Per noi di Legambiente partecipare al dibattito sull’Italia del 2050 organizzato dall’Italian Institute for the Future è particolarmente significativo. Quando due anni fa abbiamo fatto il nostro congresso nazionale, scegliemmo come titolo “Capire il futuro per cambiare il presente”, che non è lo stravolgimento della logica normale, ma l’ordine vero dei fattori. Capire il futuro non significa avere la sfera di cristallo, ovviamente, e non significa affidarsi alla magia né a tendenze new age; significa esattamente il contrario, cioè avere i piedi ben piantati sull’oggi e allo stesso tempo riuscire ad essere lungimiranti e capire quali sono gli scenari possibili.
Rispetto a tutto ciò partiamo da un elemento che credo vada acquisito, benché la classe dirigente italiana, e non soltanto quella politica, sia particolarmente sorda. Noi non ci troviamo, in campo energetico, di fronte a future trasformazioni: la rivoluzione energetica è già iniziata. Siamo nel bel mezzo della rivoluzione energetica. Faccio alcuni esempi. Il 16 giugno 2013 l’Italia, per due ore, è stata alimentata soltanto da energia rinnovabile. Uno scenario, questo, del tutto impossibile da ipotizzare anche per i pasdaran dell’ambientalismo nazionale. Nessuno di noi tre anni fa avrebbe detto che in tre anni saremmo arrivati a un momento in cui ci saremmo alimentati solo con energie rinnovabili. In questo quadro nel 2012 c’è stato un calo del termoelettrico tradizionale del 15%.
Secondo esempio: nel 2007, l’Agenzia Internazionale per l’Energia prevedeva che nel 2010 il fotovoltaico, a livello mondiale, sarebbe arrivato a 9,6 GigaWatt di produzione; siamo arrivati invece a 39 GigaWatt. Gli scenari previsti dall’Europa dicono che nel 2050 si toccheranno i 471 GigaWatt installati. Lo scenario disegnato invece da Greenpeace parla di 4548 GigaWatt. Quando ci sono queste differenze di valutazione evidentemente c’è un problema epistemologico: se si guarda cioè al futuro come se fosse la continuazione del presente e quindi con tecnologie “as usual”, come si usa dire, prendendo in esame il petrolio, lo shale gas e quant’altro; oppure se si considera uno scarto tra presente e futuro e quindi si tiene che qualcosa che deve cambiare.
L’Europa attualmente paga 423 miliardi di deficit commerciale per importazioni di energia e essa stessa calcola che se nel 2030 si raggiungesse, come è nei programmi europei, il 40% di efficienza energetica, il deficit calerebbe di 239 miliardi. È evidente che il passaggio da uno scenario all’altro dipende dalle politiche. In Italia, rispetto al fotovoltaico, è stata fatta una certa politica di incentivi che oggi ha legittimamente esaurito la sua funzione, perché quello del fotovoltaico è diventato un settore che non ha più bisogno di spinte, avendo ottenuto i risultati stravolgenti accennati sopra. Solo il fotovoltaico a maggio 2013 ha coperto il 9% della domanda nazionale. È chiaro che questa trasformazione ha anche bisogno di un’analisi di contesto, il cui dato è che la domanda elettrica in Italia ha raggiunto in quel periodo il picco di 44milaMegawatt. Nel 2007, subito prima della crisi, il picco più alto di domanda di energia elettrica in Italia è stato di 57milaMegawatt. In Italia oggi abbiamo una potenza installata superiore a 125mila MegaWatt, nel 2008 era di 110milamegawatt.
All’inizio del 2000 si fece una legge che va sotto il nome comune di “Sblocca Centrali”, che affidò al mercato la gestione della pianificazione dell’offerta di energia. Il risultato fu che c’erano molte centrali elettrice, le turbogas, ben più efficienti delle precedenti a olio combustibile e a quelle a carbone, e che tuttavia hanno un problema di mercato legato al fatto che possono essere accese e spente senza grandi problemi, con un interruttore. Le altre, invece, hanno un’inerzia molto forte. Crescendo l’offerta delle rinnovabili, che ovviamente è a vantaggio di tutto il sistema paese perché diminuisce l’importazione di petrolio e l’importazione di energia elettrica dall’estero, la domanda nei confronti del fossile tradizionale cala, ma siccome noi abbiamo anche l’olio combustibile e il carbone, e gli incentivi dati dal governo negli ultimi due anni sono andati verso questa direzione, si tengono accese le centrali a olio combustibile che sono le più inquinanti, con tutti gli 850 milioni di spesa che sono sul carico di tutti i contribuenti. Le centrali più efficienti, quelle a turbogas, sono quelle che hanno più difficoltà. Alla base c’è una scelta politica sbagliata, ideologica, che è stata quella di affidare un settore così prioritario nelle strategie di un paese, come appunto il settore energetico, totalmente al mercato, cosicché oggi ci troviamo con un’offerta di potenza installata tre volte superiore a quella che stiamo consumando e che blocca l’innovazione tecnologica delle rinnovabili.
Le rinnovabili non hanno bisogno di nuovi incentivi, ma solo di una regolamentazione. Il 70% del fotovoltaico è italiano e i pannelli solari coprono solo il 15% di tutto il budget dell’impresa del fotovoltaico. Rispetto a questo quadro noi abbiamo di fronte un’incompetenza, o un peso eccessivo, delle lobby tradizionali che indirizzano le politiche del governo. È chiaro, infatti, che l’Italia non avrebbe alcun interesse a investire nelle trivellazioni, nella distruzione delle coste italiane, benché il ministro Zanonato abbia autorizzato tutte le richieste di licenze di ricerca di petrolio e gas in Italia; avremmo piuttosto bisogno di una politica industriale seria che sviluppi questo settore con le novità prima dette. Tutto ciò però non riguarda soltanto l’energia elettrica. In Italia si è discusso tantissimo dell’ALCOA e di tante altre industrie altamente energetiche. La mancanza di una politica industriale avanzata impedisce anche di rilanciare i settori che possono avere un qualche senso. Joseph Stigliz sostiene che se si affrontassero i problemi a lungo termine, di fatto si contribuirebbe a risolvere i problemi di breve periodo. È quello che manca in Italia, una discussione su quali sono le soluzioni possibili. Chi ha più idee e capacità di coinvolgimento può vincere.