Che il linguaggio disegni i confini del mondo, dopo Wittgenstein e la cosiddetta svolta linguistica che nel XX secolo ha investito la filosofia e le scienze umano-sociali, è ormai un rassicurante luogo comune. Per la verità, lo si era intuito da tempo. Basti pensare a quella traiettoria dell’Umanesimo linguistico italiano (Karl-Otto Apel) che, fra il sincretismo mediterraneo di Dante e il proto-illuminismo romantico, per così dire, di Vico, sospinse l’intera cultura europea fuori dal medioevo fin dentro la modernità. All’interno di questo percorso, che corre idealmente tanto lungo l’asse Nord-Sud degli Appennini quanto l’asse Est-Ovest delle Alpi, s’incontrano, non a caso a Venezia, i dieci ponderosi volumi de La Fabrica del Mondo. È questo, a quanto mi risulta, il primo repertorio della lingua italiana, e in esso Francesco Del Bailo (detto Alunno) nel 1548 raccoglieva e sistematizzava “tutte le voci di Dante, Petrarca, Boccaccio e d’altri buoni autori… con le quali si ponno scrivendo isprimere tutti i concetti dell’huomo di qualunque cosa creata” in una ontologia cosmica (Dio, Cielo, Mondo, Elementi, Anima, Corpo, huomo, qualità, quantità e Inferno). I confini del mondo erano, dunque, i medesimi del linguaggio, ovvero, detto in altri termini, se per un verso linguaggio (le voci della lingua) ed esperienza (i concetti ontologici) erano connessi a doppio filo, per altro verso, pensiero e comunicazione lo erano altrettanto. In questo, se vogliamo, ritroviamo eco del Convivio dantesco per l’essere la conoscenza il pane, angelico sì, ma di una collettiva mensa umanissima e aperta a chiunque. Infine, va da sé, lo sviluppo dell’una comportava lo sviluppo dell’altro, e viceversa, cosicché la fabrica è in costante e irrefrenabile costruzione.
Seguendo il vecchio Vitruvio, allora, useremo il termine fabrica intendendolo nel duplice senso dell’edificio (il fabbricato) e dell’edificazione e manutenzione (la fabbricazione), per altro conformemente all’uso proprio umanistico e del diritto canonico (cfr. la Fabbrica di San Pietro, la Veneranda Fabbrica del Duomo di Milano, l’Opera di Santa Maria del Fiore ecc.).
Storicamente, quella ordinata fabrica del mondo (Tommaso Campanella) poté essere colta solo spingendo lo sguardo oltre la superficie dell’oscuro labirinto, oltre la matassa ingarbugliata dell’esperienza, ricavando con grandi difficoltà i pur semplici precetti dell’architettura (Galileo Galilei). E quella fabrica venne, poi, riconsiderata come struttura (Marcello Malpighi), trasformata in milieu interieur omeostatico (Claude Bernard, Walter Cannon) e, infine, estesa nell’attuale sistema omeodinamico (Steven Rose) (cfr. Lloyd, Aon, Cortassa 2001): ed è proprio questo che va sottoposto a investigazione di secondo ordine ampliando lo sguardo riflessivamente al sistema che osserva (Heinz von Foerster), ovvero includendo l’osservatore medesimo e la sua trasformazione per apprendimento nel corso del tempo. È la logica di queste descrizioni, a partire dalle nostre esperienze interpretate con la nostra epistemologia, a costituire il mondo (Heinz von Foerster) nel quale noi, quindi, abbiamo sempre a che fare con un’esperienza che è, contemporaneamente, memore delle comprensioni precedenti e prodromica delle esperienze future. Ma in questa sede a noi basta intendere la Fabrica come tecnologia, termine che, come vedremo, riassume sinteticamente l’intero quadro, indicando non solo i prodotti ma il medesimo organo produttivo.
Tecnologia ovvero delle logiche delle tecniche
Un cambiamento di esperienza o, nella misura in cui è possibile, di epistemologia, dunque, è all’origine del cambiamento del mondo e realizzarlo è precisamente il compito della tecnologia, intesa, perciò, come luogo in cui il vecchio mondo muore e il nuovo può nascere. Il trapasso, non c’è da stupirsi, è scandito dai lugubri lamenti delle prefiche del bel tempo che (mai) fu, da una parte, e dai protervi peana dei vati delle magnifiche sorti e progressive delle tecniche, dall’altro, come magnificamente e prontamente inteso da Giacomo Leopardi. L’ipocrisia della schismogenesi all’interno delle ideologie tecnologiche, fra quelle tecnofobiche e quelle tecnofreniche, è il velo che oscura tanto gli interessi preesistenti quanto le inerzie culturali e inibisce l’accesso universale alle nuove complessità.
Tecnologia, così sosterremo, è altro affare da quelle ideologie. Il suo significato letterale è, infatti, quello del logos della techne, che dovremmo oggi opportunamente rendere con l’espressione doppiamente plurale: le logiche delle tecniche. Soffermiamoci sulla etimologia dal Proto-Indo-Europeo.
La radice *tek rinvia all’arte originaria di intrecciare tronchi, specialmente usando un’ascia, a mo’ di tegole per costruire un tetto come riparo, tessere fibre per ricoprirsi, nascondere in una teca, comunque dare/si una protezione, architettare, costruire, procreare e così via (in greco tekton è il falegname e teknon è il figlio che mettiamo al mondo).
La radice *leg, invece, rinvia al collezionare, (col)legare, dislocare, leggere, metter ordine in un mondo complesso di cui siamo parte attraverso un discorso, un argomento, una definizione, una sola parola o la ragione, istituire proporzioni, regole, leggi e, da ultimo, calcolare. Il calcolo, in verità, rinvia, certamente, alla matematica, la quale, però, è ben più che calcolo o coding, è innanzi tutto conoscere, legata com’è a mens e, dunque, a ragionamento e, in fin dei conti, a ratio: ovvero, nuovamente, a logos. Se si avessero dubbi, la logica che tiene unito questo mondo di significati basterebbe ricorre alla famosa definizione di matematica data da un grande matematico, Henri Poincaré: La matematica è l’arte di chiamare con lo stesso nome cose diverse. Ecco, allora, che persino il calcolo si mostra nella sua creatività usualmente misconosciuta: mele e pere si possono sommare, con un (bel) po’ di creatività, salendo di astrazione e cogliendone l’identità di frutto: due mele più tre pere fanno cinque frutti. Insomma, il calcolo non è fatto di soli numeri, anzi, questi ne sono solamente uno strumento, o meglio, un prodotto. Se questo è in aritmetica, in geometria bisogna salire dai bastoncini ai segmenti (Lucio Russo), ovvero dalle tanto decantate competenze alle sempre valide conoscenze. Esiste, insomma, una matematica senza numeri da recuperare urgentemente alla cultura contemporanea per liberarne progettualità.
Ecco che, allora, si comprende perché la parola stessa “tecnologia” fosse quasi assente nella lingua antica e, poi, ovunque sino al XIX secolo: evidentemente, non c’era techne senza logos. Essa si diffuse, comprensibilmente, quando le tecniche si diffusero ed estesero così tanto, da esigere un esplicito appello al logos, alla ratio. E si comprende persino perché, a tutt’oggi, tanto scarsa sia l’attenzione alla tecnologia, schiacciata com’è sotto il peso del clamoroso successo delle tecniche e dalla grancassa del nuovismo sollevato ideologicamente di contro alle migliori tradizioni costruite con tanta fatica dalla storia umana.
Tecnologia, allora, è il rafforzamento della medesima idea, ribadendola nelle due radici. Ma siccome qui siamo nel mondo umano (produttore di logiche) e non in quello della logica (come prodotto), la tautologia genera davvero significato nuovo. Si tratta, infatti, del mettere insieme “cose” che si trovano sparpagliate in forme e luoghi vari, generando novità innanzitutto concettuale. E la logica che si segue in questo processo di apertura del mondo quale lo si è trovato può avere origini affatto diverse da quelle che potrebbe intuire un osservatore abbagliato dai Lumi della Ragione, che sempre fanno capolino anche dietro i bias del cognitivismo.
Ci sono varie famiglie di logiche delle tecniche, alcune delle quali possono rinviare a logiche di altre tecniche ancora. Ma cominciamo con l’osservare che il genitivo che qui usiamo ha, come al solito, due primi significati: oggettivo e soggettivo. Il genitivo oggettivo è quello che ha le tecniche come oggetto di riflessione: è il nostro discorso intorno alle tecniche, ed è quello che più è diffuso attualmente e, tutto sommato, meno interessante per noi in questa sede. Il genitivo soggettivo, invece, vede le tecniche come esse stesse dotate di logiche: ed è esattamente ciò di cui ci stiamo occupando.
All’interno di questa soggettivazione, si possono infatti individuare: una ratio di progetto (insita nel lavoro progettuale), una ratio d’uso (attivata dagli utenti) e, infine, la ancor più complessa ratio implicita o automatica (autoindotta). È di qui che sorge l’esigenza di una complessiva ratio di governo, tanto utile in una fase di ridefinizione generale come quella che stiamo vivendo, e tanto challenging per la cultura contemporanea.
I processi di formazione della ratio di progetto tecnico, mai riconducibile a un singolo progettista ma ai molteplici attori della tecnologia (fase di istituzionalizzazione), oggi il punto critico dell’intera questione: i grandi interessi legati al mondo della conoscenza (intellettuale, pratica, oggettivata) costituiscono il Megabuck dell’Era contemporanea (Wiener 1958) e la negoziazione sociale è questione politica di enorme rilevanza e, tuttavia, priva di adeguata attenzione da parte delle istituzioni delle democrazie contemporanee. Attraverso la ratio d’uso, che vede attori diversi usare con spazi di creatività le tecniche disponibili dovendole attivare in uno specifico e sempre mutevole contesto sociale, avviene una percolazione trasformativa dell’innovazione (fase di diffusione).[1] La ratio implicita è definita, invece, dalle dinamiche attivate dalla stessa innovazione una volta inserita in contesti ove sono in funzionano già altre tecniche, in modo automatico, per usare il termine automaton di Aristotele, che, se in un certo senso, è la logica delle cose.
Le tecniche divengono, collettivamente prese, un proteo multiforme che s’insinua capillarmente in ogni angolo della vita sociale e fa sprizzare piccole o grandi innovazioni, molto difficilmente prevedibili. L’uso di una analogia tratta dalla biologia dei sistemi può essere utile a questo proposito. Se possiamo dire che ogni tecnica possieda una propria ratio genetica che la aggancia ad altre logiche sistemiche e ambientali, esiste anche una ratio epigenetica originata, più o meno consapevolmente, nell’ambiente specifico nel quale viene inserita: quasi per una eterogenesi dei fini, essa è in grado di generare, per vie sotterranee, novità anche radicali suscitando risorse all’inizio non presenti (dalla fase di socializzazione alla fase di generazione). Se, inoltre, superiamo la visione omeostatica nella direzione omeodinamica, cogliamo la path-dependency dei processi innovativi e la loro sostanziale irreversibilità, perché in presenza di fenomeni di apprendimento e di memoria estesa. Dopo che la comparsa di una novità (scoperta o invenzione) ha sviluppato nello scenario sociale una innovazione, coinvolgendo vite individuali e strutture sociali e simboliche, infatti, è illusorio pensare che sottrarla a posteriori possa ricondurre il sistema alle condizioni precedenti. Vi è, insomma, anisotropia nel tempo storico e agli errori, come ai successi, non è mai possibile porre rimedio definitivo riavvolgendo il nastro delle innovazioni.
Tecnologia, ovvero dall’Orbis ricevuto al Mundus-fabrica
Se non possiamo scindere l’essere umano dal suo mondo, non trovandosi mai a vivere in eterna e cosmica solitudine se non entro astratte modellazioni riduzionistiche, è anche chiaro che non possiamo immaginare una natura umana indipendente dalle modalità con le quali gli esseri umani vivono entro quel mondo di cui essi stessi fanno parte, e che essi, a loro volta, continuamente artificializzano. Gli esseri umani, per loro natura, ovvero per una logica del loro essere (anche) cose, producono artifici che li eradicano dal loro “stato di natura”: divengono artefici di se stessi in quanto artifici.
Se, dunque, le tecniche in sé non sono “né positive né negative”, esse non sono nemmeno neutre, poiché sempre radicali. Esse incapsulano sempre una visione costruttrice del mondo, dell’essere umano e di come si viva in società, di come le cose stiano e di come esse possano o debbano cambiare: possiedono sempre una tecnologia al loro interno, anche quando non ne sono consapevoli. Ecco perché chi si occupi di tecnologia deve considerarla una delle più alte manifestazioni della natura umana.
La tecnologia, in effetti, getta il ponte sul quale transita lo sviluppo sociale e prefigura quindi la destinazione dell’umanità, ovvero, in definitiva, “usa” gli esseri umani in vista (più o meno inconsapevole) di un certo traguardo. I limiti della tecnologia risultano, conseguentemente, tanto più angusti, quanto più essa è dimentica dell’imperativo cibernetico di organizzare un “human use of human beings”. Oltre che dotarci di appendici tecnizzate, infatti, si tratta ormai di ristrutturare profondamente il corpo e la mente di ciascuno di noi in quanto individui in espansione, la vita e la convivenza in quanto collocati all’intersezione di sempre più numerosi aggregati sociali, l’habitat in cui piantare le nuove radici del patrimonio simbolico del nostro genus storico. Dunque, se è di uso umano che deve trattarsi, bisogna occuparsi di quali siano da considerarsi come fini umani condivisi. La tecnologia, in quanto politica sociale radicale, risulta proprio lei a esser rimasta indietro rispetto alle sue tecniche: oltre a trovare individui culturalmente impreparati a gestirne le conseguenze, insomma, trova essa stessa limiti in partenza, nella qualità delle domande di ricerca che riesce a porsi circa i nuovi bisogni, nuove aspettative e nuove prospettive che essa medesima suscita. Sempre più critiche divengono, perciò, la cultura degli esperti e la caratura scientifica e democratica del processo circolatorio della conoscenza, nel sistema complesso ormai denominato tecnoscienza.
A questo proposito, è utile precisare che i sistemi complessi non sono soltanto più complicati, cioè difficili da descrivere, comprendere e prevedere: essi impongono di considerare chi li genera, chi li vuole comprendere, chi li vuole prevedere e governare come parte in causa essi medesimi. Siamo agenti del cambiamento non solo in quanto agenti fisici e agenti sociali, ma anche in quanto agenti cognitivi. La radicalità della tecnologia ci spinge, insomma, a superare oggi quella forma mentis che abbiamo ereditato da una ormai tramontata modernità, risalente ai secoli XVII e XVIII e segnata da meccanicismo, determinismo, fisicalismo, scientismo e, in una parola, riduzionismo, divenuti operatori regressivi. E ciò, non per un mero “nuovismo” che si illuda di archiviare il recente passato, ma per riconsiderare tutte le elaborazioni dell’epoca che potremmo chiamare classica (comprendente sia l’antichità sia la modernità) e aprire un nuovo giro alla circolazione della conoscenza che abbiamo condotto finora. Un utile suggerimento per aprire la via di un umanesimo tecnologico ci proviene, anzi, proprio dall’antichità precedente a quella passata modernità, e in particolare dalla civiltà cittadina al suo sorgere.
L’antica città per antonomasia è Roma (cfr. Carandini, 2007, Grandazzi, 1991). Le strade partivano dal suo umbilicus, equivalente del greco omphalos: in esso era rappresentato simbolicamente il mundus, un micromondo articolato nella tripartizione “classica” in: inferi (al di sotto del piano di calpestio), cielo (dipinto sulla volta interna) e mondo terreno, il tutto ritualmente riempito di primizie provenienti da tutti i villaggi che, per sinecismo, andavano a costituire la città all’atto della sua fondazione. Il macromondo dell’Orbis veniva progressivamente civilizzato nella trasformazione in Mundus da quell’esercito pontiere che apriva la via. La tecnologia militare era, dunque, l’infrastruttura logistica della civiltà. Se assumiamo questo habitus generativo, l’ampliamento del mondo avviene grazie alla trasformazione tecnologica. Salendo di astrazione, si può acquisire una visione più vasta se si riesce a vedere l’intero percorso già fatto e a costruire le alternative del percorso da fare. Astrarre non vuol dire solo estrarre componenti già presenti, ma elaborare il “succo” dell’esperienza fatta, in vista di quella che si potrebbe fare.
È così che, dal mondo inizialmente dominato dal segno di Ananke, la cruda necessità, si passò all’era di Tyche, quella sorte cui dovevano sottostare persino gli dèi, riuscendo a mala pena ad accelerarla o ritardarla, ma mai ad evitarla. In questa prima Era tunchanica della civiltà l’unico spazio tecnologico possibile era quello di poteri iniziatici che stabilissero ritualmente un contatto sotto il segno del mito con potenze superiore, divine, che andavano ingraziate, rabbonite per guadagnare margine di manovra. Fu l’epoca tragica dell’equilibrio naturalistico in cui può accadere solo ciò che deve accadere per una volontà che solo qualcuno può cercare di ingraziarsi, blandire, finendo per assecondarne il decorso. La disperazione esistenziale può essere solo lenita da poteri iniziatici salvifici (sovra)naturali.
Successivamente, si aprì la lunga Era prometeica del mondo lineare, in cui gli effetti dei nostri interventi (cause) possono essere previsti a priori e corretti con feedback accorti che mantengano l’equilibrio omeostatico del mondo sotto il controllo dei pochi al potere. L’illusione narcisistica di una ratio esperta, elitaria e catartica, accompagnava lo sviluppo della Ragione illuministica, i cui esiti di lungo periodo sono ormai usciti dal cono d’ombra delle magnifiche sorti e progressive.
L’epoca della Ragion comune, di una ratio che si declina di individuo in individuo cucendo progressivamente il collettivo general intellect attraverso l’oratio, è l’era della società della conoscenza, che non può non connotarsi quale Era epimeteica. Il mondo si fa complesso e i nostri effetti sono noti solo a posteriori perché la stessa tecnologia ci modifica riflessivamente in un unico processo omeodinamico di cui siamo parte in causa. Per salvarci, le uniche ragionevoli speranze vanno riposte nell’attività riflessiva condotto cooperativamente per consenso sempre più generale.
Il mundus epimeteico è quello in cui i destini inerzialmente prescritti da una identità di provenienza, come sentieri lasciati alle nostre spalle, vengono metabolizzati e trasfigurati in una destinazione nuova che si apre per la collettività. E questi effetti (da cibernetica) del secondo ordine (von Foerster) sono in genere curiosamente trascurati dagli studi sul cyber-world.
Conclusioni. Per una tecnologia dei social media
Quanto fin qui detto non vale solo per il mondo 1.0, ovviamente, ma anche per il cosiddetto “cyber-world”, ovvero per quella particolarissima oggettivazione simbolica in grado di collegare, fra l’altro, ogni forma di conoscenza (forme simboliche di produzione, ovvero tanto prodotti quanto processi simbolici) con una parvenza di totale autonomia.
Prendiamo, in particolare, i social media per la cui definizione, notoriamente problematica, facciamo riferimento a Carr e Hayes (2015):
I social media sono canali di Internet che permettono agli utenti di interagire opportunisticamente e di auto-presentarsi selettivamente, sia in tempo reale che in modo asincrono, con un pubblico ampio e ristretto che trae valore dai contenuti generati dagli utenti e dalla percezione dell’interazione con gli altri.[2]
Dal punto di vista epistemologico, essi prolungano i nostri sensi, le vie del nostro esser patiens, sino ad agganciarli a quelli del nostro vastissimo e dinamico network in modi mai sperimentati prima. Essi potenziano, altresì, la nostra capacità di produrre e condividere simboli, ampliano le opportunità di appassionamento disponibili, sia questo il più effimero o il più pregiato e, in fin dei conti, ridefiniscono la realtà della nostra esperienza.
Al di là della ratio di progetto e persino di quella d’uso, quella implicita è per noi meritevole di considerazione al proposito. Dalla definizione, come dalla nostra stessa esperienza quotidiana, infatti, i social media si mostrano, tanto un nuovo canale espressivo e condivisivo, quanto una nuova avventura esperienziale, individuale e collettiva.
Come ricorda Paterno (2020):
La comunicazione umana, tuttavia, non è semplicemente il canale attraverso il quale la società si esprime: è il tessuto stesso utilizzato per costruire la società, realizzato attraverso la tessitura coordinata dei suoi costituenti.[3]
Possiamo leggere dunque i social media come tecnologia che esprime e costituisce la realtà. L’animale umano ha da sempre modificato la propria natura non solo amplificando ed estendendo il proprio apparato sensoriale naturale, ma soprattutto sviluppando un insieme di linguaggi che gli hanno consentito di potenziare la capacità immaginativa collettiva.
Comunicare non è un mero veicolare informazioni e significati, e neppure è solo un processo trasformativo di informazioni e significati: è un processo di generale trasformazione di tutti i partecipanti. Lingua, scrittura, stampa, web, in altre parole, non hanno solo aumentato enormemente il range degli accadimenti da cui arrivano segnali distinguibili, ma hanno anche sviluppato enormemente la capacità simbolica del genus, consentendo di salire gradi di astrazione prima, letteralmente, inimmaginabili. Attraverso i social media si estende oggi il campo esperienziale tecnicamente mediato e la stessa capacità mediatoria della tecnologia, il raggio sociale d’impatto di ogni evento, oltre la nostra dotazione antropologica. Infatti, non tutti gli accadimenti sono un evento, perché qualcuno deve accorgersene, riconoscerlo e costruirlo distintamente dagli altri, dandogli un nome, creando una categoria astratta: si deve modellizzarlo. La circolazione veicola, dunque, non solo informazioni e conoscenze, ma anche stimoli alla capacità di modellizzare l’accaduto e così giungere a modellare ciò che diviene una nuova (post-kantiana) esperienza possibile. Emergiamo noi stessi ri-modellati tanto nell’attuale esperire quanto nelle ulteriori possibilità (bisogni, aspettative, capacità) che cominciamo appena a intuire.
A questo riguardo, risulta però scarsa la consapevolezza che questa capacità necessita non solo di capacità tecniche ma anche di una capacità che abbiamo definito tecnologica. Se solo quegli eventi che hanno valore notiziale di fatto circolano, la nostra ratio individuale si approfondisce e sviluppa proprio mentre un’oratio pubblica si diffonde e viceversa. Questo, a mio avviso, è il tema più rilevante attorno al quale convergere per comprendere i social media. Ma la portata modellizzante delle categorie socio-epistemiche che ereditiamo dalla modernità è ormai ridotto al lumicino, governare la modellazione del mondo digitale dovrà iniziare ridefinendo proprio il nostro lessico (pensiamo a concetti quali: responsabilità comunicativa, libertà cognitiva, democrazia della conoscenza, cittadinanza scientifica, beni pubblici cooperativi ecc.). Nell’inquietudine dell’attesa di un nuovo umanesimo tecnologico, un umanesimo del secondo ordine, continuiamo a lastricare, quasi al buio, la via della civiltà verso destinazioni che rimangono incognite.
Bibliografia
- Cabitza F., Cerroni A., Locoro A., Simone C., The Knowledge stream model – A Comprehensive Model for Knowledge Circulation in Communities of Knowledgeable Practitioners, Position paper to the 6th International Conference on Knowledge Management and Information Sharing, Como, 27 maggio 2014.
- Carandini A., Roma: il primo giorno, Laterza, Bari-Roma, 2007.
- Carr C.T., Hayes R.A., Social Media: Defining, Developing, and Divining, «Atlantic Journal of Communication», vol. 23, n. 1, 2015.
- Cerroni A., Scienza e società della conoscenza, Utet, Torino, 2006.
- Cerroni A., Understanding the Knowledge-Society. A New Paradigm in the Sociology of Knowledge, Edward Elgar, Londra, 2020.
- Del Bailo F. (detto Alunno), La Fabrica del mondo. Nella quale si contengono tutte le voci di Dante, del Petrarca, del Boccaccio e d’altri buoni autori mediante le quali si ponno scrivendo isprimere tutti i concetti dell’huomo di qualunque cosa creata, Paolo Gherardo dalla Libreria dell’Aquila (in dieci volumi, più volte ristampati), Venezia, 1546-1548.
- Grandazzi A., La Fondation de Rome: Histoire, Les Belles Lettres, Paris, 1991.
- Lloyd D., Aon M.A., Cortassa S., Why Homeodynamics, Not Homeostasis?, «The Scientific World Journal», n. 1, 2001.
- Paterno D., Social communication theory revisited: the genesis of medium in communication, «Atlantic Journal of Communication», vol. 28, n. 3, 2020.
- Wiener N., Science: The megabuck era, «The New Republic», 27 gennaio 1958.
Note
[1] Le fasi che compongono il processo (spiraliforme e senza termine) di circolazione della conoscenza sono: generazione, istituzionalizzazione, diffusione e socializzazione (Cerroni, 2006; Cabitza et al., 2014; Cerroni, 2020).
[2] Social media are Internet-based channels that allow users to opportunistically interact and selectively self-present, either in real-time or asynchronously, with both broad and narrow audiences who derive value from user-generated content and the perception of interaction with others.
[3] Human communication, however, is not simply the conduit through which society is expressed – it is the very fabric used for building society itself – accomplished through the coordinated weaving of its constituent parts.