Sebbene la prospettiva possa sembrare lontana nel tempo, collocata in un remoto futuro, quasi uno scenario da romanzo di fantascienza, la possibilità di affidare l’esercizio della giurisdizione penale a una intelligenza artificiale diventerà realtà prima di quanto s’immagini e il ricorso a essa sarà solo l’eventuale risultato di una scelta politica.
L’Agenzia per l’Italia Digitale (AGID) ha riportato nel suo Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino una linea temporale per indicare i possibili avanzamenti dell’IA: si prevede che l’IA possa sostituire l’uomo in ogni attività entro l’anno 2061 (AGID, 2018). Quindi, entro tale data, potremmo avere un giudice robot.
Giudici e avvocati, sul punto, sono parecchio scettici e per due ordini di motivi. Il primo è che, dicono i giuristi, mai un’intelligenza artificiale potrà replicare la complessità del cervello umano, soprattutto di quello necessario per dipanare un ragionamento giuridico. Il secondo è che se è difficile per un essere umano assumere le prove attraverso l’esame dell’imputato o ricorrendo a testimoni, figuriamoci come potrebbe esserlo per una macchina: se la prova – l’input – deve essere comunque immessa da un essere umano, il giudice robot non sarà artefice della sentenza – l’output.
Questi due rilievi, in verità, non tengono conto della velocità delle innovazioni tecnologiche. Quanto al primo, la ricerca non si sta indirizzando nel senso creare qualcosa di alternativo al cervello umano, bensì di emularlo. La via dell’emulazione globale del cervello non richiede di capire come funziona la cognizione umana né come programmare un’IA, ma solo di comprendere le caratteristiche funzionali di basso livello degli elementi computazionali basilari del cervello, al fine di produrre un software intelligente attraverso la scansione e la costruzione di un modello fedele della struttura computazionale di un cervello biologico (Bostrom, 2018).
Mettiamo che si vogliano replicare i cervelli di due famosi giuristi, quello dell’avvocata Giulia Bongiorno o del giudice Piercamillo Davigo: si dovrebbe realizzare una scansione sufficientemente dettagliata del loro cervello per metterne in evidenza le diverse proprietà strutturali e chimiche. Successivamente, i dati grezzi della scansione verrebbero inseriti in un computer per l’elaborazione automatica delle immagini, per ricostruire la rete neurale tridimensionale che implementava la cognizione nel cervello originario. La mappa risultante verrebbe poi combinata con una libreria di modelli neurocomputazionali di diversi tipi di neuroni e di elementi neuronali con le loro particolari congiunzioni sinaptiche. Il risultato sarebbe una perfetta emulazione di un cervello, il cervello di un giurista, replicabile, funzionante, pronto a esercitare le funzioni di giudice. Ed è un risultato tutt’altro che lontano nel tempo.
Quanto al problema dell’acquisizione delle prove, quelle attraverso le quali si giunge a una sentenza, questo è ancora di più facile risoluzione: presto «scanner neurali potranno rivelare menzogne e inganni premendo un bottone. Mentire implica l’attivazione di aree del cervello differenti da quelle attivate quando si dice la verità. In un futuro abbastanza prossimo scanner a risonanza magnetica potrebbero funzionare come infallibili macchine della verità» (Harari, 2017). L’IA, perfetta emulazione del cervello di un giurista, avrebbe le sue prove incontrovertibili per emettere una sentenza.
Certo, occorre stabilire se vogliamo davvero il giudice robot e, per farlo, dobbiamo interrogarci sulle ragioni che potrebbero indurre l’uomo ad affidare la decisione di un processo a una macchina. Quando si tratterà di scegliere quali lavori devono essere eseguiti dagli automi, è facile pensare che si preferirà lasciare alle macchine quei lavori dull, dirty, dangerous (Lin, Abney e Bekey, 2011), mentre l’uomo vorrà continuare a esercitare quelle professioni e a svolgere quei mestieri maggiormente gratificanti; nondimeno, quelle professioni che implicano per statuto, l’esercizio del potere come quello di giudice, forse rientreranno in questo novero. Però, non poche sono le motivazioni a spingere verso il giudice robot.
La prima motivazione che ne giustifica la scelta è quella di rendere obiettiva l’amministrazione della giustizia, puntando alla certezza del diritto, un traguardo da sempre perseguito dai giuristi. Il diritto nasce per attribuire certezza alle relazioni umane (Luhman, 1972). La certezza deve passare, da un lato, dall’oggettività delle norme nella loro formulazione e interpretazione, e, dall’altro, da un giudice realmente terzo, che non partecipi neanche per ipotesi alla contesa tra gli interessi contrapposti delle parti[1].
Certezza, inoltre, significa che deve essere possibile averne il controllo: se il diritto è oggettivo, nel senso che si fonda una base di regole predeterminate e vincolanti, allora deve essere possibile prevederne l’applicazione (Viola, 2017)[2]; un mercato prevedibile è essenziale per l’esercizio dell’attività d’impresa e per le sue strategie di investimento (Irti, 2016).
Ancora: certezza vuol dire anche uniformità di giudizio, affinché, in virtù del principio di cui all’art. 3 Cost., fattispecie uguali abbiano il medesimo esito giudiziale. Infine, la certezza richiede anche, in ossequio ai principi del giusto processo ai sensi dell’art. 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), che il processo sia celebrato in un tempo ragionevole.
La seconda motivazione è quella di perseguire una maggiore efficienza nelle prestazioni giurisdizionali, maggiore rispetto a quelle che un giudice umano potrebbe garantire. Di fronte allo sconsolante panorama di una giustizia lenta perché oberata di una mole sproporzionata di procedimenti pendenti, forte potrebbe essere la tentazione di ricorrere a un giudice robot per deflazionare il carico di lavoro dei tribunali, a patto però che «la prestazione robotica e quella umana si equivalessero in termini qualitativi e soddisfacessero quel principio della tutela giurisdizionale effettiva che la giurisprudenza ha da tempo valorizzato» (Luciani, 2020). Con un giudice robot gli obiettivi della certezza e dell’efficienza sarebbero a portata di mano.
Quanto all’efficienza, bisogna partire da un dato di fatto: il cervello umano è uno strumento meraviglioso ma limitato; di certo, i neuroni biologici sono meno affidabili di quelli artificiali. Il cervello si affatica dopo alcune ore di lavoro, la sua attenzione è volatile, legata a mille variabili; le sue prestazioni poi iniziano a decadere in modo irreversibile dopo alcuni decenni di vita. I cervelli robotici, invece, non conoscono questi limiti: non si stancano, possono lavorare indefessamente per giorni, settimane, mesi interi, allo stesso ritmo, senza andare mai in sovraccarico. Le loro prestazioni non decadono con il tempo, anzi si possono ottimizzare riconfigurando l’intelligenza artificiale in funzione della necessità del momento. Un cervello umano non possiamo riconfigurarlo, la sua struttura è in gran parte determinata al momento della nascita e può variare in minima parte, assai lentamente, a costo di notevolissimi sforzi profusi in un arco di tempo considerevole: ci vogliono istruzione, educazione, allenamento e cure continue. Per questo, un cervello artificiale saprebbe sostenere carichi di lavoro inimmaginabili per un essere umano. Un robot potrebbe celebrare udienza ventiquattrore su ventiquattro, stilare sentenze in tempi brevissimi potendo accedere in tempo reale a uno sterminato bagaglio giurisprudenziale.
Quanto alla certezza, per la magistratura è assolutamente impossibile raggiungere al suo interno un’uniformità di giudizio, nonostante la spinta nomofilattica offerta dalle pronunce della Cassazione. Di qui le sentenze che si contraddicono di fronte a fattispecie del tutto simili, se non addirittura uguali, con il giudice di Palermo che sentenzia in maniera differente, se non opposta, da quello di Bolzano. Quante volte abbiamo visto il secondo grado ribaltare il giudizio emesso dal giudice di prime cure? E poi ancora in Cassazione, con i processi di rinvio che si accavallano. Lo sconcerto che s’ingenera nella cittadinanza è il germe del dubbio che quella sentenza sia davvero giusta. E il dubbio elide l’efficacia del giudicato, perché se il cittadino non confida nell’equità e nell’efficienza del sistema, finisce per non ricorrervi più. Per ovviare a questo problema si potrebbe ricorrere a giudici robot, collegati in rete tra loro, che si coordinino nel raggiungimento degli obiettivi, che sappiano tutti in tempo reale come affrontare questo o quel caso, in modo che fattispecie uguali ricevano la stessa sanzione.
Inoltre: cosa ha indotto l’umanità a fondare l’istituzione stessa del processo? Forse l’insensata speranza di spersonalizzarlo, quasi si volesse estrarre l’umanità dal giudice per farne la mera appendice di una verità perfetta e oggettiva. L’uomo, affidandosi ai robot, avrà l’opportunità di creare con le proprie mani quello che non è mai esistito: un giudice sapiente e instancabile, incorrotto e incorruttibile, che incarni la volontà del legislatore perché lui, il robot, non ha una sua volontà, non condivide le umane passioni, non conosce antipatie, non ha pregiudizi, non ha una vita sua che faccia d’intralcio, la quale, in quanto vita artificiale è votata meramente al giudizio, la sua unica funzione è quella di applicare la legge.
Se, per alcuni aspetti, la prospettiva di una decisione robotica nell’amministrazione della giustizia può essere preferibile o auspicabile, bisognerebbe verificare se tale deriva – dati normativi alla mano – sarà concretamente praticabile; inoltre, questa analisi andrà condotta con particolare riguardo al processo penale, posto che in ambito civile, vertendo spesso di diritti disponibili, si possono ipotizzare meno ostacoli all’avvento del giudice robot. In alcuni ordinamenti, per giunta, questa è una prospettiva molto prossima alla realtà[3], mentre già si enucleano i principi generali da applicare all’intelligenza artificiale nel giudizio[4].
Fin da ora, si può dire che, nel processo penale, sussistono gravi e forse insormontabili ostacoli all’introduzione del giudice robot, ostacoli che discendono dalla nostra Costituzione.
In prima istanza, bisogna chiedersi: come deciderà il robot? Quali saranno i puntelli della sua deliberazione? È necessario consegnargli i mattoni con i quali edificherà la struttura di una sentenza, perché sia solida e alta, ovvero istruirlo inserendo nella sua memoria tutti i possibili repertori giurisprudenziali (Castelli, Piana, 2018). In questo modo si potrebbe contare su un dato oggettivo e incontrovertibile e perciò calcolabile.
Ipotizziamo di caricare nella memoria di un robot tutta la giurisprudenza necessaria a decidere i casi che gli verranno sottoposti. Fino a quando dovrà essere risalente nel tempo questa giurisprudenza? A dieci, venti, trenta, cinquanta, cento anni prima? E non si finirebbe così per mettere nel repertorio giurisprudenziale anche dei precedenti che contrastano l’uno con l’altro? Spesso le pronunce della Cassazione si contraddicono a vicenda, pure quelle dettate dalle Sezioni Unite. Di fronte a un contrasto giurisprudenziale dovremmo fornire al robot il criterio per risolverlo. E quale dovrebbe essere? Quello di adottare la decisione corrispondente alla maggioranza dei precedenti? E se non c’è una maggioranza? E se non ci sono precedenti? Che fa il robot, va in panne perché non ha istruzioni? Un giudice umano decide sempre, perché il giudice crea il diritto. Il robot sarebbe capace di farlo senza istruzioni preventivamente installate? E quand’anche si riuscisse a farlo, «vincolare il robot alla giurisprudenza pregressa impedisce l’evoluzione degli indirizzi giurisprudenziali e preclude al diritto la possibilità di esercitare la sua funzione primaria: rispondere ai bisogni umani regolando umani rapporti corrispondentemente alle esigenze sociali del momento storico» (Luciani, 2020).
Ma la pietra tombale sulla questione sarebbe un’altra: legare la decisione del robot alla giurisprudenza viola apertamente l’art. 101, secondo comma, della Costituzione: i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Appunto, sono soggetti alla legge, non alla giurisprudenza. Ancora: si è detto poc’anzi che i giudici robot sarebbero collegati in rete per decidere in maniera uguale fattispecie uguali. Questo cozza con il dettato dell’art. 25 della Costituzione: Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge. Il super giudice ubiquo, che tutto vede e conosce, è quanto di più distante si possa immaginare dal giudice naturale e, soprattutto, da un giudice veramente indipendente (di parere opposto Casonato, 2019). Inoltre, il giudice robot finisce per annichilire un altro diritto costituzionale[5], quello sancito dall’art. 24, secondo comma: La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Che senso avrebbero le argomentazioni di un avvocato di fronte a un giudice che, grazie ai suoi algoritmi, pronuncia le sue sentenze rispettando alla perfezione l’intero corpo delle leggi secondo l’interpretazione più recente e illuminata della giurisprudenza? Se il robot decide sulla base di un algoritmo predeterminato, «non si comprende come sull’algoritmo, da assumere come un a priori, potrebbero incidere le difese tecniche dell’avvocato» (Luciani, 2020).
Un avvocato cerca di indirizzare la decisione del giudice nel senso più favorevole al proprio cliente, è questa la sua funzione, il senso del suo essere. Con un robot non potrebbe farlo neanche volendo. Pensiamo, per assurdo, che le sue deduzioni logiche dovessero far mutare la decisione di un giudice robot: allora bisognerebbe dire che l’algoritmo che interpretava la norma applicabile alla fattispecie era viziato fin dal momento in cui era stato immesso nel codice macchina. Il che distruggerebbe la credibilità dell’intero sistema. In un processo automatico, gli avvocati non hanno alcuna funzione: semplicemente non servono.
Infine, non esistono macchine infallibili, «che si tratti di hardware, di software o di difettosa immissione dei dati rilevanti, qualsivoglia macchina può sbagliare» (Luciani, 2020). L’errore robotico non è mai davvero della macchina ma è sempre un errore umano, errore nella progettazione della macchina, errore nella scrittura dell’algoritmo, comunque un errore commesso dall’uomo. Ma come faremo ad accorgerci della ricorrenza di un errore se l’errore della macchina è tendenzialmente invisibile[6]? Avvocati, giudici di appello, le parti stesse dovranno essere tutti ingegneri informatici per scovare l’errore nell’algoritmo del giudice robot? Inoltre, se la decisione robotica dipende dall’algoritmo utilizzato, è evidente che quell’algoritmo non potrà essere redatto da un semplice tecnico cibernetico, dovrà essere scritto dal legislatore, il quale solo sarà in grado di stabilire, in forza del mandato affidatogli dall’elettore, i criteri che il giudice dovrà seguire per emettere una sentenza. Quindi anche il legislatore dovrà essere un tecnico cibernetico (Avitabile, 2017) e ogni branca del diritto si ridurrà a questo: dalla scrittura dei codici si passerà a quella degli algoritmi, con buona pace della pubblicità e della chiarezza che deve avere ogni testo di legge, mentre, in riferimento al processo, questo violerebbe il principio di oralità versato nell’art. 111, terzo comma, della Costituzione.
In conclusione, appaiono numerosi e fondati i dubbi sull’eventuale ricorso ai giudici robot nell’amministrazione della giustizia penale. Noi tutti, magistrati, avvocati, giuristi, semplici cittadini possiamo controllare e criticare la cultura di un giudice molto più facilmente di quanto possiamo fare con la cultura di un ingegnere cibernetico o di un programmatore, di certo più di quanto faremmo con una stringa di codice all’interno di un algoritmo. Se proprio bisogna scegliere qualcuno di cui non fidarsi, forse è meglio non fidarsi di un giudice, perché siamo in grado di controllarlo, criticarlo, comprenderlo (Luciani, 2020) e scegliamo un essere umano, non una macchina, che non possiamo controllare, non un algoritmo, che non possiamo capire, a svolgerne le funzioni. Dai giudici robot vogliamo la perfezione e pretendiamo che sia l’essere umano, che è imperfetto per sua natura, a infondergliela[7]: una pretesa paradossale. L’intelligenza artificiale deve supportare il giudice umano (Riccio, 2019), non sostituirlo, perché non potremo auspicare nulla di meglio di un essere umano sullo scranno più alto del tribunale.
Bibliografia
- AGID, Libro Bianco sull’Intelligenza Artificiale al servizio del cittadino, marzo 2018.
- Avitabile L., Il diritto davanti all’algoritmo, «Rivista italiana scienze giuridiche», n. 8/2017.
- Barbaro C., Uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari: verso la definizione di principi etici condivisi a livello europeo?, «Questione Giustizia», n. 4/2018.
- Bassoli, L’intelligenza artificiale applicata alla giustizia: i giudici-robot, «Altalex», 7 giugno 2019.
- Bostrom N., Superintelligenza, Bollati Boringhieri, Torino, 2018.
- Carleo A. (a cura di), Calcolabilità giuridica, Il Mulino, Bologna, 2017.
- Carleo A. (a cura di), Decisione robotica, Il Mulino, Bologna, 2020.
- Casonato C., Costituzione e intelligenza artificiale: un’agenda per il prossimo futuro, «Rivista di BioDiritto», secondo numero speciale 2019.
- Castelli C., Piana D., Giustizia predittiva. La qualità della giustizia in due tempi, «Questione giustizia», n. 4/2018.
- Irti N., Un diritto incalcolabile, Giappichelli, Torino, 2016.
- Leibniz G.W., Principi ed esempi della scienza generale, in Scritti di logica, a cura di F. Barone, Mondadori, Milano, 2009.
- Lin P., Abney K., Bekey G., Robot ethics: Mapping the issues for a mechanized world, «Artificial Intelligence», vol. 175, n. 5-6, aprile 2011.
- Luciani M., La decisione giudiziaria robotica, in Decisione robotica, a cura di A. Carleo, Il Mulino, Bologna, 2020.
- Luhmann N., Sociologia del diritto, Laterza, Bari, 1972.
- Riccio G., Ragionando su intelligenza artificiale e processo penale, «Archivio penale», n. 3/2019.
- Satta S., Il mistero del processo, Adelphi, Milano, 1994.
- Turing A.M., Macchine calcolatrici e intelligenza, in La filosofia degli automi, a cura di V. Somenzi, Boringhieri, Torino, 1965.
- Viola L., Giustizia predittiva, voce in Diritto on line Treccani, 2017.
- Weber M., Die Wirtschaft und die gesellschaftlichen Ordnungen, in Economia e società, a cura di M. Di Palma, Donzelli, Roma, 2005.
- Zellini P., La dittatura del calcolo, Adelphi, Milano, 2018.
Note
[1] Così Satta (1994): «Nulla, diciamo la verità, è più noioso di questi codici, per chi li legga senza l’occhio dello storico o del filosofo: una sfilza di norme regolamentari che intralciano l’azione più di quanto non l’assistano nel suo svolgimento. Ma ognuna di queste norme fissa una secolare esperienza, tutta l’esperienza di questa povera umanità che ha affidato al giudizio le sue sorti e trema di fronte all’immane potenza di questo giudizio. Si direbbe quasi che tutto lo sforzo degli uomini, con queste leggi del processo, con l’istituzione stessa del processo, sia diretto all’assurda speranza di obiettivare, di spersonalizzare il giudizio, di ridurre il giudice a un puro tramite umano di una verità che sta fuori e sopra di lui».
[2] Quanto alla giustizia predittiva, già nel 1666 Leibniz affermava che «tutte le questioni di diritto puro sono definibili con certezza geometrica», evidenziando la possibilità di utilizzare modelli di giustizia predittiva con il ricorso a modelli matematici (cfr. Leibniz, 2009). A sua volta, Max Weber spiegava come l’economia mondiale può crescere mediante il ricorso ai contratti ma questi richiedono che il diritto funzioni in modo calcolabile alla luce di regole razionali: la razionalità formale passa dalla calcolabilità completa dell’ordinamento giuridico. Cfr. Weber, 2005: «Le parti, un giorno, di fronte a una disputa, potranno sedersi e procedere a un calcolo».
[3] L’Estonia ha deciso di sperimentare dei robot che svolgano la funzione di giudici per risolvere le controversie di minore entità, fino a € 7.000,00, al fine di smaltire l’arretrato, creando un sistema di intelligenza artificiale in grado di svolgere la funzione di giudice, il sistema ideato prevede che le parti carichino atti e documenti su una piattaforma per poi lasciare a un algoritmo la decisione, salva la possibilità di fare appello a un giudice umano (cfr. Bassoli, 2019).
[4] La Commissione europea sull’efficacia della giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa nel 2016 ha intrapreso l’elaborazione di una Carta etica europea sull’uso dell’intelligenza artificiale nei sistemi giudiziari (cfr. Barbaro, 2018). In particolare, la Carta enuncia i seguenti principi: principio del rispetto dei diritti fondamentali; principio di non discriminazione; principio di qualità e sicurezza; principio di trasparenza; principio di garanzia dell’intervento umano.
[5] Corte Costituzionale, sentenza n. 125 del 1979: «Per il nostro ordinamento positivo, il diritto di difesa nei procedimenti giurisdizionali si esercita, di regola, mediante l’attività o con l’assistenza del difensore, dotato di specifica qualificazione professionale».
[6] Zellini (2018) cita Novalis: «L’uomo per pigrizia desidera un puro meccanismo o una pura magia». Il calcolo algoritmico sembra offrire tutte e due le cose in una volta.
[7] Sul punto, cfr. Turing, 1965: «Se si aspetta che la macchina sia infallibile, allora essa non può anche essere intelligente».
Buongiorno, complimenti per lo scritto, interessante e stimolante. Vorrei fare un paio di osservazioni.
La prima è che potremmo immaginare l’intelligenza estesa o artificiale come un supporto alla giustizia e non un suo totale sostituto, almeno in questo presente e prossimo futuro.
Ad esempio, il supporto rispetto alle prove non riguarderebbe tanto lo scanning del cervello per capire se un testimone dica o meno la verità, che è un’applicazione discutibile, ma lo scanning delle migliaia e migliaia di pagine di atti per rilevarne le contraddizioni, le violazioni, le libere interpretazioni, l’uso distorto o la trascuratezza delle prove, incluse quelle in difesa dell’imputato. Un supporto alla rigorosità delle argomentazioni.
La seconda è che non è vero che l’avvocato diventerebbe inutile, o per lo meno non sarebbe piu’ inutile del PM o del Giudice. E’ una visione distorta quella che vede nell’avocato un falsificatore che mira a piegare le cose a favore del suo cliente. L’avvocato ha lo stesso approccio dell’accusa. O meglio, non è forse anche l’accusa impegnata a dimostrare una sua tesi attraverso argomentazioni?
Al fragile sistema della giustizia italiano gioverebbe l’uso di sistemi di intelligenza artificiale perchè spazzerebbe molti bias spesso legati alla visione dell’imputato come colpevole e dell’impalcatura dell’amministrazione della giustizia come vocata a perseguire colpe che da qualche parte si nascondono.
Il diritto, la persona innocente fino a prova contraria ne gioverebbe.
L’accusa umana sarebbe facilitata nella raccolta delle prove e nell’argomentazione, senza dover costruire scenari improbabili ma affascinanti, cosi’ come la difesa umana, che non si troverebbe a dover smontare, con mezzi tutti da inventare, costrutti incoerenti ma avvincenti, entrambe tenendo salda la barra sulla ricerca del vero e del giusto.
E al giudice umano sarebbe facilitato il compito di emettere sentenze giuste senza il dovere di giustificarsi con 1200 pagine di motivazioni.