Negli anni immediatamente precedenti al 2012, con il suo carico millenarista associato alla presunta profezia del calendario Maya, ritornò di moda il survivalismo, anche noto nell’accezione anglofona di prepping. Non solo negli Stati Uniti, dove questa moda invariabilmente attecchisce di più – gli USA hanno una lunga tradizione di bunker antiatomici costruiti durante la Guerra fredda sotto villette a schiera ed edifici pubblici – ma anche in Francia, Italia, Australia, Cina fiorirono gruppi con la finalità di mettersi al riparo da possibili, imminenti catastrofi di portata globale ammassando cibo, medicine, kit di primo soccorso e tutta una serie di strumenti necessari di fai-da-te indicati nei manuali di survivalismo per sopravvivere per mesi, anni o persino tutta la vita in un mondo post-collasso. Chi poteva si costruiva un piccolo rifugio fuori città, i più abbienti puntarono sui bunker (ma fu un più che altro una curiosità raramente soddisfatta, dati i prezzi), gli americani come sempre fecero incetta di armi. Qualcosa di simile si sta verificando oggi: il 2012 è venuto ed è passato, ma ciò che i survivalisti chiamano TEOTWAWKI, acronimo di The End Of The World As We Know It (“La fine del mondo come lo conosciamo”) sembra essere infine arrivato.
I nuovi survivalisti
Anche al di fuori degli ambienti radicali, le ricette più di moda per il mondo post-pandemia hanno svariati punti in comune con un classico “manuale per sopravvivere all’apocalisse zombie”. La parola d’ordine è rallentare, a cui seguono decrescita e ritorno alla terra. In comune hanno certamente un fondo di verità. La pandemia in corso è figlia dell’accelerazione del tardo-capitalismo: il virus ha viaggiato quasi sempre in business class per arrivare dalla Cina in Europa in tempi record, rispetto agli anni che occorsero al bacillo della peste per sbarcare nei porti europei. È stato facilmente diffuso in meeting aziendali transnazionali, si è avvantaggiato degli accordi di Schengen, ha prosperato nelle apericene del dopolavoro, arrivando prima nelle aree più densamente collegate con il resto del pianeta e tardando molto a far capolino in quelle rimaste indietro. Stefano Boeri, l’architetto del Bosco verticale, icona della Milano dell’Expo (e incidentalmente dello slogan ormai vituperato #milanononsiferma), ha già dichiarato che il futuro si trova nei piccoli borghi; paesologi e piccoli sindaci delle aree interne gli hanno dato immediatamente ragione, salvo poi barricarsi al primo segnale dell’arrivo di forestieri potenzialmente contagiosi. Il simbolo della quarantena è diventato il pane fatto in casa, rituale di una nuova religione fatta di tempi lenti. Il sogno di tanti, almeno a dar credito a giornali e social network, è imparare da questa catastrofe per costruire una società più resiliente, dove impareremo a coltivare un orto domestico, faremo le vacanze in campagna, ci daremo magari alla vendemmia, riscopriremo i tempi lenti e naturali dei prodotti di stagione.
Il sogno bucolico ha sempre accompagnato l’accelerazione della civiltà, come una sorta di rifugio psicologico dallo stress della metropoli. Ognuno coltiva il sogno di una casetta isolata dove rifugiarsi nel weekend e dove andare a svernare negli anni della pensione. Ma è un sogno che si alimenta della routine in cui siamo immersi e da cui si svegliamo bruscamente nel momento in cui quella routine viene messa in discussione. La casa di campagna ha senso se c’è una metropoli stressante da cui fuggire; se il mondo intero dovesse diventare una casa di campagna, arriveremmo presto a renderci conto che il nostro futuro sta diventando piuttosto un ritorno al passato, al “medioevo prossimo venturo” che preconizzava molti anni fa il futurologo italiano Roberto Vacca. Questo, per molti, è un futuro a cui tendere; ma così come il “progresso” identificato tout court con l’accelerazione tecnologica, il futuro “colonizzato” dai top player del digitale – i famigerati GAFA (Google, Amazon, Facebook, Apple) – non è che una narrazione minoritaria spacciata per orizzonte di attesa dell’intera umanità, così anche la proposta decrescista che oggi torna di moda non è che l’utopia di una minoranza. Anch’essa è costretta a scontrarsi con visioni del futuro diverse e divergenti, e deve imparare a dialogarci.
La tentazione di “tornare indietro”
La tentazione di risolvere il problema della complessità con una sua riduzione si riscontra in tutte le epoche storiche. Lo storico Santo Mazzarino, nel suo libro La fine del mondo antico, cita un passo di Lucrezio: “E già, scuotendo il capo, il vecchio aratore sospira di frequente; lamenta la sua fatica vana, e confronta il tempo d’oggi coi tempi che furono; loda spesso le fortune del suo genitore”. I controrivoluzionari francesi inventeranno il mito romantico della vita semplice del feudalesimo per contrapporla ai “guasti” del progresso promosso dalla Rivoluzione. Il terrorista Theodore Kaczynski (Unabomber), nel suo manifesto La società industriale e il suo futuro, ripropone il luddismo come forma di opposizione alla civiltà tecnologica e va ad abitare nei boschi. Eppure, siamo vagamente consapevoli del fatto che, se ciascuno di noi si ritirasse in un fazzoletto di terra da coltivare, torneremmo come una volta a essere esposti ai rovesci del tempo per vedere perso un intero raccolto (e in un’epoca di cambiamenti climatici questi rovesci si rincorrerebbero con allarmante frequenza), patiremmo nuovamente lo spettro della fame e della carestia, le tenebre della notte tornerebbero a essere popolate di fantasmi, una frana basterebbe a isolare il nostro villaggio per settimane; i giovani che fuggono dalla provincia ci ricordano lo stigma sociale che affligge chi cerca di uscire dagli schemi della convenzionalità dei piccoli centri, affogati dal senso comune che diventa “buon senso”. Insomma, quello è il mondo dal quale siamo faticosamente usciti, non certo quello a cui aspiriamo a tornare.
Ma allora, come affrontare la vulnerabilità del nostro mondo iper-complesso? Se rallentare troppo non è la soluzione, può mai esserlo quello di accelerare nuovamente, come il Titanic spinto a piena potenza verso gli iceberg per far contenti i miliardari a bordo, ansiosi di giungere a destinazione prima del tempo per gettarsi nei loro affari? Dovrebbe essere ormai chiaro che il problema non è tanto la velocità, quanto la rotta. Non tanto rallentare, quanto accelerare verso altre mete. È questo il senso di quell’ideologia nota come “accelerazionismo”, che oggi rappresenta la variante più interessante del futurismo sociale. Ripresa da una parte dell’ideologia di sinistra in opposizione a coloro i quali contrappongono al mito del progresso quello del ritorno al passato, l’accelerazionismo ha dimostrato che è possibile piegare le distorsioni della nostra epoca a beneficio di obiettivi nuovi, di un altro futuro. Mai come in questo momento storico, in cui – come in ogni crisi – le contraddizioni del sistema emergono in tutta la loro drammaticità, in cui cioè i nodi irrisolti vengono al pettine, è necessario accelerare verso direzioni nuove prima che sia troppo tardi. Non ci resta più molto tempo.
Che cosa dobbiamo accelerare
Facciamo alcuni esempi. Quasi profeticamente, una settimana prima che in Italia si riscontrassero i primi casi di Covid-19, a Milano si teneva una riunione della “Comunità di Pratica di Futuro” per discutere dei problemi dell’invecchiamento della popolazione. Si discusse dei modelli insostenibili delle RSA (le residenze sanitarie assistenziali), dell’esigenza di trovare nuovi modelli di convivenza tra generazioni, anche grazie agli sviluppi tecnologici e all’innovazione digitale, per non trasformare gli anziani in una categoria passiva da sacrificare alla prima difficoltà. La pandemia non ha atteso le nostre decisioni e ha chiesto uno spaventoso tributo di sangue agli anziani del nostro continente, falcidiando un’intera generazione. Non possiamo più aspettare per sostituire, al modello fallimentare che ha reso possibile tutto ciò (il 44% dei contagi attualmente si conta nelle case di riposo e nelle RSA), qualcosa di nuovo; un patto intergenerazionale affinché gli anziani si prendano cura dei più giovani e i più giovani degli anziani è essenziale, una trasformazione radicale della “cultura dello scarto” è improcrastinabile, perché altrimenti queste tragedie si ripeteranno.
Mentre l’Italia si prepara alla fase 2, il problema principale è diventato quello del trasporto pubblico, impossibile da riportare ai livelli pre-crisi; ma tornare alla mobilità privata vorrebbe dire far sprofondare nuovamente le città nel traffico e nello smog che speravamo di essere prossimi a sconfiggere. Occorre allora che la transizione verso la mobilità sostenibile, con auto elettriche e a impatto zero sull’ambiente, venga accelerata al massimo: non possiamo più aspettare decenni. Bisogna rifuggire dalla tentazione di sacrificare gli obiettivi di sviluppo sostenibile a favore di una crescita immediata: la transizione verso le energie sostenibili dev’essere accelerata al massimo, superando gli ostacoli che ne impediscono la diffusione di massa. Il prossimo grande “evento X” che ci attende è legato ai cambiamenti climatici: dobbiamo accelerare verso il raggiungimento degli obiettivi previsti dagli Accordi di Parigi del 2015, per disinnescare il prima possibile questa bomba a orologeria.
Abbiamo bisogno di una società smaterializzata, che ci consenta di svolgere la stragrande maggioranza delle incombenze quotidiane senza muoverci: va accelerata la digitalizzazione, la semplificazione della burocrazia, la disintermediazione digitale. Bisogna trovare rapidamente metodi di autenticazione dei cittadini online, semplici ed efficaci, anche per favorire il voto elettronico, ma soprattutto per evitare che uffici pubblici, poste, banche diventino luoghi di affollamento come lo erano prima; e questo a prescindere dalla speranza che il contagio si arresti, perché siamo tutti d’accordo che questi non-luoghi alimentino forme di anomia sociale che vanno eliminate. La digitalizzazione della nostra routine non significa rifugiarsi nel mondo virtuale: significa liberare tempo per una più autentica socializzazione fisica.
L’introduzione delle app per tracciare i contagi è la spia dell’impellente esigenza di una medicina personalizzata e preventiva, di cui parliamo da anni senza che si siano fatti reali passati concreti in questa direzione. Dobbiamo significativamente accelerare verso un nuovo approccio alla sanità in cui la potenza dei big data sia messa al servizio di una medicina che agisce preventivamente, non quando è ormai troppo tardi; un sistema sanitario più vicino al cittadino, fatto di ambulatori locali in cui, anche grazie al supporto informatico, la salute delle persone che abitano in un quartiere sia costantemente monitorata, con dati affidabili che permettono ai decisori politici di avere il polso di ciò che accade nelle comunità, senza doversene accorgere quando le terapie intensive degli ospedali improvvisamente collassano, ossia quando è troppo tardi. Accelerare verso una medicina personalizzata, costosa nella sua fase iniziale di ricerca e sviluppo, ma in grado di generare immensi risparmi una volta giunta a pieno regime, è l’unica soluzione per impedire che i bilanci nazionali finiscano presto affossati dai costi insostenibili della sanità pubblica.
La tecnologia digitale ha reso il nostro isolamento sociale più sostenibile e sopportabile. Dobbiamo perciò rendere l’infrastruttura informatica e telematica invulnerabile, tanto a eventi esogeni quanto ad attacchi cibernetici. C’è bisogno di rendere la Rete inattaccabile, anche attraverso processi di sdoppiamento e moltiplicazione dei server-chiave, per evitare che il cuore dell’infrastruttura risieda in un solo paese (gli Stati Uniti); bisogna accelerare verso la crittografia quantistica e altre soluzioni che mettano Internet al riparo da operazioni di cyberwar; occorre estendere Internet più velocemente a tutto il globo, ma anche evitare che i dati passino attraverso una sola infrastruttura: estendere la copertura tramite satellite è vantaggioso, ma i satelliti non sono invulnerabili (un flare solare o un’arma antisatellite sono in grado di distruggerli), per cui bisogna sempre affidarsi a sistemi ridondanti, affinché non ci siano colli di bottiglia. La vulnerabilità della Rete digitale ci suggerisce anche di risolvere il problema della vulnerabilità della rete globale degli approvvigionamenti: occorre accelerare il processo di reshoring affinché le industrie-chiave risiedano all’interno dei singoli paesi, assicurarsi ridondanze nella filiera alimentare per evitare intoppi a monte (raccolta, produzione) e a valle (distribuzione).
Dobbiamo accelerare verso un nuovo modello di lavoro, che non sia più pericoloso per la vita delle persone, in cui all’automazione spettino tutti i compiti ingrati, mettendo fine all’inquietante processo che vede fette crescenti della popolazione costrette nella gig economy, l’economia dei “lavoretti” poco remunerativi e spesso alienanti a cui un’automazione fuori controllo e mai davvero gestita (tantomeno dai sindacati, i “grandi sonnambuli” della disoccupazione tecnologica) li ha condannati. Se il progetto di un reddito di base poteva apparire troppo in anticipo sui tempi, oggi è più che mai necessario accelerarne lo sviluppo affinché la crisi economica che ci attende, al cui confronto la Grande recessione non fu che un raffreddore, non faccia esplodere povertà e rivolte sociali.
Bisogna accelerare la soluzione del problema dei migranti, estendendo loro i diritti di cittadinanza, rendendoli parte integrante della nostra società, favorendo al tempo stesso uno sviluppo equilibrato delle economie africane, dove invece oggi si riscontrano i più alti livelli di diseguaglianza (esemplificati dagli slum delle megalopoli in costruzione). Mentre Donald Trump ha silurato l’Organizzazione Mondiale della Sanità e non si contano le critiche alla Commissione europea per la sua incapacità di venire concretamente in aiuto ai paesi europei più colpiti, la risposta non può risiedere nella de-globalizzazione, ma nella costruzione di organizzazioni internazionali più efficaci. La crisi della Seconda guerra mondiale spazzò via l’inutile Società delle Nazioni, sostituendola con l’ONU, la quale, da tempo ormai inabile, ha tuttavia giocato un ruolo essenziale nel risolvere i contenziosi tra le superpotenze che avrebbero potuto scatenare una terza guerra mondiale negli anni della Guerra fredda. Analogamente, dobbiamo accelerare nella costruzione di organismi internazionali e sovranazionali autenticamente rappresentativi, democratici, in grado di rendere conto delle loro scelte all’opinione pubblica, non più vittime di giochi di potere come quelli che hanno paralizzato l’OMS e che stanno paralizzando l’Unione Europea, ma soprattutto in grado di gestire velocemente ed efficacemente le crisi globali. Si tratta di rifondare l’ordine internazionale su basi nuove, per evitare di ricadere in un pericoloso neo-feudalesimo.
Ri-orientare il futuro
Insomma, non c’è più tempo per credere che ciò che fino a tre mesi fa ritenevamo impensabile sia ancora inattuabile. La pandemia rientra tra quegli “eventi X” considerati altamente improbabili, oggetto unicamente di scenari previsionali estremi rimasti quasi sempre chiusi nei cassetti, ma si è verificata; scenari estremi richiedono soluzioni estreme, innovative, radicali, non certo e non più mezze misure. Nel loro testo accelerazionista Inventare il futuro, Nick Srnicek e Alex Williams ci hanno posto chiaramente di fronte a questa duplice alternativa: «Se l’attuale complessità va al di là delle umane capacità di pensiero e controllo, le opzioni sono due: la prima è, appunto, quella di ridurre tale complessità a una scala umana; l’altra è quella di espandere proprio le capacità umane». Non si tratta qui di cadere nel sogno tentatore e illusorio del transumanesimo, del “potenziamento umano” in grado di renderci maggiormente in grado di sostenere l’accelerazione del tardo-capitalismo, aumentando la nostra produttività fisica e mentale; né tanto meno di cedere ai richiami dei movimenti dell’autoaiuto e del “potenziale umano” che, come ha scritto Paolo Pecere, favoriscono solo “l’acquiescenza dell’individuo a una società competitiva e fondata sulla disuguaglianza, senza mettere in discussione i presupposti”. Invece si tratta di mettere in discussione i presupposti di una società che si credeva invincibile ma che è collassata per un virus di pochi micron, ri-orientandoli verso un nuovo modello sociale.
Hanno scritto ancora Srnicek e Williams: «Il localismo, in tutte le sue forme, rappresenta un tentativo di sfuggire ai problemi e alle politiche di scala che sono il cuore di sistemi estesi come l’economia, la politica, l’ambiente: ma essendo i nostri problemi sempre più sistemici e globali, richiedono come tali risposte altrettanto sistemiche». Insomma, non è questo il momento di cullarci in bucoliche illusioni di un ritorno alla “vita semplice” dei “bei tempi andati”. Come testimonia brillantemente il nuovo libro di Mark O’Connell Notes from an Apocalypse, gli unici survivalisti che usciranno vincitori nel mondo post-collasso sono i detentori dei grandi capitali, i tecno-utopisti che, dopo aver accelerato il mondo nella direzione sbagliata, si sono assicurati da tempo tenute di massima sicurezza in Nuova Zelanda o in altre parti isolate del mondo, pronti a uscirne come nuovi padroni del mondo se tutto dovesse andar male. La “decrescita”, infatti, non è altro che un modo di estremizzare le diseguaglianze preesistenti. Occorre invece rimboccarci le maniche per prendere di petto i problemi del nostro tempo, afferrare il timone della nave fuori controllo e sterzare a tutta velocità in una nuova direzione.