È importante sapere quali storie creano mondi, quali mondi creano storie.
D.J. Haraway, Chthulucene
Per diversi anni sono stata una giocatrice di ruolo online su piattaforme cosiddette play-by-chat, modalità di gioco testuale nate agli albori del nuovo millennio e rivolte a un pubblico di roleplayer di nicchia. Immergermi in questa complessa comunità virtuale con approccio antropologico è servito tra le altre cose a indagare più da vicino e in modo particolare le forme della rappresentazione stereotipica di genere/razza/etnia in un ambiente fantastico. Dietro l’anonimato dello schermo è possibile scegliere di muovere un individuo dalle sembianze scelte e di interagire con altri personaggi in un mondo in cui è la parola a definire l’esistente. In questo universo popolato da segni, figure giovani e attraenti, volti bianchi riproposti in un ciclo a loop potenzialmente infinito, anche la sensualità dei e tra i corpi si fa codice. Scegliere un volto equivale a scegliere una identità coerente con ciò che si intende agire tramite il linguaggio, intrecciando la propria storia a quella di un altro. Esistono una serie di codici stilistici non scritti atti a identificare il genere di appartenenza dello scrittore, che una volta noti possono essere decostruiti. Ad esempio, la mia scrittura secca e priva di troppe descrizioni è spesso stata giudicata maschile. Siamo nel luogo della complicazione, definito performativo da Judith Butler.
Mi sorprende constatare che nell’arco dell’ultimo ventennio, specie entro i confini italiani, le Scienze Sociali in generale e la critica femminista in particolare, pur se sensibili alla rappresentazione virtuale del corpo, abbiano rivolto scarso interesse verso questi potenti mezzi d’espressione alternativi (e molto italiani) per sperimentare le proprie posizioni, concentrandosi su forme di esistenza digitale direttamente radicate nella sessualità. La maggioranza degli autori interessati alla questione vivono più all’ombra della tradizione del cyberfemminismo che del tecnofemminismo (Haraway, 1991; Plant, 1997; Turkle, 1997; Wajcman, 1991), dove hanno riflettuto poco sulle conseguenze e le opportunità del primato della trascendenza, restando affezionati all’idea di una vita doppia, dentro e fuori del virtuale, l’una più reale dell’altra – e concependo la virtualità come vassalla del reale. Le numerose indagini volte alla simulazione virtuale effettuate tramite piattaforme di gioco come Second Life non rendono giustizia del genere di interazione disincarnata possibile invece in uno spazio parzialmente chiuso e rigidamente regolamentato, in cui le azioni sono veicolate solo dalla parola scritta e da poche immagini fisse idealizzate. In accordo con Ferrando, sarebbe invece utile considerare che in un presente postumano «la fisicità non rappresenta più lo spazio primario di interazione sociale: il decentramento del sé in corpi virtuali e in identità digitali ha trasformato il simulacro baudrillardiano in iper-realtà finalizzanti» (Ferrando, 2013), come anche ha evidenziato ulteriormente l’iper-connessione audio-visuale che ha accompagnato il periodo di lockdown. La prospettiva imminente di visori a realtà aumentata a basso costo, di recente annunciati dalla famiglia Facebook Connect, metterà ancora più in crisi l’ontologia delle relazioni e degli spazi.
Già negli anni Ottanta – e sempre più nei Novanta – l’enfasi sulla materia intesa come corpo incarnato è messa in questione in modo profondo dal lavoro di Haraway a partire dalla sua figurazione cyborg. Informata dalla filosofia di Deleuze e di Foucault, nel suo Manifesto è reso chiaro il progetto onto-epistemologico di ridefinire i confini dei corpi al di là dei limiti dell’epidermide, affermando che «i corpi in quanto oggetti di conoscenza sono nodi generativi material-semiotici. I loro confini si materializzano nell’interazione sociale» (Haraway, 1991).