Mara Di Berardo
Buon pomeriggio! Sono Mara Di Berardo e collaboro da anni con il Millennium Project, un network globale di Futures Studies, e con l’Italian Institute for the Future, che ha organizzato questo workshop. L’idea di questo incontro nasce dal bisogno di capire come, nell’ambito dei Futures Studies – che è un campo molto eterogeneo e con approcci diversi, con molti punti di vista e metodi diversi – si possa migliorare quella prospettiva verso il sociale che alla fine torna sempre quando si parla di futuro. Quindi ci siamo chiesti, prendendo spunto da volume di Wendell Bell e James A. Mau, che è stato pubblicato 50 anni fa nel 1971 in America, Sociologia del futuro[1]: ma qui in Italia che cosa sta succedendo? Questa sociologia del futuro così come avviata da questo volume, che parla della necessità di portare la sociologia verso uno studio del cambiamento, uno studio più dinamico della società, che parla di immagini del futuro che sono un po’ quelle aspettative che la società condivide rispetto allo stato futuro delle cose, è arrivata anche in Italia? Esiste in Italia una sociologia del futuro? Ci sono degli esponenti che possono effettivamente dirsi appartenenti a questa sociologia del futuro? Quale contributo può portare ai Futures Studies per quanto riguarda le nostre organizzazioni, ma anche per altre discipline scientifiche e sociali? La sociologia è riuscita, nei cinquant’anni dalla pubblicazione di questo volume, che parlava appunto di immagini del futuro, a portare un punto di vista più dinamico della società?
Secondo Bell le immagini del futuro sono le aspettative nei confronti di ciò che accadrà e che sono influenzate da tanti fattori: dalle credenze verso passato, presente e futuro come dai valori che le persone hanno, che sono mutevoli, diverse, possono essere in contrasto tra strutture sociali, ma anche all’interno di uno stesso individuo, che ha sempre più immagini del futuro. Queste possono essere a breve termine e/o a lungo termine, ma comunque ciò che puntualizzano gli autori è che sono fondamentali per guidare il cambiamento. Gli autori, che vanno anche a revisionare il rapporto del sociologo con la stessa disciplina della sociologia, si chiedono se la sociologia riesca, è riuscita e stia provando a portare il concetto di futuro all’interno della materia. Secondo loro si dovrebbe tentare di farlo, tentare di essere anche fautori del futuro, essere consapevoli che gli stessi sociologi sono un po’ dei “creatori di futuro” e che con la loro stessa azione, con la loro ricerca e la loro analisi della società, possono, volenti o nolenti, influire su ciò che accadrà, perché studiano le immagini del futuro e influiscono su tali immagini del futuro della società. Anche i Futures Studies hanno tante anime, forse al pari della sociologia, però in generale cercano di anticipare dei problemi che ci potrebbero essere a oggi. Così come nella sociologia si parla di molte immagini del futuro, anche nei Futures Studies si parla di molti possibili futuri che potrebbero accadere a partire da oggi. Si parla di una molteplicità di conseguenze possibili sulla base delle decisioni che prendiamo in base a quello che intravediamo, esploriamo, andando in avanti.
Molto spesso uno dei fattori più problematici dei Futures Studies è proprio il collegamento tra la previsione e l’azione stessa. Siamo molto bravi a intravedere le possibilità attraverso il coinvolgimento di esperti e utilizzando metodologie specifiche, tanti metodi e tante modalità di approcci ai futuri, come illustrano nei loro testi Jennifer Gidley e Eleonora Barbieri Masini[2]; però poi, nonostante riusciamo a intravedere dei possibili problemi e delle possibili opportunità per il futuro, il collegamento con l’azione nel presente è molto spesso problematico. Il Covid è una delle esemplificazioni di questa problematicità: ad esempio, la consapevolezza che una pandemia del genere potesse verificarsi era ben presente, il Millennium Project lo diceva addirittura dal 1997, eppure non si è fatto granché. Quindi c’è proprio un gap che va colmato – e che potrebbe anche essere colmato (noi pensiamo e speriamo) sulla base degli interventi che avremmo oggi – tra previsioni dei futuri e azione nel presente. Attraverso specifici processi la sociologia, meglio ancora di noi, può aiutare a capire come migliorare la governance anticipatoria. È per questo che abbiamo organizzato questo panel e messo insieme tre interessantissime persone: Paolo Jedlowski, Filippo Barbera, Vincenzo Pellegrino; doveva essere con noi anche Giuliana Mandich, professoressa ordinaria al Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Cagliari, che però per problemi personali non ha potuto essere qui, ma che coinvolgeremo nel prosieguo dei lavori su questo tema.
Quindi iniziamo con la prima domanda, che pongo ai nostri relatori per poter iniziare a ragionare sul tema: esiste una sociologia del futuro secondo i nostri illustri ospiti? Quale contributo può dare questa sociologia del futuro al presente e al futuro dell’umanità? E quali sono gli approcci? Esistono? Quali sono i principali approcci che dovremmo tenere in considerazione e di cui potremmo beneficiare per studiare la società e per implementare i migliori futuri possibili?.
Inizierei da Paolo Jedlowski, professore ordinario di Sociologia generale presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria, che si occupa di sociologia della cultura, editoria sociale, sociologia della vita quotidiana, storia della sociologia, rapporti tra memoria e narrazione. È considerato uno dei più interessanti sociologi italiani di questo periodo. Che ne pensi Paolo di questa domanda e di questa idea di una sociologia del futuro?
Paolo Jedlowski
Grazie a voi per avere inventato questo workshop. Abbiamo dieci minuti a testa grosso modo, quindi vado rapido con i ringraziamenti e prendo la prima domanda: esiste una sociologia del futuro? Mi ero preparato, perché ci era arrivata precedentemente, e la mia risposta è sì, però in diversi sensi che brevissimamente nomino. Intanto prendiamo i classici, e vediamo che certamente si occupano del futuro. Karl Marx lavora sul futuro dei modi di produzione, che ben concettualizza e delinea nei suoi scritti. Certamente ha una tensione verso il futuro e dice cose sul futuro. Max Weber, quando parla della gabbia d’acciaio parla del futuro, di una tendenza possibile. Potrei citare altri, ma non c’è bisogno, ne bastano due per dire che in certi casi si sono occupati del futuro. Hanno fatto una sociologia del futuro? No, ma in realtà perché la sociologia del futuro non è che esista, esiste piuttosto una sensibilità per il futuro, cosa che articolo venendo al secondo senso della mia risposta affermativa alla domanda se esista una sociologia del futuro: per forza, perché esiste una sociologia del tempo, e dentro al tempo c’è il futuro. Anche qui, però, la sociologia del tempo non è una sotto-branca della sociologia, ma è una sensibilità che, in modi a volte espliciti e ben marcati e in altri più impliciti, non può mancare a una riflessione sociologica. Il terzo senso è che esiste una sociologia del futuro perché esistono un sacco di libri e articoli di sociologi sul tempo in particolare. Ho qui davanti Alessandro Cavalli e volevo già nominarlo, quindi lo faccio. Siamo a metà degli anni Ottanta quando esce Il tempo dei giovani, una ricerca seminariale sul tempo[3]. Una ricerca empirica, ma teoricamente molto attrezzata a cui lavorano Simonetta Tabboni e Carmen Leccardi tra gli altri, che firmeranno poi dei manuali di sociologia del tempo e, ogni volta, dentro al tempo c’è evidentemente il futuro.
Tu chiedi anche che rapporto c’è con i Futures Studies: i Futures Studies sono una galassia, per cui è difficile dire quali rapporti in particolare ha con una disciplina come quella sociologica che peraltro io sento sempre con confini molto più porosi e sfumati di quanto altri non pensino. L’ho sempre vissuta come sfondante da un lato verso la filosofia (e verso tutte le altre scienze sociali, dalla storia in avanti), e ci aggiungerei anche altre cose, per esempio – riprendendo la prima Scuola di Francoforte – continuo a pensare che la psicoanalisi ci importi. Magari ci importa proprio quando ragioniamo su cose come il futuro. Qual è il contributo specifico della sociologia dentro o vicino alla galassia dei Futures Studies? Abbiamo delle ricerche che poi nominerò, e altri ne nomineranno diverse, e credo che l’apparato concettuale possiamo offrirlo. Ne prendo uno: il saggio di Niklas Luhmann The future cannot begin[4]. Luhmann non è un mio autore, non ho una passione per lui, ma in quel saggio la parte su cos’è il futuro è bellissima, con questa distinzione iniziale per cui ci sono due tipi di futuri: c’è il futuro che è il prossimo presente, i presenti futuri, quello che cerchi di prevedere; e poi c’è il futuro presente, cioè le immagini del futuro che ora sono presenti. Lui parla di “immagini”, io mi permetterei di aggiungere non solo le immagini, ma anche le tensioni verso il futuro, che stanno sia nelle azioni che nelle emozioni e nei sentimenti. Ora, questa è una distinzione concettuale che però comincia a pulire le cose. Di quale dei due parliamo? Certamente nelle indagini li troviamo sempre entrambi, ma ti occupi del futuro che è di là da venire e cerchi di pre-vedere in base alle cose che esistono, o ti occupi del futuro ora, presente nelle immagini, nelle rappresentazioni (che è un termine specificamente sociologico)? Potreste dire “ma del futuro presente perché ci importa”? Invece ci importa molto e serve proprio ai Futures Studies, come del resto tu hai accennato, perché il modo in cui si pensa al futuro è performativo. Questo discorso poi è allargato, come diceva Robert Merton, alle profezie che si auto-adempiono: produci la profezia e magari è sbagliata, ma può diventare vera per il fatto di essere stata enunciata e diffusa, e ha orientato, quindi, delle azioni. Questo vale non solo per i casi più ristretti di cui si occupava in quel saggio Merton: il modo in cui ci poniamo verso il futuro, produce futuro.
Ci sono altri concetti che potremmo esaminare; a me piace molto il concetto che ancora viene da quel saggio di Luhmann (anche se risale a più lontano) di “orizzonte d’attesa”, cioè il modo più generale di parlare di tensioni, immagini, rappresentazioni, costruzioni che riguardano il futuro. Il testo era in inglese e diceva “reason of expectation”, non nel senso di attese come star lì ad aspettare, ma come parola più larga possibile per dire tutto: dalle paure alle aspirazioni, alle previsioni, alle speranze, tutto ciò che a che fare con e che è un orizzonte, una metafora molto forte che Luhmann spiega bene. Io spero che questa espressione si diffonda di più di quanto non sia adesso. Non posso prendere il tempo ora di sviluppare la metafora, ma è veramente molto forte usare “the reason of expectation” e i suoi elementi, il modo in cui si forma e cambia ed è variabile secondo tanti fattori.
Allora, cosa può apportare la sociologia a questo campo? Prima di ricerche empiriche, un apparato concettuale che è collegato all’apparato concettuale con cui studia il tempo. Non necessariamente deve diventare una sotto-disciplina, anzi non lo vedrei con nessun favore, ma è una sensibilità per. Una sensibilità per che – aggiungerei senza poterlo sviluppare – andrebbe messa in relazione stretta con la sociologia del possibile, che di nuovo non è una sotto-sociologia, ma un’area di concetti. “Possibile” e “futuro” sono palesemente connessi, come evidente nel titolo del libro di Vincenza che tra poco probabilmente ci nominerà, che si chiama Futuri possibili[5].Io ricordo qualche conversazione fra noi in cui dicevo che il futuro è per forza un possibile, mentre il possibile non per forza è un futuro: ci sono possibili paralleli, come la fantasia ad esempio. Non so cosa ne pensi adesso, ma alla fine credo che siamo d’accordo, fatto sta che “futuro” e “possibile” vanno ragionati insieme tenendo però conto che non sono sinonimi.
Poi quanto a me, l’unica cosa di cui mi sono veramente occupato in questo campo è dei futuri passati, in un libro sulle memorie del futuro[6]. Posso dire perché l’ho fatto? Perché erano anni che studiavo la sociologia della memoria e mi invitavano sempre a parlare di memoria e, un po’ non ne potevo più, un po’ avvertivo la crescita e l’esigenza in me mentre anche tutto intorno si parlava di futuro. Tuttavia sono un neofita negli studi del futuro, quello che posso fare è usare l’esistenza delle memorie dei futuri passati. E ho scoperto, almeno per me, che possono insegnare tantissimo e lasciare tantissimo. Bisogna lavorarci sopra, possono emergere spontaneamente, ma se ci lavori veramente possono produrre molto. Questo era per dire una cosa sul sottoscritto, per mera vanità e anche per dire che ci sono dei futuri passati.
Finirei ricordando che c’è un libro che, secondo me, se fosse tradotto per noi andrebbe anche bene che è quello di Barbara Adam e Chris Groves Future Matters[7]. Un libro complesso, non ti basta un mese per leggerlo, ti resta e ci ritorni, e pensavo in particolare al capitolo sul future-making. Perché i miei amici come Giuliana Mandich, che ad esempio lavorano molto sulle rappresentazioni del futuro, che un po’ fanno futuro nel senso performativo che dicevo, troveranno molto utile quanto dice Adam sul fatto che c’è un potere di fare futuro, di programmare corsi d’azioni, istituzioni, prossimi prodotti. In un certo senso tutti noi siamo “future makers” nella nostra vita quotidiana, però qualcuno è più maker di qualcun altro. Io sento la mancanza nei nostri ragionamenti sul futuro di questa attenzione e sulla capacità differenziatissima di fare futuro, di preparare ciò che ci sarà domani. Sulla capacità di futuro so che Filippo dirà delle cose, su tutto il resto anche sceglierà Vincenza cosa dire, ma magari anche lei mi piacerebbe che sul future-making aggiungesse qualche cosa, lasciandoli liberi di dire quello che vorranno ovviamente. Grazie.
Mara Di Berardo
Grazie, moltissimi spunti… chiaramente non possiamo, in meno di un’ora, riuscire a tirar fuori tutto ciò che è coinvolto in questo argomento, ma l’idea è proprio quella di cominciare a parlarne. Dunque, esiste questa sociologia del futuro e ne siamo molto contenti, la vediamo e siamo anche noi fautori di futuro come ci stavi dicendo, ed è interessante anche questo discorso del future-making perché forse può essere davvero un trait d’union più forte e maggiormente apprezzato per la governance anticipante. Riprendendo un po’ questo spunto vorrei chiedere a Filippo di provare a ragionare insieme su questa capacità di futuro che si collega al future-making, alle immagini, un po’ a tutto quanto detto finora. Filippo Barbera è professore ordinario presso il Dipartimento di Culture, Politiche e Società dell’Università di Torino e associato del Collegio Carlo Alberto, presidente dell’associazione Forwardto: si occupa di innovazione sociale, economia fondamentale e sviluppo delle aree marginali e studi di futuri. Grazie Filippo.
Filippo Barbera
Grazie per l’invito e grazie a Paolo per lo splendido assist: adesso ho solo l’incubo dell’attaccante che butta fuori la palla con la porta vuota. Può esistere una sociologia del futuro? Il titolo del mio intervento è “Note sulla capacità di futuro”, Paolo lo sapeva perché ho condiviso queste note qualche giorno fa e lo ringrazio di averle introdotte nella sua relazione. La domanda è comune: può esistere una sociologia del futuro? La risposta di Paolo è stata sì, la mia è “sì, ma dipende”. Dipende non solo, come ovvio, come tutto e come sempre dalle prospettive teoriche alle quali si aderisce, ma anche e, in questo caso e nel mio caso soprattutto, dalla definizione sociologica di futuro.
Quanto al primo punto (quello teorico), mi rifaccio a un paper di Ruth Levitas del 2010[8], dove si argomenta in modo molto interessante che nel momento della sua nascita e istituzionalizzazione accademica nei primi anni del Novecento la sociologia britannica avrebbe potuto avere la genesi e la critica dell’utopia come impegno principale della disciplina. È una cosa che ho imparato scrivendo queste note, non la sapevo prima, lo ammetto. Questa vocazione disciplinare è difesa da H.G. Wells, il noto autore de La macchina del tempo, L’isola del dottor Moreau e La guerra dei mondi. Wells non è un nome che occupa un posto di rilievo nella storia della sociologia. Il suo appello ai sociologi, contenuto in un paper del 1906 The So-Called Science of Sociology, è caduto nel vuoto[9]. Il canone alla ricerca della legittimazione scientifica della sociologia è andato, come sappiamo, in un’altra direzione. Wells, come altri, potrebbe rappresentare l’occasione per la ricostruzione di un secondo canone, di un canone mancato, ciò che la sociologia avrebbe potuto essere, ma in effetti non è stata. Una disciplina che ha al centro l’analisi e la critica dell’utopia. Secondo Wells la creazione dell’utopia e la sua critica esauriente doveva essere il metodo proprio e distintivo della sociologia. Così non è andata… il canone non è andato in quella direzione e sarebbe interessante ricostruire in modo comparato, anche andando a guardare i processi genetici di nascita delle diverse istituzionalizzazioni della sociologia, in diversi campi nazionali, come nel caso britannico il futuro non è stato preso sul serio e non sia stato sviluppato, almeno in questi termini.
Troviamo in questa accezione di Wells una specifica declinazione del rapporto tra utopia e sociologia, diversa da quella a cui siamo più abituati, come sociologi, che declina l’utopia come explanandum e la sociologia come explanans. La sociologia come disciplina scientifica si occupa di analizzare la costruzione sociale dell’utopia, le sue dimensioni socio-cognitive, le sue determinanti strutturali, istituzionali, ma anche il ruolo che l’utopia occupa nell’azione collettiva, nella dinamica dei movimenti. Wells, invece, indica un’altra direzione, declina la sociologia come utopia. Paolo ha accennato a questo, l’idea che tra i classici ci sia la società utopica come riferimento per l’analisi di quella attuale (patologico e fisiologico in Durkheim, ad esempio, o la gabbia d’acciaio in Weber, ecc.). Il secondo versante è l’utopia come sociologia, ovvero la costruzione consapevolmente sociologica di futuri altri. In questi casi il rapporto tra sociologia e utopia non è assimilabile tanto a quello tra explanans ed explanandum, quanto alla sociologia come educazione del desiderio. L’utopia, in modo non dissimile dal canone della letteratura, creerebbe così uno spazio in cui il lettore è sollecitato non solo dal punto di vista cognitivo, ma anche da quello espressivo ed esperienziale, fino a sentire come sarebbe non solo vivere in modo diverso, ma come sarebbe desiderare in modo diverso, mettendo così in crisi la natura del presente con finalità di critica sociale ed emancipativa. Ecco di nuovo in modo frattale riproporsi una volta di più e ancora, in questa distinzione, la differenza tra sociologia come scienza sociale orientata alla spiegazione e la sociologia come disciplina critico-espressiva.
Vorrei provare a sdrammatizzare questa contrapposizione provando ad argomentare che se si guarda al tema del futuro non tanto come un problema di diverse prospettive teoriche, ma come un problema di definizione, questa distinzione si fa più sfumata. Cos’è per un sociologo il futuro? Ovviamente non è un fatto fisico.
Di quale tipo di futuro si occupa la sociologia? Vorrei provare a suggerire che la sociologia non debba solo occuparsi di futuro, ma debba occuparsi della capacità collettiva di futuro. Come vedremo, c’è un’idea di futuro che riprende in qualche modo l’insegnamento di Arjun Appadurai, legata alla capacità di aspirare, ma lo declina più in chiave di organizzazione sociale. Cos’è la capacità collettiva del futuro? Nei termini di Amartya Sen sappiamo che la capacità esprime un’idoneità o un’abilità di carattere generale, una potenzialità, un’opportunità favorevole all’acquisizione di stati di essere o di fare che l’individuo ritiene consoni ai suoi piani di vita. Per ciò che ora interessa, l’approccio della capacità rimanda alla diversità delle persone e dei contesti, cioè riconosce la complessità sia dei soggetti dell’azione, che della multidimensionalità delle condizioni di contesto nelle quali l’azione si svolge. Per questa ragione tematizzare non il futuro, ma la capacità di futuro, ci obbliga immediatamente all’uso del plurale. La sociologia non si occupa del futuro, ma si occupa dei futuri, e questa è una cosa che mi ha insegnato Vincenza. La variabilità individuale degli individui e dei contesti mette a tema la rilevanza dei futuri al plurale, piuttosto che del futuro.
La seconda specificazione, la capacità collettiva, riguarda la valenza collettiva della capacità di futuro, quindi non tanto le capacità individuali e la loro variabilità, ma la capacità collettiva e la sua variabilità. La tesi centrale di queste brevissime note è che, intesa come capacità collettiva, la capacità di futuro si sviluppa – voglio sostenere – solo in presenza di specifiche condizioni relative all’organizzazione sociale, cioè solo quando l’organizzazione sociale o i regimi di interazione o i processi decisionali permettono di valorizzare l’ambiguità, il dubbio, l’incertezza rappresentati dalla alterità. Solo in questo caso si dà una vera capacità collettiva di futuro. L’inclusione dell’altro, del diverso, del marginale nel proprio orizzonte di senso, comporta sempre incertezza e ambiguità, dove diversi futuri individuali si confrontano all’insegna dell’incommensurabilità o della dissonanza, direbbe David Stark. Senza l’altro non c’è capacità collettiva di futuro, ma solo ripetizione del presente individuale. Senza alterità non c’è alternativa.
Questa è la tesi centrale che ho messo in fila per queste note che mi piacerebbe sviluppare in futuro. Possiamo sostenere, in termini più analitici, che la valorizzazione dei futuri si ha riconoscendo la voice e quindi gli ordini del valore, le convenzioni di qualità, l’intreccio tra valore e valori dei soggetti marginali che, per l’appunto, rappresentano l’alterità. Allora la domanda diventa: come si creano queste condizioni? Come e quando l’organizzazione sociale è in grado di esprimere una capacità collettiva di futuro? Quindi due brevi risposte. La prima: quando l’organizzazione assume i caratteri del rituale alla Collins, cioè quando abbiamo interazioni ripetute, cooperative e coordinate; progettare insieme, manifestare insieme, confliggere, allestire un festival della sociologia, partecipare alla costruzione di uno spazio pubblico, ad esempio, genera persone compresenti focalizzate, con un comune focus d’attenzione, le coalizioni coordinate generano un senso di appartenenza collettiva rispetto ad un obiettivo che si vuole raggiungere. La seconda: come ci insegna Appadurai, interazioni performative intenzionali e organizzate portano a situare problemi immediati. Per riprendere un’espressione di De Leonardis in un articolo di fine anni Novanta, il tema è “la scuola di mio figlio”[10]: il mio bisogno di mamma o di papà, o di persona – bisogno fisico o bisogno sociale – alla soluzione collettiva che questo bisogno può trovare per tutti.
Una sociologia della capacità di futuro ci mostra l’importanza di analizzare empiricamente la genesi e il funzionamento di questi campi di interazione (organizzazione sociale), campi strutturati che generano nuove possibilità di riconoscimento, nuove articolazioni della vita buona, frutto della deducibilità del valore di cui sono portatori i soggetti marginali. Campi che attrezzano il diritto alla capacità di voice dei soggetti marginali e che permettono quell’educazione del desiderio a un futuro altro che H.G. Wells poneva come compito specifico di un approccio sociologico all’utopia. Grazie.
Mara Di Berardo
Cerco di andare veloce così riusciamo ad avere qualche intervento dal pubblico e passo quindi direttamente la parola a Vincenza, con cui vorremmo cercare di capire: parlando di capacità di aspirare, di strutture, di gruppi sociali, di come si può supportare, accompagnare questa capacità di voice che riconduce all’aspirazione stessa, quali sono le caratteristiche di questa capacità di aspirare? Quali sono le condizioni affinché ci possa essere capacità di futuro? Ne parliamo con Vincenza Pellegrino, professoressa associata di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Parma, dove insegna politiche sociali, si occupa di migranti, un tema a lei molto caro, studi di futuro e partecipazione civico-politica.
Vincenza Pellegrino
Prendo un po’ il filo da Filippo che ha parlato di campi di ricerca per chiedere: ma cosa intendiamo per campi di ricerca? Ambiti in cui esploriamo interazioni collettive, intenzionali, ritualizzate, che mostrano in che condizioni alcuni tipi di soggetti, che non sono soggetti solo marginali, che noi in questa ricerca abbiamo imparato a chiamare “intemporanei”, usciti dalla corsa, messi fuori dalla corsa (un migrante che aspetta in montagna nell’Appennino perché solo lì lo ospitano, è qualcuno che ha cercato di integrarsi nella velocità del progresso ed è stato messo nell’intemporaneità). La marginalità può essere immaginata oggi, sociologicamente, come questo essere presi e spostati laddove si sta fuori da una corsa. Filippo diceva che i marginali nella loro alterità (quindi stiamo pensando a un campo cognitivo interclasse sociale) evocano un’altra possibilità.
Ci entriamo pian piano, perché comunque è il nostro argomento: come costruiamo, come immaginiamo un luogo in cui queste interazioni sociali producono un discorso sui futuri plurali tra soggetti che vivono in uscita dal progresso, che è molto performativo e viene da quella borghesia che invece il progresso l’ha incubato, culturalmente legittimato e posto come punto di arrivo del soggetto, e coloro che invece arrivano da un’altra storia, cercano di connettere questa e sono respinti fuori? Dov’è che si incontrano insieme e com’è che noi possiamo concettualizzare il loro incontro con un campo di ricerca metodologicamente sostenibile? E questa era solo la prima frase…. Sono solo due le cose che vorrei provare a dire di questo complesso nostro modo di ragionare insieme su questo tema. Adesso dico solo l’idea, poi accelero ai campi perché di più non riesco a fare. Una è l’idea che quindi, per noi, le aspirazioni sono un oggetto culturale diverso dalle ambizioni. Seconda idea è che le aspirazioni, che ora andrò a definire – dunque diverse dalle ambizioni – sono un’eredità, non sono un’innovazione sociale.
Prima idea: le aspirazioni che si danno in questi contesti di ricerca non sono le ambizioni dei singoli, e quindi si danno come prodotto della loro interazione in un campo. Vi porto nel primo campo, quello che più a lungo ho frequentato e che è nel libro Futuri testardi[11]: i precari cognitivi delle città dell’Emilia-Romagna (Parma, Modena, Reggio Emilia, Ferrara, Bologna). Progresso, capitalismo familiare molto spinto, nato insieme a uno stato sociale forte, quello che possiamo chiamare veramente stato sociale-mercato; il progresso ha sempre visto la marginalità retoricamente come una pausa, la cultura inclusiva potente ha molto legittimato la nozione di progresso secondo cui moltiplicando la produttività si fa redistribuzione, senza mai essere consumismo: questa è la dimensione più performativa e meno attaccabile del progresso. È la cultura borghese nel suo trentennio glorioso, in un luogo che l’ha glorificata come classe solidale per eccellenza. I fili di questa esperienza sono plurilaureati, precari, con quattro lavori a testa, di sinistra. Incontri queste persone che hanno una condizione “cronofrenica” per eccellenza: corrono sempre, ma scopri che han perduto il punto di arrivo del progresso. Non c’è la fiducia che quel correre porti a un aumento di produttività di tipo redistributivo. Quindi per “cronofrenia” innanzitutto intendiamo l’esplorazione di quel vissuto in cui corro tantissimo, ma non ho più una meta, il mio orizzonte di attesa è evaporato.
Questo campo, queste persone, insegnano innanzitutto che questo tipo di ricerca cerca dei luoghi, dei contesti in cui per loro si rallenta lo spazio, la frenesia, e riescono a produrre cognitivamente aperture sul tempo; concetto particolare, perché troviamo soggetti che con forme di interazione sociale evocano il rallentamento. Come studioso li cerchi lì e li trovi lì nel pensare al futuro. Queste aspirazioni che studio non sono le loro ambizioni, perché appunto ambizione è chiedere a queste persone, con un’intervista qualitativa: come ti vedi tra trent’anni? Come vedi il mondo tra trent’anni? Se gli chiedi come vedi il mondo tra trent’anni, loro si immaginano 70enni e hanno in mente i 70enni che conoscono, dentro una proiezione cronofrenica che porta con sé un immaginario molto distorto. Nelle interviste scoprirete che i giovani di oggi hanno perso il futuro. Queste per me sono aspirazioni, quella per me è una ricerca sulle aspirazioni, cioè come chiedere al soggetto, da solo, di mettersi nel futuro, che è in realtà il presente degli altri 70enni, senza un’interazione sociale che gli apra una soglia di rallentamento e che problematizzi il futuro collettivo. Altra cosa è metterli in una ricerca, in un luogo rallentante, in cui pensano ai futuri[12]. La chiudo qui, ma sentite lo spostamento della ricerca, che in questo caso non raccoglie i futuri come oggetti precostituiti e già consolidati: lo può fare, raccoglie distopia, e raccoglie ambizioni cronofretiche quindi astratte, tutto un altro film da interrogarsi sulla capacità utopica di cui parlava Filippo.
Spendo invece gli ultimi minuti sul nesso futuro-memorie, con un’altra ricerca fatta in Val di Susa. Quando, dopo tanti anni di studio del futuro in Emilia-Romagna, mi sono spostata in Piemonte (e ormai sono al quinto anno di ricerca in Piemonte), e mi hanno chiesto di indagare le capacità utopiche e le aspirazioni collettive dei giovani della Valsusa, sono rimasta scioccata, perché ovviamente ho trovato tutto un altro sentimento del tempo, pur in condizioni sociologiche che a me parevano simili. Borghesia, giovani che studiano, movimento Torino-Valsusa: ma allora le variabili sociologiche significative per capire le aspirazioni collettive quali sono? C’entra l’essere in montagna? Per capire la complessità di queste ricerche, mi sono chiesta che futuro sognavano (perché quello dell’Emilia-Romagna lo conosco): mi mancava questo passaggio, che forse molto avrebbe spiegato di questa differenza, e ho scoperto che in Val di Susa – dove c’era stato tra gli anni Sessanta e Ottanta un operaismo di montagna, la manifattura, che aveva costruito grandi palazzi – c’era una metro-montagna, che per me, studiosa di futuri, altro non è che un sogno di città fallito. La semplifico e la chiudo così: è molto complesso studiare le aspirazioni collettive, che non sono ambizioni e che sono incarnate in una storia di futuri precedenti che è necessario indagare: non possono essere delle interviste ad alcuni giovani a farlo.
Mara Di Berardo
Siamo più o meno indisciplinati nei tempi ma ci siamo, abbiamo addirittura risparmiato cinque minuti per un paio di domande dei partecipanti.
Prima domanda
La domanda è veloce, la risposta no: abbiamo il genere del passato – la storia, la narrativa – e il genere del presente, la sensazione. Qual è il genere del futuro?
Jedlowski – È una bellissima domanda: io rispondo il melodramma, così, al volo, però me la porterò dietro perché è una domanda simpatica.
Pellegrino – Il melodramma suona bene, sai perché? Lo dico in maniera un po’ più tecnica. Perché penso che davvero oggi sia più significativo di vent’anni fa immaginare la tensione tra distopia e utopia: stanno insieme, e sento anche che la distopia è stata centrale negli ultimi dieci anni, non per niente Hollywood ha iniziato a presentare catastrofi dopo un trentennio di capacità di governo nella realtà. Se la distopia si fa potente ma poi esaurisce il suo effetto depressivo, soprattutto nelle generazioni che l’avevano ignorata (il ‘68, il ‘70), e per una generazione di giovani si situa un confine culturale, nel senso comune, che apre a nuove energie, allora il melodramma fa questa cosa: gente che piange molto iniziando a mangiare biscotti; non è così, ma per l’epoca e per le generazioni di cui parliamo sì.
Barbera – Io direi che il futuro è un non genere, il futuro ha la capacità di mischiare i generi, per come l’ho inteso io, e quindi la capacità di unire la tragedia alla commedia, il comico con l’horror, il registro che si preferisce.
Seconda domanda
Nell’immaginazione del futuro la differenza, la marginalità fa fatica ad entrare. Però nei processi che si ripetono c’è comunque la creatività di un problema filosofico. La creatività può essere uno strumento di emancipazione?
Barbera – Sulla creatività ammetto di non saperne molto, ma mi sento vicino al lavoro sul tema sulla dissonanza, e quindi quali sono le condizioni organizzative che permettono la convivenza tra princìpi del valore, metriche, modi di misurare il mondo di altri, non–rankable, con ordinamenti che fanno capo a metriche non univoche. La compresenza di queste metriche dipende da condizioni socio-organizzative di un certo tipo. Quando si dà quello allora queste sono le basi sociali per la capacità di innovazione e di creatività, che sono una precondizione per la capacità di futuro. Per i sociologi sarebbe molto interessante analizzare le basi socio-organizzative istituzionali della capacità collettiva di futuro. In Stark c’è il tema dell’eterarchia e della dissonanza: ci sono questi temi, esistono strumenti concettuali, la sfida è applicarli alla sfera pubblica, perché Stark li usa per spiegare come funziona l’industria dei videogiochi e va benissimo, ma il tema è chiedersi quando funzionano le eterarchie pubbliche, quando diventa un’eterarchia organizzata in grado di produrre immagini e rappresentazioni collettive del futuro e di metterle al lavoro.
Mara Di Berardo
Andiamo via con ancora più ipotesi e considerazioni da fare, ma credo che sia stato interessante e che valga la pena mettere un po’ più a sistema contributi variegati, come sempre fa il campo dei Futures Studies. L’onore di chiudere la nostra conversazione a Roberto Paura, che ha organizzato questo workshop, ma speriamo e pensiamo di andare via non con delle conclusioni, ma con delle aperture.
Roberto Paura
Grazie, sarò brevissimo: mentre parlava Vincenza mi veniva in mente un romanzo di Stanislaw Lem – di cui tra l’altro quest’anno festeggiamo il centenario – Il congresso di futurologia,in cui il protagonista si trova nel futuro e tutte le persone hanno questo affanno: è una cosa molto strana perché in realtà sembrano tutti molto tranquilli e rilassati, ma poi si scopre che tutti assumono farmaci allucinogeni (anche il protagonista stesso) che creano un’allucinazione consensuale che nasconde un futuro da incubo, dove sovrappopolazione, accelerazione sociale, tecnologica, economica hanno creato un mondo da incubo, in cui queste persone continuano a correre, finiscono per avere tutti problemi cardiaci per cui sbattono a terra e muoiono.
È una visione che ci aiuta a prospettare un futuro distopico ma è anche uno dei tanti futuri possibili. Aumentare la “capacità di futuro” è diventata un’urgenza e la condivisione tra noi che ci occupiamo di questo con aziende e società civile e coloro che fanno riflessione teorica all’interno di attività di ricerca è un aspetto essenziale. È importante iniziare un processo di condivisione di conoscenza. Un altro piccolo pezzettino è stato fatto ieri, perché abbiamo pubblicato un nuovo numero della nostra rivista Futuri che si intitola “Democratizzare i futuri”, e che speriamo sia l’inizio di un percorso importante per fare rete tra chi si occupa di Futures Studies e chi si occupa di sociologia in Italia. Grazie.
Note
[1] Bell W., Mau J.A., Sociology of the Future: Theory, Cases and Annotated Bibliography, Russell Sage Foundation, New York, 1971.
[2] Gidley J., The Future: A Very Short Introduction, Oxford University Press, 2017; tr. it. Il futuro. Una breve introduzione, Italian Institute for the Future, 2021; Barbieri-Masini E., Why Futures Studies?, Grey Seal, 1993 (prossima ed. it. Italian Institute for the Future, 2023).
[3] Cavalli A., Calabrò A.R. (a cura di), Il tempo dei giovani, Il Mulino, Bologna, 1985.
[4] Luhmann N., The Future Cannot Begin: Temporal Structures in Modern Society, “Social Research”, vol. 43, n. 1, primavera 1976.
[5] Pellegrino V., Futuri possibili. Il domani per le scienze sociali di oggi, ombre corte, Verona, 2019.
[6] Jedlowski P., Memorie del futuro. Un percorso tra sociologia e studi culturali, Carocci, Roma, 2017. Cfr. anche l’intervista con Roberto Paura Memorie del futuro: conversazione con Paolo Jedlowski, “Futuri”, 1° maggio 2017: futurimagazine.it/articoli/in_evidenza/memorie-del-futuro-conversazione-con-paolo-jedlowski/
[7] Adam B., Groves C., Future Matters: Action, Knowledge, Ethics, Brill, Leiden, 2007.
[8] Levitas R., Back to the future: Wells, sociology, utopia and method, “Sociological Review”, vol. 58, n. 4, novembre 2010.
[9] Wells H.G., The So-Called Science of Sociology, “Sociological Review”, vol. sp3, n. 1, gennaio 1906.
[10] De Leonardis O., I welfare mix. Privatismo e sfera pubblica, “Stato e mercato”, vol. 46, n. 1, aprile 1996.
[11] Pellegrino V., Futuri testardi. La ricerca sociale per l’elaborazione del «dopo-sviluppo», ombre corte, Verona, 2020.
[12] Cfr. Pellegrino V., Le propensioni utopiche di una generazione precaria. L’ascolto attento delle aspirazioni emergenti, “Animazione sociale”, n. 319, 2018.