Uno dei fattori che attualmente incide sul rapporto tra legge, sovranità e territorio è la rilevanza acquisita, nel corso degli ultimi cinquant’anni, da organizzazioni sia pubbliche che private le quali, pur operando a livello sovranazionale, hanno la capacità di intervenire nei processi decisionali nazionali e internazionali, influenzando la scelta delle politiche da implementare anche a livello locale. La centralità ottenuta da tali organizzazioni ha determinato «il distacco delle autorità di regolazione da un territorio specifico» (Brӧlmann, 2007), minando il concetto di «sovranità territoriale» (Kritsiotis, 2009) e lo stesso paradigma Vestfaliano.
In proposito, è stato rilevato che «l’attività svolta dalle global governance organizations (GGO) sembra interferire sempre di più con l’autorità dei governi nazionali» (Cooper et al., 2008), al punto da sostituire alle tradizionali modalità di governo della cosa pubblica (government), modelli di regolamentazione di derivazione precipuamente aziendale (governance). La governance è caratterizzata da processi decisionali privi di legittimità democratica e di strumenti che assicurino un efficace controllo sui relativi attori, tale da garantirne la responsabilità politica e talvolta anche giuridica. Infatti, «il concetto di global governance è basato sull’idea che l’esercizio dell’autorità, in una dimensione globale, si svolga al di fuori delle strutture legali e istituzionali tradizionali» (Oddenino, 2015).
È stato autorevolmente sostenuto che «governance is not only an affair of public actors» (von Bogdandy et al., 2010). In realtà, questa affermazione ha l’effetto di minimizzare la rilevanza del fenomeno, giacché attualmente la global governance rappresenta uno spazio i cui protagonisti sono principalmente organizzazioni private o a carattere tecnocratico. Uno spazio contraddistinto dal progressivo affievolirsi del dibattito politico e del confronto tra le parti sociali in favore di decisioni a carattere «tecnico» e apparentemente imparziali «esemplificative dell’infiltrazione di modalità di pensiero aziendali nell’ambito della sfera politica in senso ampio» (Engle Merry, 2011). Maggiori sono i vuoti legislativi su una determinata materia, tanto più ampi sono gli spazi occupati dai soggetti privati che operano attraverso le modalità tipiche della governance. Risulta dunque necessario elaborare strumenti e meccanismi idonei a sottoporre a differenti tipi di responsabilità l’attività di regolamentazione svolta da tali soggetti, il cui inquadramento come soft law non permette di coglierne a pieno gli effetti concreti di carattere economico, politico e sociale.
Il passaggio da government a governance: implicazioni per la democrazia
Il processo sin qui descritto non contrappone semplicemente due diverse modalità di elaborazione normativa – legislativa per gli Stati-nazione e regolatoria in riferimento allo spazio sovranazionale – ma è in grado di determinare un mutamento nella forma di governo. La democrazia come forma di governo innesta le sue radici negli Stati-nazione, segnatamente in quelli contraddistinti dalla presenza di costituzioni democratiche idonee a garantire il pieno compimento della sovranità popolare e dunque «della democrazia stessa, quale fondamento di ogni potere pubblico» (von Bogdandy, 2004).
Mentre il diritto internazionale assicura la sovranità nazionale da indebite influenze esterne, la globalizzazione pone verso di essa una grave minaccia. Infatti, la creazione di un quadro regolatorio sovranazionale, specialmente in materia economica e finanziaria (trattati, istituzioni e raccomandazioni vincolanti giuridicamente e de facto) ha determinato la fusione dei sistemi economici nazionali in una sola economia globale. Il crescente bisogno di cooperazione tra gli stati ha interessato anche settori diversi (es. lotta al crimine organizzato e al terrorismo, tutela dell’ambiente ecc.). Ciò ha determinato la creazione di trans-governmental networks «volti allo scambio di informazioni, al coordinamento tra le politiche nazionali e alla cooperazione per la risoluzione di problemi comuni» (Slaughter, 2003).
In questo modo è venuta a crearsi una frattura tra rule-takers e rule-makers. I sistemi democratici prevedono strumenti attraverso i quali i primi controllano il modo in cui il potere viene esercitato dai secondi e allo stesso tempo rendono note a essi le proprie preferenze. Diversamente, lo scenario regolatorio globale è caratterizzato dalla mancanza di istituzioni pubbliche capaci di replicare questa relazione anche a livello sovranazionale. Il risultato è «la diffusione di modalità regolatorie private e informali in un numero sempre più vasto di aree di pubblico interesse» (Bellamy e Barry Jones, 2000).
Secondo il sociologo e filosofo tedesco Niklas Luhmann, abbiamo assistito a un processo di globalizzazione che ha interessato diversi settori delle società nazionali ed è culminato nella nascita di una società globale e di un sistema politico globale. In realtà, è proprio la mancanza di questi ultimi due elementi ad aver delineato la globalizzazione come uno spazio regolatorio privo di efficaci istituti democratici. La globalizzazione ha drasticamente ridimensionato il ruolo della società e della politica nazionale, senza fornire strumenti analoghi sul piano sovranazionale. In altre parole, l’integrazione “negativa” che ha interessato il mercato tramite l’eliminazione di confini fisici, dazi, barriere non tariffarie, non è stata accompagnata da una integrazione “positiva” fondata sulla partecipazione politica e sui diritti fondamentali. Ciò ha segnato un’ulteriore frattura, sul piano sociale, tra «quelli che hanno accesso ai vantaggi derivanti da questo quadro globale e interdipendente e coloro i quali sono lasciati ai margini dello stesso» (Benner, Reinicke e Witte, 2004).
Criticità delle GGO: il caso degli indicatori
Ciò che desta preoccupazione è principalmente l’asimmetria tra la facilità con cui l’attività delle GGO influenza processi legislativi nazionali e comportamenti individuali e la difficoltà di rintracciare strumenti idonei a indirizzare la stessa verso gli interessi della collettività e ad assoggettare i suoi protagonisti a qualche forma di responsabilità. Le prime fasi di sviluppo della global governance erano state contraddistinte dal cosiddetto club-based model, ossia dalla presenza di organizzazioni intergovernative o comunque da attori in qualche modo collegati agli Stati e da essi monitorati (si pensi alle organizzazioni scaturite dagli accordi di Bretton Woods). A partire dagli anni Novanta, nuovi attori sovranazionali, caratterizzati da strutture e scopi diversi, si sono affiancati alle tradizionali organizzazioni di matrice governativa. Ad esempio, le giant corporations (Crouch, 2011) hanno assunto un ruolo di primo piano nell’influenzare le politiche nazionali con riguardo a fondamentali settori come la salute, l’ambiente e il lavoro, riuscendo persino ad aggirare quel nucleo di prescrizioni minime volte a garantire il funzionamento del libero mercato stesso. Esse, seppur formalmente sottoponibili alle legislazioni nazionali in quanto soggetti di diritto privato, godono di un potere economico e di un’influenza verso i governi tale da eludere le responsabilità politiche e giuridiche derivanti dalla propria attività.
Vi sono poi organizzazioni diverse, la cui natura legale è più sfumata, che svolgono attività regolatoria o di monitoraggio relativamente a settori e finalità di pubblico interesse. Pur agendo attraverso strumenti non legalmente vincolanti strictu sensu, esse sono comunque capaci di influenzare e indirizzare i processi politici nazionali. Il quadro contemporaneo, dunque, risulta estremamente eterogeno e frammentato e si caratterizza per «l’inaccessibilità dei processi regolatori alla collettività, l’apparente sproporzione tra l’influenza di cui godono i diversi attori e l’oscurità dell’attività svolta» (Koppel, 2010).
Emblema di queste problematiche sono i cosiddetti indicatori, impiegati frequentemente sia a livello nazionale che sovranazionale. Essi sono il frutto della raccolta di «dati che vengono classificati e organizzati al fine di rappresentare le perfomance conseguite o prospettate da determinate unità» (Davis, Kingsbury e Engle Merry, 2012). Sostanzialmente, gli indicatori vengono usati da organizzazioni private per comparare e valutare le prestazioni che queste “unità” (principalmente Stati o altri soggetti pubblici, meno frequentemente attori privati) raggiungono in un certo ambito o nello svolgimento di una determinata attività. Hanno dunque il pregio di restituire, attraverso dati numerici, una rappresentazione chiara e sintetica di fenomeni complessi, trasformandoli in know-how di pronto utilizzo e garantendo il miglior rapporto costo-efficacia. È facile intuire come questa caratteristica, in una fase storica nella quale i processi legislativi e amministrativi tendono sempre più spesso a mutuare elementi caratteristici della dimensione aziendale, sia risultata cruciale per la diffusione degli indicatori. Infatti, è a partire dagli anni Novanta che lo strumento è stato impiegato in maniera diffusa, sino al punto che attualmente si contano almeno 140 gruppi di indicatori (cfr. Arndt e Oman, 2006).
La linearità delle informazioni ottenute attraverso l’utilizzo degli indicatori presenta però un lato oscuro: essi infatti nascondono tutto ciò che si trova sotto la superficie, cancellano le sfumature e semplificano eccessivamente i fenomeni oggetto dell’analisi. Sovente accade che «dati parziali e incompleti vengano uniti in maniera tale da produrre un risultato apparentemente coerente» (Davis, Kingsbury e Engle Merry, 2012). Inoltre, i criteri in base ai quali i dati sono selezionati, classificati e valutati risultano spesso non specificati.
Innanzitutto, si riscontra una grave mancanza di trasparenza. Per esempio, i dati usati per formare set di indicatori come i KKZ[1] o i CPI[2], utilizzati da Freedom House – celebre ONG impegnata in tema di libertà politiche e diritti civili – non risultano comparabili nel corso del tempo, giacché non rivelano i punteggi assegnati agli Stati su ciascuno dei temi analizzati nella sua singolarità e a causa del mutamento di coloro che stabiliscono le metodologie dell’analisi e formano i punteggi. Anche nel caso dei CPIA[3], i report esplicativi dei criteri sulla base dei quali vengono assegnati i valori che contribuiscono a determinare i punteggi finali non sono resi pubblici.
In secondo luogo, maggiore chiarezza sarebbe opportuna quanto alla natura dei dati scelti, alle modalità tramite cui vengono selezionati e ai soggetti che si occupano della relativa attività. Se gli individui possono rappresentare la realtà in base al proprio background etnico, politico o sociale, non vi è ragione per ritenere che gli indicatori da essi prodotti siano al contrario “oggettivi”. Paradossalmente, si finisce per ritenere “non oggettive” analisi pur caratterizzate da un alto livello di dettaglio, poiché influenzate dal pregiudizio della soggettività, e si reputano invece affidabili gli indicatori, i quali risentono degli stessi bias cognitivi di coloro che hanno contribuito a formarli e in più difettano di trasparenza circa le modalità di utilizzo.
La natura tutt’altro che tecnica degli indicatori è testimoniata anche dalla scelta degli standard in riferimento ai quali essi fungono da strumento di valutazione. Questi sono selezionati a priori e dunque in maniera del tutto astratta rispetto alle condizioni materiali degli attori a cui saranno applicati, al punto tale da avere l’effetto di «una teoria auto-avverante su come le attività di regolamentazione e di amministrazione dovrebbero essere condotte per ottenere un modello di società che si avvicini quanto più possibile ad un modello ideale» (Davis, Kingsbury e Engle Merry, 2012). Per esempio, fino agli anni Sessanta il PIL è stato considerato l’unico dato in grado di misurare il livello di sviluppo di uno Stato, mentre altri indici quali il tasso di occupazione, la distribuzione del reddito e l’accesso alla giustizia erano sistematicamente ignorati. Talvolta, gli indicatori finiscono per creare le stesse categorie della loro analisi, come è accaduto con la categoria degli «Ispanici», creata dall’U.S. Census Bureau per indicare gli individui provenienti dal alcune nazioni del cento e sud America.
È possibile democratizzare la global governance?
La questione relativa a come garantire trasparenza e partecipazione è ampiamente dibattuta e può essere risolta diversamente in base all’individuazione di coloro ai quali viene riconosciuta l’autorità di rivendicare teli pretese. In merito, è possibile distinguere due modelli (Grant e Keohane, 2015): nel primo (delegation model) è un numero ristretto di soggetti a legittimare il conferimento del potere e a vigilare sul corretto esercizio dello stesso; invece, nel secondo (participation model) la legittimità dei pubblici poteri si basa sulla partecipazione, per cui ciascuno dovrebbe poter dare il proprio contributo in merito a situazioni che lo riguardano direttamente. Pertanto, la legittimazione a pretendere trasparenza da parte di chi detiene il potere spetta a chiunque sia sottoposto alle relative decisioni.
Assumendo come punto di riferimento il primo modello, possono senz’altro essere individuate alcune forme di responsabilità, derivanti dal fatto che ciascuna GGO presente sullo scenario globale deve relazionarsi con altri soggetti il cui giudizio può influenzarne l’azione. Ad esempio, la market accountability è basata sull’idea che, così come gli investitori effettuano le proprie scelte riferendosi all’affidabilità creditizia di cui uno Stato gode, anche i consumatori possono orientare le proprie preferenze sulla base della reputazione di un brand misurata in termini di rispetto dei diritti dei lavoratori, impatto ambientale e garanzie per i consumatori. La financial accountability invece interessa principalmente quelle GGO finanziate da stati o privati, i quali valutano con grande attenzione finalità ed efficacia dell’attività svolta dai donatari. Ancora, una professional/peer accountability può derivare da valutazioni reciproche effettuate da soggetti appartenenti allo stesso settore e dalla redazione di codici deontologici di settore la cui osservanza testimoni l’affidabilità del soggetto interessato.
È innegabile che forme di responsabilità quali quelle appena citate rappresentino la soluzione di più immediata attuazione. Considerando uno scenario globale privo di istituzioni pubbliche dotate di legittimità democratica e di efficacia vincolante, non sorprende che gli strumenti più efficaci per il controllo dell’attività svolta dalle GGO siano quelli che prevedono conseguenze di natura economica. Cionondimeno, nel perseguimento del più ambizioso risultato della democratizzazione della governance globale, la configurazione di queste forme di responsabilità risulta insufficiente, ponendoci di fronte a un ibrido, una «democrazia apparente» (Kehoane, 2015) caratterizzata da alcune forme e dalla retorica della democrazia, ma sostanzialmente funzionante sulla base di processi regolatori diversi e soprattutto indirizzata verso finalità differenti. Infatti, ciò che contraddistingue l’esercizio di un potere pubblico è «l’adozione di atti che, pur incidendo sulle libertà di alcuni, perseguono un interesse collettivo» (von Bogdandy, Goldmann e Venzke, 2017). Parimenti, «la dimensione pubblica si caratterizza per la rivendicazione di leggi scritte dalla società civile nel suo complesso, in quanto incentrate su questioni rilevanti per la comunità» (Kingsbury, 2009).
Secondo Diamond (1994), la società civile assolve a una duplice funzione: limitare il potere dello Stato (garantendo le libertà individuali) e al tempo stesso legittimarlo, se esso è fondato sullo stato di diritto. In particolare, egli distingue la “società civile” dalla società intensa in senso generico, in quanto la prima «si caratterizza per l’agire collettivo nella sfera pubblica al fine di esprimere interessi, passioni, idee, scambiare informazioni, ottenere obiettivi comuni, rivolgere richieste alle istituzioni statali e monitorare l’attività svolta dai pubblici ufficiali» (Diamond, 1994). Pur nella consapevolezza degli ostacoli che potrebbero frapporsi al tentativo di trapiantare sullo scenario globale un attore come la società civile – così legata a schemi tipici delle forme di governo democratiche – parte della critica ritiene senz’altro concepibile che essa possa svolgere un ruolo maggiore a livello internazionale. Mentre nelle democrazie nazionali i sistemi elettorali garantiscono a ogni cittadino un minimo potere di influenza sui processi normativi, non altrettanto può dirsi circa lo scenario globale. Ad esempio, risulterebbe difficile assicurare un pari livello di inclusività in relazione alle decisioni assunte da istituzioni come l’FMI o l’OCSE, le cui risoluzioni impattano in concreto sulla vita di centinaia di milioni di individui. Cionondimeno, il riconoscimento alla società civile di un ruolo più ampio sullo scenario globale è di fondamentale importanza, non solo in vista della auspicata democratizzazione della global governance ma anche perché in grado di rendere più incisive quelle forme di responsabilità già menzionate, basate perlopiù sulla reputazione.
Per quanto riguarda il primo e più ambizioso obiettivo, la società civile può svolgere un ruolo decisivo nell’implementazione di modelli decisionali democratici all’interno dello spazio della global governance attraverso attività finalizzate a formare e sensibilizzare l’opinione pubblica. È pacifico che nessuna democrazia sia in grado di funzionare in maniera appropriata in mancanza di un’opinione pubblica consapevole e la società civile può funzionare da megafono delle richieste della società, in particolare di quelle provenienti dalle fasce più vulnerabili della popolazione e dalle minoranze.
Naturalmente, un’opinione pubblica maggiormente consapevole riuscirà progressivamente a mettere in questione in maniera più efficace gli schemi della global governance e a immaginare un loro rimodellamento. Per esempio, monitorando le politiche delle GGO e svolgendo attività di lobbying affinché le stesse perseguano determinati obiettivi, la società civile può implementare la loro public accountability. La stessa funzione di monitoraggio potrebbe essere finalizzata all’ottenimento di maggiore trasparenza nell’attività delle GGO, in gran parte non soggetta ad alcun tipo di controllo pubblico.
Si aggiunge una ulteriore considerazione: la centralità della società civile nei processi regolatori può conferire maggiore legittimità agli attori dai quali tale attività regolatoria promana. Infatti, gli individui tendono a conformarsi con più facilità ai precetti dettati da un’autorità, quando la riconoscono come legittima. Pertanto, «una legitimate governance trova un riconoscimento più ampio e immediato, senza la minaccia della violenza, rispetto a una autorità percepita come illegittima» (Scholte, 2001). L’importanza dello svolgimento di questa pluralità di funzioni da parte della società civile è sottolineata anche da Jürgen Habermas, nella cui teoria della democrazia deliberativa si ipotizza l’esistenza di una «società civile transnazionale che funga da cintura di trasmissione tra la sfera pubblica e i luoghi in cui vengono assunte le decisioni […] contribuendo a rendere note preferenze e opinioni della parti sociali» (Erman, 2018).
Proprio allo scopo di rafforzare quanto possibile la funzione svolta dalla società civile nello scenario globale, alcuni autori immaginano la creazione di un organismo permanente che rappresenti la società civile su scala sovranazionale. Nello specifico, una Global People Assembly (GPA) con lo scopo di attirare l’attenzione degli Stati verso interessi collettivi e strutturata in maniera tale da superare i meccanismi tradizionali che contraddistinguono la cooperazione intergovernativa, dove i governi hanno una posizione di preminenza. La GPA troverebbe legittimazione nella sua stessa natura, giacché rappresenterebbe l’unico organo democratico esistente a livello globale e sarebbe in grado di promuovere il rispetto dei diritti umani e implementare quella che Falk (1998) definisce humane governance. Un simile scenario comporta il superamento della tradizionale democrazia rappresentativa, dove l’impatto delle scelte dei cittadini è limitato al momento elettorale, a favore della cosiddetta responsible sovereignty fondata su una cittadinanza attiva e consapevole e pertanto protagonista nei processi decisionali.
È probabile che inizialmente gli Stati e gli altri attori della global governance possano non riconoscere la legittimità della GPA. Per questa ragione essa potrebbe configurarsi, in un primo momento, quale istituzione non vincolante, alla stregua di una NGO o dell’Assemblea Generale della Nazioni Unite. Falk ipotizza un percorso progressivo: «Il fatto che milioni di persone parteciperebbero alla scelta dei loro rappresentanti garantirebbe alla GPA una discreta autorevolezza, oltre che l’attenzione dei media […]. Nella veste di unico corpo elettivo globale, potrebbe diventare molto utile la società civile, nonché per alcuni governi e per altri portatori di interessi, desiderosi di legittimare i propri obiettivi politici […]. La crescente importanza dell’organo determinerebbe un ulteriore incremento dell’attenzione da parte dei media quanto alle sue attività e decisioni, rendendo così i cittadini consapevoli del suo ruolo e accrescendone l’influenza […]. Col passare del tempo, alcuni governi di stampo progressista potrebbero attribuire efficacia di legge alle risoluzioni della GPA, determinandone la vincolatività tanto a livello domestico che a livello sovranazionale» (Falk, 2000).
Da un lato, nascendo come organo non vincolante, la GPA acquisirebbe facilmente rilevanza (si pensi al caso dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), godendo inoltre di ampia autonomia dagli Stati; dall’altro, quale unico organo rappresentativo sullo scenario politico globale, essa diventerebbe rapidamente un punto di riferimento per tutti gli attori della global governance interessati a colmare i vuoti di democrazia a essi connaturati.
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[1] Worldwide Governance Indicators (WGI) prodotti dalla World Bank, anche conosciuti come “KKZ” dal nome dei creatori (D. Kaufmann, A. Kray, A. Zoido). Il progetto WGI comprende governance indicators che sono stati applicati a circa 200 Stati nell’arco di un decennio (1996-2016), in riferimento a cinque temi: 1) libertà di espressione e trasparenza; 2) stabilità politica; 3) efficacia dell’attività di governo; 4) certezza del diritto; 5) controllo della corruzione.
[2] Il Corruption Perception Index (CPI) è stato creato da un’organizzazione chiamata Transparency International (TI). Esso determina il livello di corruzione del settore pubblico di un Paese in base a diversi elementi (es. corruzione dei pubblici ufficiali, tangenti negli appalti pubblici, peculato) e alle misure di contrasto che lo Stato stesso realizza.
[3] I Country Policy and Institutional Assessments (CPIA) sono stati elaborati nel 1970 per permettere alla World Bank, attraverso la International Development Association (IDA), di allocare efficacemente i propri finanziamenti. Infatti, essi valutano il grado di diligenza con il quale le banche nazionali e i governi si impegnano nella riduzione della povertà, nella crescita sostenibile e nell’effettivo utilizzo degli aiuti allo sviluppo.