamento nei conflitti finanziari, e nei processi di predazione finanziaria,e strumento stesso di conflitto finanziario (si pensi all’HFT e alle guerre cibernetiche per la predazione finanziaria). Questa caratteristica delle tecnologie del lavoro si esercita, a sua volta, in un contesto dove le tecnologie a disposizione degli analisti finanziari crescono a un ritmo maggiore del numero di azioni a disposizione nei mercati globali.
A questo punto possiamo individuare tre tendenze nel rapporto tra conflitti finanziari e finanziamento delle tecnologie del lavoro:
- Il mondo finanziario si riproduce per bolle, con dolorosi effetti sociali, e tramite conflitti (schema antropologico della tenuta sociale tramite la guerra permanente).
- La tecnologia del lavoro si sviluppa, nella complessiva decrescita dell’investimento pubblico, seguendo i cicli delle bolle e dei conflitti finanziari.
- Anche nel mondo finanziario si risparmia lavoro tramite tecnologie con serie conseguenze, nel banking, nelle assicurazioni, nelle borse, nei mercati over-the-counter.
Da queste tre tendenze, che tendono a ripetersi, si possono individuare due scenari, non necessariamente alternativi tra loro, che si ripetono: l’emergenza di una teoria della guerra finanziaria, i cui titoli a rischio sono effetti collaterali dei conflitti finanziari e finiscono per alimentare il finanziamento delle tecnologie del lavoro e che portano verso il rischio di un effetto esplosione generalizzata; e l’emergenza di una dimensione di conflitto finanziario dove i grandi attori sono in grado – naturalmente non solo finanziando le tecnologie del lavoro – di condizionare Stati e mercati entro un scenario ciclico, o cronico, ma non apocalittico di crisi (come nella sequenza 1998-2001-2008-2012).
In questo contesto storico, le tecnologie del lavoro contribuiscono a far crescere uno scenario distopico globale. Questo significa che sono finanziate random secondo le esigenze di crescita del capitale globale (venture capitalism), che deve investire in tecnologie usando l’innovazione come leva per fare veloci, e grandi, trimestrali di cassa; ma che, allo stesso tempo, le tecnologie del lavoro subiscono un declino tendenziale dell’investimento pubblico (si vede la parabola storica del piano Juncker). Si tratta quindi di capire, nel momento in cui soprattutto le tecnologie del lavoro sono figlie di una finanziarizzazione ramdom (dal punto di vista scientifico) che è, a sua volta, prodotto delle dinamiche di valorizzazione della finanza nei conflitti, quale è la prospettiva di governance del futuro di questi processi, considerando l’egemonia del settore finanziario proprio in queste dinamiche di innovazione. E si tratta di capirlo su tre punti di vista: quello dei territori, quello dell’alternativa globalizzazione-deglobalizzazione, nella prevedibile permanenza di questa egemonia.
Il futuro del lavoro non è legato al rapporto tra potenzialità tecnologiche e mercato economico, o a esigenze scientifiche, ma all’evoluzione del legame tra fundraising nei conflitti finanziari e mutazione delle tecnologie del lavoro. Esiste quindi un evidente collo di bottiglia, creato dallo strumento finanziario, per determinare i processi di evoluzione tecnologica del lavoro. Tutto questo comporta un futuro della presenza del lavoro sul territorio segmentato tra nuove maquiladoras, centri di eccellenza, economia illegale ed economia del dono. La differenza tra territori, decisiva per stabilire se un territorio sta dalla parte delle nuove ricchezze o delle nuove povertà, la farà la maggiore presenza dell’uno o dell’altro segmento e il rapporto con il fundraising dei conflitti finanziari.
In questo modo, che si vada verso nuove stagioni del paradigma della globalizzazione o verso la deglobalizzazione, dove l’applicazione delle innovazioni si localizza, l’intermediazione finanziaria risulterà comunque strategica. E la differenza tra i territori la farà la presenza, o meno, dei segmenti innovativi nel nuovo panorama locale del lavoro.
In questo nesso tra conflitti finanziari, tecnologie del lavoro e territorializzazione di questi fenomeni si intravedono due scenari:
- I conflitti finanziari sono destinati a riprodurre enormi, se non devastanti squilibri. In modo fragoroso o lentamente. Finanziare le tecnologie del lavoro rimane un ottimo metodo per far crescere i fatturati in un ambiente globale finanziario conflittuale. Ma anche per alimentare crisi globali di difficile, se non impossibile, soluzione. In questo modo la crisi finanziaria, per le società, sembra somigliare più all’inquinamento strutturale del pianeta che ad altro fenomeno.
- Le tecnologie del lavoro, che liquidano più lavoro di quanto ne producono (cfr. Brnyolfsson e McAfee, 2015) sono finanziate secondo cicli dell’accumulazione in mondo finanziario conflittuale producendo una stabile instabilità nei mercati e sulla superficie sociale. Questa stabile instabilità, nonostante le dinamiche sfuggano sia agli attori di mercato che alle banche centrali, può anche riprodursi facendo danni nelle società ma senza arrivare al “Big One”.
In qualsiasi caso, negli scenari che emergono, i conflitti finanziari usano le tecnologie del lavoro come uno strumento per produrre valore. A differenza di altri settori, ad esempio l’immobiliare, le tecnologie del lavoro cambiano la stessa natura dei rapporti sociali, intervenendo nella produzione della ricchezza, anche nel mondo finanziario. Le modalità di finanziamento delle tecnologie del lavoro, legate alle esigenze di conflitto e predazione finanziaria, rendono questo settore particolarmente controverso. Oltretutto, il nesso finanza-tecnologie del lavoro può collocarsi in modo difforme sui territori (dove sopravvivono quelli che attirano innovazione), oppure darsi come agente della deglobalizzazione o, in alternativa, della globalizzazione. Insomma, un futuro molto movimentato quello del rapporto tra tecnologie del lavoro e loro finanziamento secondo le esigenze espresse dalla finanza moderna.
Bibliografia
- Brnyolfsson E., McAfee A., La nuova rivoluzione delle macchine, Mondadori, Milano, 2015.
- Cacciari S., Previsioni e guerra finanziaria: il mercato non è il mercato, “Futuri” n. 8, gennaio 2017.
- Ford M., Rise of the Robots, Basic Books, New York, 2016.
- Mc Quiggin J., Zombie Economics. How Dead Ideas Still Walk among Us, Princeton University Press, Princeton, 2012.
- Minsky H., Potrebbe ripetersi? Instabilità e finanza dopo la crisi del ‘29, Einaudi, Torino, 1982.
- Quiao L., Xiangsui W., Guerra senza limiti, La Goriziana, Gorizia, 1999.
- Rickards J., Currency Wars. The Making of the Next Global Crisis, Penguin Press, Londra-New York, 2012.