Durante le prime fasi dell’escalation bellica in Ucraina Dimitry Rogozin, direttore generale di Roscosmos, ha espresso senza mezzi termini la posizione dell’Agenzia Spaziale Russa nei confronti delle sanzioni con cui l’occidente ha reagito al conflitto sul suolo ucraino. Tra le altre esternazioni via social, Rogozin ha invocato la revoca delle sanzioni imposte alla Russia paventando lo spettro dell’interruzione del funzionamento delle navicelle russe che riforniscono la Stazione Spaziale Internazionale (ISS) come conseguenza delle misure di pressione economica contro Mosca. Tale circostanza avrebbe interessato il segmento russo della Stazione da cui dipende la correzione dell’orbita dell’avamposto umano nello spazio, così ridotto a bieco mezzo di intimidazione: dalle parole del responsabile di Roscosmos si deduceva infatti non solo che la più grande esperienza di collaborazione nello spazio sarebbe giunta al termine, ma anche che lo spegnimento delle componenti russe legate alla ISS avrebbe potuto causare lo schianto della stazione su suolo europeo o statunitense.
Abbiamo poi assistito alle desolanti immagini degli addetti allo spazioporto di Baikonur intenti a coprire le bandiere dei Paesi partner del programma Soyuz. Con quel gesto, la Russia ha voluto porre simbolicamente fine, auspicabilmente in via provvisoria, a più di cinquant’anni di collaborazione e sforzo comune per raggiungere lo spazio a beneficio di tutta l’umanità.
Con tali premesse, più di una voce ha sollevato un ulteriore preoccupante interrogativo legato proprio alla Stazione Spaziale Internazionale, nella triste ironia del suo ambivalente ruolo nella nuova situazione di deterioramento delle relazioni intergovernative, in cui si è trovata a essere contemporaneamente oggetto di minaccia e unica occasione non interrotta di pacifica coesistenza e collaborazione a livello statale tra la Russia e le altre nazioni coinvolte nel progetto. Una volta accertata la mancanza di ogni concreto fondamento delle allusioni alla possibilità di un rientro incontrollato della ISS, infatti, l’attenzione si è immediatamente concentrata sull’equipaggio a bordo della Stazione in orbita attorno alla Terra. In particolare, da più parti si è levata una comprensibile preoccupazione intorno al rientro dell’astronauta statunitense Mark Vande Hei dai 355 giorni di missione che gli sono valsi il primato USA in termini di permanenza nello spazio. La preoccupazione nasceva dalla circostanza che il rientro dell’astronauta sarebbe avvenuto per mezzo della navetta russa Soyuz la quale, in aggiunta, al termine del viaggio di rientro atterra su controllo di Roscosmos nel territorio del Kazakhstan.
È facile intuire come in una situazione incredibilmente tesa a livello di rapporti internazionali, in cui al conflitto sul campo in Ucraina risponde una fitta trama di misure economiche sanzionatorie e l’interruzione delle relazioni diplomatiche, gli analisti impegnati nella valutazione dei risvolti spaziali del conflitto ucraino abbiano immaginato che tale circostanza potesse rappresentare una facile occasione per perpetrare un gioco di forza di cui hanno già fatto le spese programmi di inestimabile valore scientifico come ExoMars[1].
Prontamente interrogato sulla questione, il program manager per la Stazione Spaziale Internazionale al Johnson Space Center di Houston, Joel Montalbano, non ha tuttavia avuto remore a bollare come pure speculazioni le teorie in base alle quali l’astronauta statunitense sarebbe stato in pericolo laddove fosse rientrato per mezzo della Soyuz insieme ai cosmonauti Shkaplerov e Dubrov. Montalbano ha anzi assicurato senza esitazione che il rientro di Vande Hei sarebbe avvenuto come programmato, e senza che l’atterraggio sotto il controllo di Mosca avrebbe comportato alcun tipo di pericolo per la sua sicurezza o per quella dell’unità medica e di recupero che avrebbe avuto il compito di assisterlo e di riportarlo sul suolo statunitense.
E così è stato. L’astronauta statunitense è rientrato dalla sua permanenza record sulla ISS esattamente come da programma, viaggiando senza alcun tipo di imprevisto a bordo della navetta Soyuz assieme ai due cosmonauti russi che con lui hanno fatto ritorno a terra sul suolo della steppa kazaka. Da lì, una volta compiuti gli accertamenti di rito, Vande Hei ha fatto tranquillamente rientro negli USA, senza che le terribili circostanze che hanno comportato un deciso deterioramento delle relazioni diplomatiche USA-Russia sortissero alcun tipo di effetto sul programma stabilito in tempi geopoliticamente migliori. Tutto si è svolto in modo impeccabilmente prevedibile, e gli addetti ai lavori direttamente coinvolti non hanno mai nutrito alcun dubbio sull’interesse e l’affidabilità di Mosca nell’assicurare all’astronauta statunitense di tornare a terra.
Questa sicurezza e la fiducia nell’operato di Roscosmos non costituisce un atto di ottimismo da parte di Washington: alla sua base ci sono il diritto umanitario e gli obblighi già previsti dalla disciplina delle acque internazionali, estensibili per similitudine e identità di presupposti a quanto avviene nello spazio. Ma non solo: a blindare la sicurezza degli astronauti interviene direttamente il diritto dello spazio, con due dei trattati fondamentali che disciplinano l’azione umana fuori dall’atmosfera terrestre e tutte le operazioni che ne fanno da contorno: il Trattato sullo spazio e l’Accordo sul salvataggio[2]. Precisamente, tra gli articoli dedicati alla sicurezza degli astronauti spicca il particolare status internazionalmente a loro riconosciuto: nell’espletare la propria missione nello spazio, essi sono considerati come ambasciatori di tutta l’umanità.
L’Accordo sul salvataggio è entrato in vigore il 3 dicembre 1968 con lo scopo di rimediare per quanto possibile alla eccessiva vaghezza e difficoltà di interpretazione di cui soffre l’articolo 5 del suo fratello maggiore e più conosciuto, nato solo un anno prima. Tale articolo tracciava le basi per garantire diritti e cristallizzare obblighi legati alla sicurezza delle persone nello spazio: un intervento chiarificatore era indispensabile per garantire un minimo di applicabilità a una delle norme più concretamente rilevanti per le missioni spaziali.
Il fondamentale articolo 5 del Trattato sullo spazio elenca nei suoi tre paragrafi i doveri di assistenza posti in capo agli Stati parti e quelli gravanti sugli stessi astronauti chiamati a soccorrere chi dovesse trovarsi in una situazione di pericolo nello spazio. La sua chiosa d’apertura, tuttavia, non riguarda strettamente questo tema. Conferisce invece ai soggetti a cui l’articolo è dedicato, gli astronauti, un particolare status apparentemente simbolico, ma che si spiega in ragione dell’obbligo di condivisione universale dei risultati delle missioni che sono chiamati a compiere. In realtà, lo status di ambasciatori è in grado di garantire agli astronauti un ulteriore grado di protezione, soprattutto laddove le circostanze geopolitiche rilevanti per la loro sicurezza siano mutate durante la permanenza nello spazio.
Si tratta di una premessa fondamentale al fine di ricollegarne l’intero testo al diritto internazionale classico, assicurando la maggiore tutela possibile e ribadendo la volontà del legislatore internazionale di riaffermare l’imprescindibile natura pacifica e votata alla collaborazione dello spazio e di tutte le attività che in esso vengono svolte. «Gli Stati contraenti considerano I cosmonauti come ambasciatori del genere umano nello spazio extra-atmosferico (…)»: dopo accese discussioni e prevedibili compromessi, è questa la soluzione che le Nazioni Unite ritennero di adottare per assicurare obblighi e diritti riguardo alla sicurezza degli astronauti, a cui venne pertanto riconosciuto lo status diplomatico.
Da tale status internazionalmente riconosciuto deriva il riconoscimento agli astronauti dell’immunità diplomatica, codificata a livello internazionale dalla Convenzione di Vienna del 1961 e già in uso a livello consuetudinario da migliaia di anni con lo scopo di mantenere aperti canali di relazione internazionale anche durante periodi di conflitto. Si tratta di una forma di immunità legale determinata dal fatto che, formalmente, in corso di missione i diplomatici stanno rappresentando la propria nazione. In caso di situazioni di conflitto o semplicemente di tensione tra nazioni, l’immunità diplomatica è in grado di assicurare che coloro che ne sono provvisti possano beneficiare di passaggi sicuri, oltre a non essere perseguibili dalla legge del Paese ospitante, sulla base dell’automatico mutuo riconoscimento di tale privilegio desunto dall’adesione degli Stati alla Convenzione di Vienna.
Il Trattato sullo spazio ha visto la luce ai tempi della Guerra Fredda, e proprio la contingenza della divisione globale in blocchi di influenza contribuì enormemente allo spirito di collaborazione e volontà pacifica che permea l’intero testo del Trattato sullo Spazio, e che ha condotto l’assemblea internazionale a volere gli astronauti come emissari non (solo) di una singola Nazione ma di tutta la Terra. Mai come oggi possiamo apprezzare la lungimiranza di quelle poche parole a cui per più di mezzo secolo l’intera comunità degli Stati terrestri ha guardato per creare il clima di collaborazione, rispetto e reciproca fiducia che ha permesso agli astronauti di lavorare per il bene di tutta l’umanità senza dover temere alcun genere di ripercussione come conseguenza delle mutevoli circostanze geopolitiche e dei conflitti che affliggono il nostro pianeta.
Gran parte del Trattato sullo spazio è vittima della necessità di riassumere in un testo posizioni eufemisticamente definibili lontane, interessi diametralmente opposti e sensibilità sideralmente distanti l’una dall’altra. Non fa eccezione l’articolo dedicato al salvataggio degli astronauti, che pecca nel suo esordio di una vaghezza tale da renderlo virtualmente di difficile applicazione. La prima cosa da fare per scongiurare il pericolo di una inapplicabilità della norma per eccessiva indeterminatezza era determinare con maggior precisione a quali soggetti si riferiva. La soluzione adottata dal Rescue Agreement voleva essere di carattere estensivo: secondo il suo articolo 8, a poter godere dei diritti relativi al salvataggio in caso di pericolo nello spazio sono tutti i componenti dell’equipaggio dei mezzi spaziali. Questa determinazione è stata per mezzo secolo assolutamente valida, soddisfacente per tutte le Nazioni interessate e priva di qualsivoglia problematicità a livello pratico: fino a poco tempo fa, infatti, tutti coloro che andavano nello spazio erano astronauti nel senso più stretto del termine, ovvero personale altamente qualificato facente capo ad agenzie spaziali nazionali e conseguentemente a governi statali. Ne deriva che, se non si è mai del tutto sopito il dibattito sui requisiti tecnici e altimetrici necessari per definire la quota oltre la quale il vettore e il suo equipaggio entrano effettivamente nello spazio extra-atmosferico, al contrario l’estensione della protezione correlata all’obbligo di salvataggio non destava alcun tipo di perplessità.
Come ampiamente dimostrato dagli eventi relativi al rientro a Terra di Vande Hei, è altamente improbabile che un deterioramento delle relazioni diplomatiche possa comportare alcun rischio per l’applicazione dei principi relativi al salvataggio e alla sicurezza degli astronauti. L’estensione dell’ambito di operatività di tale principio realizzata dall’Accordo sul salvataggio, inoltre, ha assicurato a tutti i membri degli equipaggi impegnati fuori dall’atmosfera terrestre il massimo grado di protezione in caso di pericolo, a cui sono obbligate a provvedere tutte le Nazioni materialmente in grado di prestare soccorso.
Con l’avvio delle missioni private e lo sdoganamento delle attività spaziali gestite autonomamente da società di capitali, tuttavia, la situazione pare essere radicalmente cambiata. Si potrebbe pensare che iniziali crepe nella solidità dell’impianto normativo cui poggia la garanzia di intervento a supporto della sicurezza personale fuori dall’atmosfera terrestre abbiano cominciato ad aprirsi con i primi viaggi turistici nello spazio. In effetti, già da una prima analisi di questa nuova frontiera dello sfruttamento economico del cosmo appare evidente che i turisti spaziali, sebbene ricevano un addestramento generico per prepararsi al lancio, non rientrino nella definizione di membri dell’equipaggio del mezzo spaziale su cui trascorrono un semplice soggiorno di piacere. Ciò è vero anche laddove si voglia dare un’interpretazione estensiva ai trattati in considerazione del fatto che, all’epoca in cui furono redatti, la categoria dei turisti spaziali non venne inclusa nel novero delle persone sottoposte a tale regime di tutela perché semplicemente inimmaginabile.
Nonostante la sicura sussistenza dei presupposti per un’interpretazione estensiva alla luce della Convenzione di Vienna, la quale prevede che un trattato debba essere inteso in buona fede e in base al contesto in cui è stato creato, nonché alla luce del suo oggetto e del suo scopo, non è infatti ammissibile un allargamento analogico che si spinga al punto di estendere a semplici vacanzieri, non impegnati in alcun genere di attività di ricerca finalizzata alla condivisione di applicazioni innovative per il bene dell’umanità, la qualifica di ambasciatori del genere umano e le relative implicazioni dal punto di vista dello status diplomatico. Allo stesso tempo, tuttavia, sarebbe totalmente illogico non ricomprendere le persone presenti nello spazio a titolo diverso da quello di astronauti o personale di bordo nella disciplina del salvataggio. In questo senso, dunque, il richiamo alla Convenzione di Vienna è quantomai corretto: anche i semplici turisti godono ovviamente delle previsioni normative strettamente legate al salvataggio nello spazio.
Il vulnus normativo, tuttavia, è in questo caso solamente apparente e di scarsa rilevanza pratica. Sebbene sarebbe senz’altro auspicabile un intervento del legislatore internazionale al fine di rivedere alla luce delle nuove possibilità di utilizzo dello spazio gli ambiti di applicazione dell’Accordo sul salvataggio, in soccorso dei soggetti non facenti parte degli equipaggi spaziali interviene già ora una nutrita serie di norme internazionali tanto codificate quanto consuetudinarie relative al salvataggio di soggetti che si trovino a essere in una situazione di pericolo. Si tratta delle norme che compongono il diritto umanitario: sebbene anche tali basilari principi che fanno da ponte tra la legge e l’umano sentimento di decenza siano sistematicamente disattese in ambiti molto più vicini a frequenti situazioni di concreta minaccia alla vita delle persone, esse sono comunque in linea di principio facilmente estensibili per analogia anche ai viaggiatori spaziali in situazioni di pericolo. La loro applicabilità per soccorrere chi si trovi in pericolo è peraltro assicurata dal principio stesso della protezione della vita e della sicurezza sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, indipendentemente dalla circostanza per cui la situazione di pericolo avvenga sulla Terra o in qualsiasi altro luogo dell’universo.
Non sono poche le aziende attivamente e concretamente impegnate per realizzare nei prossimi anni stazioni spaziali private da destinare agli usi più disparati, dalla ricerca medica alla produzione industriale fino alla creazione di hotel o persino di studios cinematografici. Se è vero che anche queste infrastrutture con il proprio personale ed eventuali ospiti a bordo sono soggette alle norme di diritto umanitario, è altrettanto innegabile che la natura privata di tali stazioni spaziali richiede di tenere in considerazione le comprensibili necessità legate a sicurezza, privacy e diritto di proprietà la cui portata va opportunamente bilanciata con i diritti e i doveri legati al rispetto della vita umana.
Non si tratta di una novità: dell’opportunità di prevedere obblighi di assistenza in capo alle navi private si era già occupato il diritto del mare, con il quale il diritto dello spazio conta innumerevoli similitudini dovute alla sua genesi che affonda le radici proprio nei fondali abissali delle acque internazionali. Di sicuro interesse è rilevare che già la UNCLOS si era preoccupata di specificare che l’obbligo di salvataggio possa venire meno laddove il suo esercizio possa costituire un pericolo per la nave stessa, per l’equipaggio o per i passeggeri. Ne deriva l’auspicio che, insieme allo straordinario sforzo ingegneristico con cui le aziende private si stanno preparando a popolare lo spazio, non si manchi di dotare tali infrastrutture della tecnologia necessaria per attuare eventuali operazioni di salvataggio senza trincerarsi dietro le eccezioni concesse per venire impunemente meno all’obbligo di soccorso. Operazioni del genere, anche tenuto conto dei rischi derivanti dalla disastrosa situazione legata ai detriti spaziali, saranno inevitabilmente sempre più frequenti con l’aumentare della presenza in orbita di infrastrutture spaziali. A questo scopo è fondamentale prendere a livello normativo le misure necessarie per bilanciare il dovere di salvataggio e l’eventualità che si arrivi a una condizione di avanzamento della popolosità in orbita tale per cui si possano verificare vere e proprie azioni di pirateria spaziale, in cui, facendo leva sugli obblighi giuridici e sulla conformazione stessa delle stazioni, esse possano essere prese di mira da atti deliberatamente offensivi. Questi potrebbero certamente essere ricondotti alla volontà statale, ma potrebbero anche configurarsi in abusi del diritto di salvataggio perpetrati da azioni totalmente riconducibili a privati concorrenti e motivati da ragioni legate a comportamenti commerciali scorretti come, ad esempio, lo spionaggio industriale.
Grazie al diritto umanitario, dunque, l’estensibilità dell’obbligo di salvataggio alle stazioni spaziali private e, come rovescio della medaglia, il diritto dei relativi lavoratori a essere soccorsi non rappresenta assolutamente un problema insormontabile. Una questione molto più problematica su questo tema deriva invece dalla prospettiva, ormai non più solamente teorica, di popolare lo spazio extra-atmosferico. Se sessant’anni fa era molto improbabile che qualcuno tra gli addetti ai lavori impegnati nella creazione del diritto dello spazio potesse prevedere l’evoluzione della commercializzazione dell’orbita terrestre, è ancora più inverosimile che tra gli astanti al dibattito nel Palazzo di Vetro qualcuno potesse immaginare che di lì a poche decadi si sarebbe iniziata a pianificare concretamente l’espansione del genere umano oltre i confini del pianeta Terra. Negli anni successivi, le difficoltà legate al contemperamento di interessi nazionali e posizioni ideologiche lontane e spesso contrapposte hanno di fatto relegato il diritto dello spazio in una dimensione obsoleta, limitandone le innovazioni a interventi marginali o la cui concretizzazione ha richiesto sforzi titanici i cui risultati sono stati spesso incompleti[3]. Ne deriva una disciplina che, sufficiente al tempo della prima corsa allo spazio, appare oggi estremamente lacunosa nel disciplinare tutte le attività spaziali che rappresentano il fulcro della New Space Economy.
Lo spazio, ambito per sua natura soggetto al diritto internazionale, si è trovato ad essere affidato alle normative nazionali che ne hanno innovato gli aspetti più rilevanti per gli interessi economici e politici del singolo stato[4]. Le leggi nazionali, approfittando del torpore del legislatore internazionale, hanno letteralmente preso il controllo dei comandi del diritto spaziale e, con una mirabolante serie di manovre, hanno fatto in modo che ciò che sta accadendo nello spazio possa risultare compatibile con quanto previsto dai Trattati. Una volta che questi tentativi di innovare nel rispetto dei Trattati sono diventati chiaramente incompatibili con la prospettiva di sfruttare economicamente lo spazio, i legislatori nazionali hanno cominciato a muoversi in totale autonomia gettando le basi per un futuro diritto dello spazio che ne rispecchia la visione e gli interessi. Un diritto dello spazio in cui la comunità internazionale è chiamata non più a partecipare allo sforzo creativo, ma semplicemente a aderire per partecipare al programma dettato dal Paese capofila[5].
Sebbene sia stato preso in considerazione dalla spinta innovatrice delle legislazioni nazionali, il tema della fondazione di insediamenti umani nello spazio è così intrinsecamente legato alla dimensione sovranazionale del cosmo da non poter essere realizzato in una dimensione nazionale. Delineare i contorni di quelle che saranno vere e proprie comunità con una propria identità e una specifica struttura che ne regolerà la vita quotidiana sarà un compito da svolgere a livello internazionale, il che porta a dover compiere una profonda riflessione sul contributo del diritto affinché, laddove lo sviluppo tecnologico sia sufficientemente avanzato da consentire di portare delle persone a vivere fuori dal pianeta Terra, la mancanza di una base normativa sufficientemente articolata da regolarne la quotidianità non condanni l’esperienza extraterrestre al fallimento.
Tale riflessione sulla regolamentazione della vita quotidiana dei privati cittadini oltre i confini terrestri deve necessariamente comprendere anche le dinamiche legate al salvataggio di chiunque si trovi nello spazio. Nel momento in cui si vogliano creare delle strutture la cui destinazione d’uso riguardi esclusivamente la finalità abitativa dei cittadini spaziali, infatti, bisogna necessariamente prevedere che il diritto di proprietà e il diritto alla privacy potrebbero subire delle limitazioni come conseguenza di eventi o situazioni che comportino un pericolo per altri.
Sarebbe d’enorme conforto poter ridurre la disanima della necessità di intervenire a sostegno del diritto al soccorso nello spazio a un esercizio di stile da parte di chi studia il diritto spaziale. Tuttavia, i drammatici contorni assunti con desolante frequenza dalle vicende legate al salvataggio di persone in pericolo nel mare disilludono dalla tentazione di trascurare l’esigenza di intervenire sul rapporto tra obbligo di salvataggio e futuro dell’espansione umana oltre i confini terrestri. È fondamentale creare regole adatte ad assicurare che, quando la navigazione spaziale non sarà più riservata a pochi esperti ed equipaggiati marinai, a ogni incidente possa corrispondere la facile individuazione di un porto sicuro in cui approdare nel rispetto della vita umana e di tutti i diritti garantiti alla popolazione spaziale.
Si tratta di una delle infinite possibilità in cui il diritto dello spazio può assumere la stessa valenza delle innumerevoli applicazioni tecnologiche che nel corso di più di mezzo secolo sono state create al servizio dello spazio per poi tornare a Terra portando benefici concreti alla vita quotidiana sul nostro pianeta. La condivisione delle regole adottate nello spazio senza bandiere, il rispetto della vita umana in quanto tale dinnanzi alla vastità dell’universo portano in sé il seme prezioso dell’esempio di cui fare tesoro e su cui fondare nuovi rapporti internazionali, più equi e votati alla pace.
Nel fondare gli insediamenti spaziali e nello scriverne le leggi si crea un nuovo modello, inedito e completamente diverso rispetto a quelli creati nei primi millenni di vita umana sulla Terra. È un’occasione irripetibile per definire la nostra identità e per muovere nella giusta direzione i nostri primi passi verso il futuro, sopra e sotto il cielo.
Bibliografia
- Best P., NASA confirms U.S. astronaut will return with cosmonauts on Russian spacecraft later this month, “Fox News”, 15 marzo 2020: https://fxn.ws/3zSFzxN.
- De Gouyon Matignon L., The Convention on the High Seas, «Spacelegalissues», 9 maggio 2019: spacelegalissues.com/the-convention-on-the-high-seas/
- Fiasconaro G., Rosalind pronto per Marte, l’Esa non demorde, «Media Inaf», 5 aprile 2022: https://bit.ly/3tBJxql.
- Harwood W., NASA confident Russia will bring U.S. astronaut home from International Space Station as planned, «CBS News», 14 marzo 2022: https://cbsn.ws/3aQXMRH.
- Hessbruegge J.A., Human Rights and Personal Self-Defense in International Law, Oxford University Press, Oxford, 2017.
- Moronese V., Non chiamatele colonie: democrazia e autogoverno degli insediamenti nello spazio, «Futuri», 26 novembre 2020: https://bit.ly/3Qn0deY.
- Romero A., FAA Definition Of ‘Astronaut’ Officially Changed On Day Of Bezos Flight, «Screenrant», 26 luglio 2021: https://bit.ly/3MUzbsl.
- Rueda Carazio A., To the Rescue of the Rescue Agreement, «EJIL:Talk!», 3 dicembre 2021: ejiltalk.org/to-the-rescue-of-the-rescue-agreement/
- Verni M.V., Il fenomeno migratorio e l’obbligo di salvataggio in mare alla luce del diritto internazionale, «Diritto.it», 30 settembre 2016: https://bit.ly/3Qlx185.
- Viscusi M., Il salvataggio nel diritto internazionale del mare, «Iari – Istituto Analisi Relazioni Internazionali», 23 novembre 2020: https://bit.ly/3QwjniO.
Note
[1] L’interruzione della collaborazione con la Russia ha spinto l’Esa a cercare strade alterative per inviare comunque il rover Rosalind Franklin su Marte senza contare sul vettore e il lander Kazachok forniti da Roscosmos. Auspicabilmente, il rover verrà lanciato con una missione a guida europea o in collaborazione con altri partner per mezzo di lanciatori e siti di lancio compatibili.
[2] Estensivamente, si tratta della disciplina derivante dalla combinazione del Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti (comunemente noto con l’acronimo di OST) e dell’Accordo sul Salvataggio degli astronauti, il ritorno degli astronauti e la restituzione degli oggetti inviati nello spazio extra-atmosferico. Anche l’Accordo che regola le attività degli Stati sulla Luna e sugli altri corpi celesti fornisce un notevole contributo su questa materia ma, essendo stata molto ridotta l’adesione a tale accordo, la sua portata è notevolmente inferiore.
[3] Ne è un esempio lo sforzo profuso dagli anni Novanta e mai sopito, ma mai pienamente realizzato, per creare una regolamentazione sufficiente a mitigare il problema legato ai detriti spaziali.
[4] Il pensiero corre immediatamente alla legislazione statunitense, particolarmente attiva su questo fronte. Ma gli USA non sono i soli a essersi attivati per creare opportunità commerciali nello spazio. Ne è un esempio il Lussemburgo, patria inaspettata di una delle normative più innovative ed incisive nel settore dell’estrazione di risorse nello spazio.
[5] Ne sono un esempio lampante gli Artemis Accords, base normativa per il programma Artemis che riporterà nei prossimi anni l’essere umano sulla Luna. Gli Accordi di Artemis sono stati di fatto proposti dagli USA agli stati partner, i quali ne hanno accettato contenuto al fine di aderire al programma.