Immaginate che, al posto dei nostri occhi, possedessimo quelli dei gatti: non avremmo bisogno della luce artificiale per vedere al buio e risparmieremmo in tal modo non solo un bel po’ di corrente elettrica, ma anche tutte le conseguenze sull’ambiente che derivano dal nostro sempre crescente consumo di luce durante la notte e negli ambienti chiusi. In linea teorica la cosa non sembra troppo fuori dalla nostra portata: esistono primati che possiedono una vista simile a quella dei gatti, per cui basterebbe studiare il loro genoma e capire quali sono i geni che regolano le funzioni della vista; quindi, con le nuove tecniche di editing genico come l’ormai miracolosa Crispr, che ha letteralmente rivoluzionato la genetica negli ultimissimi anni, potremmo intervenire sul genoma di un essere umano per attivare o disattivare (“silenziare”) i relativi geni. Un’idea del genere è venuta in mente a S. Matthew Liao, bioeticista della New York University, e ai suoi due colleghi Anders Sandberg e Rebecca Roache dell’Università di Oxford. I tre si sono chiesti se esistono modi in cui potremmo usare l’ingegneria genetica sull’uomo per renderlo meno “impattante” sull’ambiente: una strategia inedita nella lotta contro il cambiamento climatico, che parte dal presupposto che i metodi finora impiegati – dagli incentivi economici per il passaggio alle fonti “verdi” ai disincentivi applicati su scala internazionale dal protocollo di Kyoto fino al più recente Accordo di Parigi – non sembrano portare i risultati sperati.
Immaginare l’evoluzione futura della specie non è un’attività nuova per la speculative fiction. Basti pensare a un romanzo d’avanguardia per l’epoca come Last and First Men di Olaf Stapledon, del 1930, o a un classico come More Than Human di Theodore Sturgeon, del 1953, o ancora al più recente Beggars in Spain di Nancy Kress (1991). Nel suo racconto Due mondi, lo scrittore italiano Francesco Verso immagina queste trasformazioni come risultato di interventi volontari dovuti al cambiamento climatico: la pratica di modificare il proprio genoma innestandovi geni di altre specie (“chimerismo”) viene sviluppata al massimo grado finché chi ha applicato quelle trasformazioni più in linea con la rapida trasformazione dell’ecosistema sopravvive all’estinzione di massa e, per tramite della selezione naturale, diventa progenitore di una nuova specie. Nel suo romanzo inedito in Italia 2312 (2013), Kim Stanley Robinson immagina che tecniche di human enhancement consentano alla nostra specie non solo di sopravvivere su una Terra devastata dal cambiamento climatico, ma anche su ambienti estremi del nostro Sistema Solare come Mercurio o Europa, senza necessariamente procedere a una terraformazione radicale, ma adattando invece l’organismo ad ambienti diversi.
Una specie eco-compatibile
Torniamo all’articolo di S. Matthew Liao, Anders Sandberg e Rebecca Roache a cui accennavamo in apertura, pubblicato nel 2012 sulla rivista Ethics, Policy and the Environment e subito rilanciato da interviste sul Guardian e su The Atlantic, che hanno sollevato un’ondata di indignazione e polemiche a non finire. Gli occhi di gatto sono solo una boutade a cui Liao accenna nell’intervista su The Atlantic, sollecitato dall’intervistatore a immaginare ipotesi estreme di ingegnerizzazione genetica eco-compatibile. Nel loro paper i tre studiosi prendono in considerazione soluzioni più “ordinarie” ma non meno controverse, che sembrano uscire da qualche romanzo di fantascienza. La prima riguarda il consumo della carne: sappiamo oggi che le emissioni di gas serra da parte degli allevamenti incidono in percentuali significative sul totale delle emissioni climalteranti, tra il 18 e il 51% a seconda delle stime, senza contare le conseguenze della riduzione dei polmoni verdi del pianeta a causa della crescente necessità di terra per gli allevamenti, il grande fabbisogno idrico e la riduzione della biodiversità. Soluzioni? Abitudini alimentari meno carnivore vanno da una dieta ricca di proteine provenienti da insetti anziché bovini, alla carne artificiale prodotta in laboratorio. Ma che cosa succederebbe se inserissimo nella carne un emetico, ossia una sostanza che induce il vomito? Oppure modificassimo il nostro sistema immunitario per sviluppare un’intolleranza alla carne simile a quella che abbiamo per il latte? Sarebbe un ottimo disincentivo al consumo di carne, ragionano i tre studiosi.
Seconda idea: sappiamo che all’aumentare del peso corporeo, aumenta il fabbisogno alimentare e quindi cresce l’impronta ecologica di un individuo, ossia il suo impatto sull’ecosistema. La crescita della popolazione e l’aumento del peso corporeo (per non parlare dell’obesità nei paesi occidentali) sono fattori che stanno incidendo significativamente nelle trasformazioni ambientali e nel depauperamento delle risorse naturali. Che facciamo quindi, ci mettiamo tutti a dieta? Sembra che davvero pochi di noi abbiano questa volontà di ferro, specialmente in un’epoca in cui il cibo è così facilmente disponibile e variegato (e ciò nonostante il fatto che test sui topi dimostrino che una sensibile riduzione del nostro apporto calorico aumenterebbe significativamente la nostra speranza di vita). Poiché il peso aumenta con il cubo dell’altezza, potremmo allora intervenire per ridurre l’altezza dei nuovi nati, così da non costringerli a diete ferree, ma semplicemente a ridurre naturalmente il loro fabbisogno rispetto a individui più alti. Abbassare l’altezza media degli occidentali di 15 centimetri ridurrebbe la massa corporea del 24% e di conseguenza il tasso metabolico scenderebbe tra il 15 e il 18%. Per ridurre l’altezza dei nascituri, si potrebbero impiegare le diagnosi genetiche pre-impianto per selezionare quegli embrioni che sappiamo cresceranno di meno; una simile soluzione vale però solo per coloro che usano la fecondazione artificiale. Per gli altri, si potrebbero somministrare inibitori dell’ormone della crescita, o far sì che il loro peso alla nascita sia più vicino al minimo inferiore, perché sappiamo che i bambini con un peso minore alla nascita cresceranno di meno.
Terza ipotesi: ridurre la popolazione mondiale convincendo le coppie ad avere non più di due figli. La commissione ONU che si occupa di studiare gli scenari del riscaldamento globale, l’IPCC, tiene conto nelle sue stime anche dell’andamento della crescita della popolazione nei prossimi decenni, poiché è noto che i due Paesi che più contribuiranno alla crescita delle emissioni climalteranti da qui alla fine del secolo saranno i due più popolosi del mondo, Cina e India. Politiche familiari restrittive sono state realizzate con esiti controversi in Cina, come è ben noto: ma soluzioni coercitive del genere sono contrarie al nostro senso della libertà individuale. Sappiamo però che la fecondità diminuisce al crescere dell’istruzione, soprattutto femminile. I tre studiosi, tuttavia, non prendono in considerazione i tradizionali suggerimenti riguardo l’investimento in istruzione e politiche di emancipazione femminile nei paesi in via di sviluppo, ed elaborano una nuova soluzione, che chiamano cognitive enhancement: invece di migliorare il nostro organismo, miglioriamo le nostre capacità intellettive attraverso interventi genetici ad hoc. Qui siamo ancora nel campo della vera fantascienza, non ci si spinge a ipotizzare come riuscirci. Però si potrebbero tentare approcci farmacologici più semplici. Per esempio, aumentando la produzione di ossitocina sembra che aumenti la propensione all’empatia e all’altruismo, che favoriscono comportamenti meno egoistici e più tesi a compiere sacrifici a favore della collettività e delle generazioni a venire.
Quest’ultima soluzione è definita moral enhancement: poiché è evidente che la causa della scarsa efficacia delle politiche di contrasto al cambiamento climatico risiede nell’egoismo dell’essere umano e nella sua incapacità di prendere scelte moralmente corrette, si potrebbe intervenire a livello biologico per renderlo più “accondiscendente” nei confronti del prossimo. Pillole o spray nasali consentono già oggi di aumentare la produzione di ossitocina con esiti interessanti nel comportamento umano. L’idea di obbligare la popolazione mondiale a una somministrazione quotidiana di queste pillole evoca certamente scenari che riecheggiano il Mondo nuovo di Huxley. In futuro, però, si potrebbe intervenire a livello genetico per far sì che produzione di quest’ormone da parte della ghiandola pituitaria aumenti naturalmente (esistono controindicazioni ben note per le donne in gravidanza, poiché oggi l’ossitocina è somministrata per favorire le contrazioni: ma sarebbe più semplice somministrare inibitori alle partorienti che stimolanti per l’intera popolazione mondiale vita natural durante).
Il futuro è dei biohacker?
Se siete rimasti più o meno scandalizzati da almeno una di queste proposte, siete in buona compagnia. L’articolo di Liao, Sandberg e Roach provocò reazioni indignate, accuse di eugenetica e di nazismo. Gli autori replicarono sottolineando che non avevano mai preso posizione a favore di nessuna delle ipotesi da loro profilate, né della desiderabilità di approcci genetici o biotecnologici nel contrasto al cambiamento climatico, ma solo di aver presentato alcuni scenari in una prospettiva di dibattito bioetico, suggerendo comunque che future soluzioni del genere debbano essere lasciate alle volontà individuali e mai imposte da un’autorità centrale in modo coercitivo. Per gli autori, soluzioni di human enhancement meritano comunque di essere prese in considerazioni alla stregua di quelle geoingegneristiche, se non più favorevolmente: perché mentre i danni collaterali della geoingegneria – ossia di progetti tecnologici su larga scala per raffreddare il pianeta o sequestrare il carbonio presente in atmosfera – avrebbero una diffusione planetaria, col rischio di compromettere l’abitabilità della Terra per generazioni, interventi limitati, non applicati a tutti gli individui ma adottati esclusivamente su base volontaria magari con incentivi statali, sul proprio organismo o sul proprio genoma, produrrebbero benefici rilevanti contenendo la portata di eventuali effetti collaterali ai soli individui sottoposti a questi trattamenti.
Del resto è proprio su base “volontaristica” che recentemente si stanno diffondendo sperimentazioni individuali di terapie geniche ancora in fase di test: con il crollo dei costi dei test di sequenziamento del genoma, e la facile e piuttosto economica disponibilità di strumenti come la Crispr per l’editing genomico, gruppi di biohacker stanno iniziando a diffondersi, con esiti imprevedibili. Probabilmente in futuro la nuova frontiera dell’ideologia DIY (Do it yourself) tipica dei makers si diffonderà anche all’ingegneria genetica: e, a meno di divieti rigorosi, attivisti e avanguardisti inizieranno a modificare la propria linea somatica (regolamentazioni rigorose contro la modifica della linea germinale sono invece già in fase di adozione a livello internazionale: gli interventi alla linea germinale sono infatti trasmissibili anche alle generazioni successive per riproduzione). Soluzioni come quelle prospettate da Liao, Sandberg e Roach potrebbero essere inizialmente adottate da gruppi ecologisti radicali, per poi estendersi su scale più ampie qualora i risultati si rivelino promettenti. È senz’altro da escludere, insomma, l’ipotesi che siano interi governi, anche di tipo più centralista rispetto alle democrazie occidentali (come la Cina o Singapore), ad adottare politiche di human enhancement vincolanti per il contrasto al cambiamento climatico. Resta il problema che interventi limitati a gruppi di individui rischierebbero di «accrescere le attuali ingiustizie sociali, consentendo a un gruppo di persone di acquisire una condizione morale superiore», producendo «una società divisa in caste», come paventa il bioeticista Maurizio Balistreri nel suo libro Il futuro della riproduzione umana (2016). Timori tipici della fantascienza: basti pensare ancora a Mendicanti in Spagna di Nancy Kress o al celebre film Gattaca (1997); il moral enhancement non era ancora un’ipotesi presa in considerazione all’epoca di queste storie, ma ciò dimostra ancora una volta che le potenzialità del progresso tecno-scientifico superano le nostre capacità di anticiparlo, anche attraverso strumenti radicali come quelli offerti dalla speculative fiction.
Ingegnerizzare la natura
Sul fronte dell’adattamento delle specie a una trasformazione del nostro ambiente ormai inevitabile – non sembrano esserci alternative a un aumento delle temperature medie del pianeta di 2° C entro la fine del secolo, con tutte le drammatiche conseguenze sull’ecosistema – l’ingegneria genetica può certamente rappresentare un’arma in più. Se anche non fosse impiegata sull’Uomo, di certo potrebbe essere impiegata su altre specie viventi senza troppi problemi sul versante bioetico, anzi in base all’etico principio secondo cui tocca alla nostra specie, responsabile della “sesta estinzione di massa”, trovare il modo di salvare quelle minacciate dall’estinzione. Già la Svalbard Global Seed Vault realizzata nelle isole Svalbard, in Novergia, è un tentativo di salvare la biodiversità messa a rischio non solo dal cambiamento climatico, ma anche dall’agricoltura intensiva, attraverso una “banca genetica” dei semi di tutto il mondo. Se in futuro una specie vegetale dovesse essere dichiarata estinta, sarà possibile riportarla in vita nuovamente partendo dal tesoro custodito gelosamente sotto le nevi delle Svalbard. Simili strutture, più piccole e meno ambiziose, stanno iniziando a diffondersi negli zoo, sempre più prossimi a diventare istituzioni per la conservazione delle specie a rischio. All’Istituto di Ricerca per la Conservazione dello zoo di San Diego ci sono provette che conservano sotto azoto liquido linee cellulari di oltre mille specie, la maggior parte ancora viventi, ma alcune ormai estinte; una copia identica di questo “Frozen Zoo” – una copia di backup – è custodita in una località segreta. Da qui si potrebbe ripartire per riportare in vita quelle specie animali e vegetali che la sesta estinzione di massa farà scomparire nei prossimi anni.
Ma si potrebbe intervenire anche preventivamente: di nuovo, la Crispr è già oggi sperimentata su piante e alimenti per renderli resistenti ai cambiamenti climatici, sulla base dello stesso principio che ha condotto alla creazione degli OGM (gli organismi transgenici), ma con la differenza che in questo caso non si innestano geni provenienti da altre specie, ma ci si limita a silenziare o esprimere geni presenti nel proprio genoma. La biologa molecolare Rachel Levin ha suggerito per esempio di utilizzare la Crispr sulla barriera corallina, minacciata dall’acidificazione degli oceani, che rallenta i naturali processi di calcificazione, e dal riscaldamento dei mari, che mette a repentaglio il processo di fotosintesi dei microbi che abitano nei coralli e che producono il cibo di cui le colonie si nutrono. Gli scienziati conoscono esemplari di questi microbi, Symbiodinium, che possono sopravvivere a temperature maggiori: una volta individuati i geni responsabili di questa resistenza in tali esemplari, si potrà intervenire negli altri impiantando i geni della termoresistenza; in tal caso, spiega Levin, i microbi si troverebbero ad avere semplicemente una copia extra di un gene che già possiedono. Vulcan, una compagnia dal co-fondatore di Microsoft, Paul Allen che supporta progetti per promuovere la conservazione degli oceani, sta finanziando un progetto di durata quinquennale per la promozione della “evoluzione umano-assistita” nella barriera corallina: la nostra tecnologia messa al servizio delle altre specie per accelerare il loro adattamento a un ambiente trasformato dall’Uomo.
L’idea più fantascientifica è venuta in mente a Sergey Zimov, geofisico ed ecologo russo che ha fondato l’iniziativa del “Pleistocene Park”, in Russia. Zimov ha studiato a lungo il problema dello scongelamento del permafrost dovuto all’aumento delle temperature in Russia, che sta già ora liberando enormi quantità di metano fossile sepolto al di sotto di quello che una volta credevamo essere ghiaccio perenne. La liberazione del metano al di sotto del permafrost è un problema che non fa dormire la notte molti climatologi, perché alcune stime sostengono che un rilascio massiccio di questi gas fossili produrrebbe un’accelerazione dell’effetto serra tale da superare le più fosche previsioni sul cambiamento climatico. Secondo Zimov, si potrebbe ovviare al problema trasformando la tundra in terreno da pascolo, poiché i prati costituiscono gli ecosistemi più efficienti per il sequestro del carbonio atmosferico e garantirebbero un maggiore isolamento del permafrost nei mesi invernali. L’assenza di grossi animali in grado di compattare e rimuovere gli stati di neve invernale che costituiscono la tundra e la taiga impedisce al freddo estremo dell’inverno di penetrare nel suolo, mantenendo il permafrost alle giuste temperature. Eppure, una volta questi grossi animali esistevano, e forse siamo stati noi a estinguerli: Zimov sta parlando dei mammut.
Con l’ingegneria genetica, riportare in vita il mammut lanoso sembra un obiettivo alla nostra portata. Il suo genoma era quasi identico a quello del suo parente più prossimo, l’elefante asiatico. È possibile introdurre geni che esprimono i tratti somatici del mammut lanoso nel genoma dell’elefante asiatico per creare una specie in grado di tornare a popolare le alte latitudini, trasformando nuovamente la tundra e la taiga in vaste praterie e mantenendo il permafrost sotto di esse ben congelato. Se fino a pochi anni fa quello di riportare in vita il mammut sembrava un’idea bizzarra degna di Jurassic Park, oggi la finalità legata al cambiamento climatico ha aperto generosi finanziamenti all’Harvard Woolly Mammoth Revival team guidato dal genetista George Church. Il team di Church, finanziato anche da realtà come la Long Now Foundation, fondazione californiana attiva in progetti di lunghissimo termine diretta dal futurologo e ambientalista Stewart Brand, sta cercando di isolare nel genoma del mammut quei geni responsabili della sua sopravvivenza in ambienti freddi, al fine di trasferirli poi nel genoma degli elefanti asiatici. Il Pleistocene Park di Zimov, una riserva naturale di 160 km2 nella Siberia nordorientale, è già pronto a ospitare i primi esemplari.
Le insidie del pensiero soluzionista
Per chi ha solo un martello, ogni problema sembra una chiodo: così Evgenij Morozov definisce, in parole povere, il “soluzionismo tecnologico”, di cui è il principale teorico e critico. Per chi è avvezzo a trovare soluzioni disruptive attraverso la tecnologia a ogni tipo di problema – dalla ricerca del parcheggio all’estensione della speranza di vita – il cambiamento climatico non è che l’ennesimo problema a cui applicare il soluzionismo tipico della Silicon Valley. Non è un caso che tra i principali profeti della geoingegneria o dello human enhancement ci siano proprio i “signori del silicio”, i miliardari tecnocrati i cui imperi finanziari si basano su app digitali e software performanti. E non è un caso che molti di loro abbiano scelto in un primo momento di prestare servizio come consulenti dell’amministrazione Trump, scettico del cambiamento climatico: non perché condividano lo scetticismo trumpiano, ma perché dal loro punto di vista il problema del clima può essere risolto in modo diverso da quello tradizionale fatto di accordi intergovernativi, sanzioni e incentivi. La logica disruptive del soluzionismo può e deve essere applicata anche in questo ambito: chiediamo alla tecnologia di risolvere il problema del cambiamento climatico o, se non è già più possibile, perlomeno di minimizzare i danni.
Parlavamo prima di DIY, la filosofia dei makers: un pioniere come Stewart Brand, l’ideatore negli anni Sessanta del fortunato Whole Earth Catalogue, poi fondatore della già citata Long Now Foundation, è uno dei convertiti alla geoingegneria, da antesignano dell’ambientalismo, come scrive nel suo libro Whole Earth Discipline: An Ecopragmatist Manifesto (2011). Quella logica libertarian che si nasconde dietro l’approccio DIY si è trasformata oggi in una filosofia che auspica l’approccio soluzionista della tecnologia ai grandi problemi del nostro tempo, inclusa la sesta estinzione di massa innescata dalla nostra civiltà. Non c’è differenza tra hackerare un computer, ossia giocare col codice sorgente del suo sistema operativo, modificarlo a proprio uso e consumo aggirando la sua programmazione di partenza, e hackerare l’ambiente o il corpo umano. Le soluzioni che qui abbiamo preso in considerazione si basano su questa filosofia. Se il piano A ha fallito, iniziamo a pensare al piano B: mettiamo a disposizione l’ingegno umano per adattare l’ecosistema e la nostra specie ai mutamenti climatici che ci attendono. Se poi tutto andrà male, prepariamoci al piano C: emigrare su Marte dopo averlo terraformato e ricominciare da capo con un pianeta di backup, come sogna Elon Musk.
Un critico come Morozov ha intravisto prima degli altri le insidie del soluzionismo. Se accettiamo l’idea che la tecnologia possa risolvere tutti i nostri problemi, non c’è più bisogno né di etica né di politica: né di etica, perché dopotutto in futuro il moral enhancement potrebbe potenziare la nostra etica con pillole di ossitocina, o magari stimolazioni dirette alla corteccia cerebrale; né di politica, perché se i negoziati tra governi non sono riusciti a mitigare il cambiamento climatico, allora la politica ha fallito e bisogna lasciar fare alle tecnologie. Morozov discute del soluzionismo delle app del web e delle start-up digitali, applicate a problemi sociali come la raccolta differenziata, in cui anziché puntare sul senso civico dei cittadini li si incoraggia a differenziare attraverso strumenti di gamification, per esempio crediti in cambio di ogni bottiglia di plastica riciclata. Ma è chiaro che la stessa filosofia si nasconde dietro l’idea di immettere grandi quantità di aerosol in atmosfera per riflettere i raggi solari, per non parlare di grandi specchi nello spazio; o di usare l’ingegneria genetica per renderci più bassi così da ridurre il nostro apporto calorico, anziché stimolarci a una dieta più sana ed equilibrata e meno impattante sull’ambiente.
Nella Silicon Valley si parla di Yankee ingenuity, ingegno yankee, alla base del grande progresso tecnoscientifico americano, esportato poi in tutto l’Occidente. La Yankee ingenuity ha sempre risolto tutti i problemi, anche quando le cose sembravano mettersi male, come all’epoca delle vittorie dell’Asse nella Seconda guerra mondiale: nel peggiore dei casi, il Progetto Manhattan avrebbe messo a disposizione un martello più che sufficiente per schiacciare tutti i chiodi. Ma il ricorso all’ingegno al posto del buon senso non necessariamente dev’essere la soluzione. Dietro questo pensiero c’è l’idea che si possa fare tutto quello che si vuole, tanto ci sarà sempre un modo per rimettere a posto le cose. Perché preoccuparsi delle conseguenze? Per risolvere il problema dell’obesità, potremmo in futuro affidarci alle biotecnologie per stimolare un’intolleranza alla maggior parte degli alimenti, anziché fare affidamento sulle nostre capacità di autocontrollo o aumentare le ore di attività fisica. In quest’ottica, invece di cercare un modo per accelerare la transizione da un’infrastruttura basata sui combustibili fossili a una basata sulle fonti pulite, il problema va spostato: lasciamo che i gas climalteranti continuino a essere immessi in atmosfera e adattiamo l’ecosistema e noi stessi al nuovo stato di cose. Se il clima sta diventando sempre più simile a quello che esisteva all’epoca dei dinosauri, allora impariamo dai dinosauri. Se le specie si estinguono, salviamo il loro genoma per poterle ricreare a tempo debito. Se il permafrost si sta sciogliendo, riportiamo in vita i mammut per ripopolare la taiga siberiana. Se si tratti di ingegnosità, o di ingenuità, è solo questione di punti di vista.
Questo articolo è l’adattamento del saggio uscito in Antropocene. L’umanità come forza geologica a cura di Roberto Paura e Francesco Verso, 2018.
Bibliografia
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