Introduzione: capire il futuro guardando il passato
Parlare del cambiamento[1] nella domanda turistica – e del fenomeno del turismo in genere, soprattutto in ottica di futuri possibili – significa entrare in un tema di fatto complesso. Si tratta infatti di scelte influenzate da un numero elevato di aspetti (storici, socio-economici, ma anche puramente contingenti) anche molto distanti tra loro e il cui legame di interconnessione non è spesso evidente (Di Torrice e Facioni, 2021). A maggior ragione se si voglia, partendo dai dati a disposizione, elaborare scenari di futuri possibili: data la difficoltà di comprendere le ragioni del perché la domanda turistica prenda una determinata direzione, a maggior ragione è evidente la difficoltà di pensare alle possibili direzioni future del fenomeno, come pure immaginarne di totalmente nuove.
In questo senso, parlare della domanda turistica è uno sfidante esercizio di futuro, che mette particolarmente alla prova aspetti relativi al forecasting – quali dati utilizzare; cosa attendersi dai dati; come elaborare proiezioni attendibili (partendo comunque dal presupposto della ardua fattibilità di proiezioni business as usual per un fenomeno come il turismo) – come pure relativi al foresight (Poli, 2019). In sintesi, si può azzardare che il turismo e la sua domanda possano rappresentare un banco di prova anche dal punto di vista della “immaginazione sociologica” (Wright Mills, 1959). I dati ufficiali, sempre utili, lo sono a maggior ragione quando si tratta di fenomeni di questo tipo. Interessante notare come l’evoluzione della domanda di dati a livello ufficiale sul tema in Italia abbia seguito l’evoluzione della società italiana, come spesso accade con i fenomeni strettamente legati alla vita dei cittadini (Facioni, in Fraire, 2004). In questa introduzione faremo parlare i dati ufficiali attraverso due “fotografie” del Paese restituite da due pubblicazioni (Istat, 1960, 2008): ovvero, l’Italia appena entrata nel boom economico e l’Italia da poco entrata nel secondo Millennio.
Per evitare la controversa dicotomia “soggettivi/oggettivi”, qui si parlerà di dati sul piano “della domanda” e “dell’offerta” – espressioni da non intendere in una accezione economica. Ai primi sarà data particolare enfasi in questo contesto: sono quelli forniti all’Istat direttamente dai cittadini, solitamente attraverso indagini sulle famiglie: unità di rilevazione sono le famiglie del campione; unità di analisi sono le famiglie, gli individui e i loro viaggi. Sul fronte dell’offerta, si parla di informazioni fornite all’Istat dagli enti territoriali (Regioni, Province, Comuni, etc.) e raccolte dalle strutture stesse – che sono, quindi, sia unità di rilevazione che di analisi. Sono dati, in effetti, complementari: quelli sull’offerta ci informano, ad esempio, di quante strutture (alberghiere o d’altro tipo) possono disporre i cittadini; i dati sulla domanda ci dicono, invece, in che modo essi ne fruiscono – oppure, qualora non ne abbiano fruito, perché.
I primi dati Istat sul turismo prodotti con continuità furono quelli sul versante dell’offerta. Infatti, a partire dal Secondo Dopoguerra (Istat, 1950) gli Annuari di Statistica forniscono informazioni sulle attività alberghiere; fino a quel momento, tali dati erano prodotti dall’ENIT[2], ente nato nel 1911 e di cui sono disponibili report già a partire dagli anni ’20 del secolo scorso. A partire dagli anni ’50, l’Istituto inizia a produrre dati anche sul versante della domanda, con le famiglie unità di rilevazione. In tal senso, preziose fonti di informazioni sulle vacanze degli italiani di quegli anni furono le cosiddette Indagini Speciali[3], condotte utilizzando il campione dell’Indagine sulle Forze di Lavoro e i cui risultati venivano pubblicati nella collana “Note e relazioni”. In particolare, nel numero 13 della collana (Istat, 1960) sono pubblicati i dati (riferiti al periodo 1 ottobre 1958 – 30 settembre 1959) relativi alla prima indagine sui viaggi e le vacanze degli italiani sul versante della domanda. Ci descrivono un’Italia che, pur apprestandosi a vivere il boom economico, è ancora caratterizzata da una struttura socio-economica di tipo pre-industriale, con un forte settore agricolo[4] – e da un modello di famiglia assolutamente patriarcale. Nel periodo di riferimento, furono 2 milioni 420mila (17,9% delle famiglie residenti) le famiglie ad avere almeno un componente in vacanza[5]: in poco meno della metà dei casi (1.205.000 famiglie) era partita la famiglia al completo (8,9% delle famiglie), mentre per 1 milione 215mila famiglie (il 9%) solo una parte dei componenti era andata in vacanza. Un aspetto che non può non colpire è che, all’epoca, le analisi per condizione lavorativa fossero svolte in base a quella del solo capofamiglia, figura abolita con la Legge 151 del 1975.
D’altronde, le donne inserite nel mondo del lavoro erano, all’epoca, pochissime: stando all’Annuario di Statistica del 1960, la proporzione tra uomini e donne occupati era del 70% contro il 26,6%: le donne occupate erano 5.453.000. Si noti inoltre che le famiglie con capofamiglia in “condizione non professionale” andate in vacanza nel periodo di riferimento (461.316; 13,4% tra quelle nella stessa condizione) erano state, sia in dato assoluto che rispetto alla percentuale di famiglie nella stessa condizione, molte di più rispetto a quelle impiegate nell’agricoltura (in tutto 129.461; 4,6% rispetto a quelle nella medesima condizione). Questo va collegato a due aspetti del lavoro agricolo (non solo dell’epoca): i ritmi di lavoro e le scarse retribuzioni. Le famiglie di lavoratori dipendenti agricoli che dichiararono di non essere andate in vacanza per motivi economici furono l’80% (contro la media nazionale del 59,8%), mentre a non essere andate in vacanza per motivi di lavoro era stato il 35% delle famiglie di “Conduttori coltivatori e coadiuvanti”, contro la media nazionale del 19,9%. Ai periodi di vacanza più lunghi corrispondeva una sistemazione a costo zero: ben il 61% di coloro che dichiaravano di aver fatto vacanze di oltre 30 giorni le aveva passate in casa propria, oppure di parenti e conoscenti. Sono anni ancora lontani dal boom dei campeggi e degli ostelli: solo il 2,4% di chi era andato in vacanza ne aveva fruito, in particolare per periodi brevi (4,7%). Il 97,1% dei vacanzieri era rimasto in Italia (5.469.134 persone) scegliendo una sola località (5.305.658 persone, 94,2%), per lo più al mare o in montagna. Solo il 2,5% si era recato all’estero (138.488 persone) e soltanto lo 0,4% (24.686 persone) aveva fatto vacanze sia in Italia che all’estero. I dati presenti in questo storico documento ci mostrano divisioni nette nella popolazione: quella tra ricchi e poveri, tra città e campagna, tra chi si arrangiava pur di fare una vacanza e chi poteva invece farla senza preoccuparsi della spesa. Anche i dati relativi al territorio ci parlano di differenze sociali ed economiche importanti, alcune delle quali – la differenza di ricchezza tra Nord e Sud del Paese – persistono anche oggi. Nel 1959, sono Roma (ovvero, la concentrazione della borghesia impiegatizia) e la Lombardia (ovvero la borghesia industriale) le aree con le percentuali più alte di persone che dichiarano di essersi recate in vacanza, con una percentuale praticamente identica (21,3% e 21,1%).
Dagli anni Ottanta in poi, le indagini sul lato della domanda si approfondiscono sempre di più, rispondendo alla precisa esigenza di dati su una popolazione che cambia sempre più velocemente le proprie abitudini, soprattutto per gli ambiti del tempo libero e, di conseguenza, dei viaggi e delle vacanze. Anche in Italia vengono condotte le survey sulle famiglie e sugli aspetti della loro vita – indagini che avevano visto la luce in paesi come il Regno Unito, la Svezia ed il Giappone. I primi cicli dell’Indagine Multiscopo sulle famiglie fanno riferimento al periodo 1987-1991. Dal 1993, la scelta fu quella di organizzare il Sistema di Indagini Multiscopo, che prevedeva anche una indagine trimestrale dedicata ai viaggi degli italiani (Gazzelloni, in Fraire, 2004). Nello specifico, dal 1997 al 2013, nel contesto del Sistema delle Indagini Multiscopo, l’Istat ha condotto l’indagine trimestrale telefonica CATI (Computer Assisted Telephone Interview) “Viaggi e vacanze”[6], su un campione nazionale annuo di circa 14.000 famiglie – circa 3.500 per trimestre, per un totale annuo di circa 32.000 individui.
L’indagine soddisfaceva l’esigenza di raccogliere regolarmente dati sulla domanda turistica, garantendo (unitamente ai dati sull’offerta) la disponibilità di un sistema integrato di informazioni statistiche sul turismo: un patrimonio informativo armonizzato tra i vari paesi dell’Unione Europea. L’obiettivo era quello di quantificare e analizzare i flussi turistici dei residenti in Italia – sia all’interno del Paese sia all’estero – e di fornire informazioni sulle modalità di effettuazione dei viaggi e sulle caratteristiche socio-demografiche dei turisti e non turisti. Periodi di osservazione sono i trimestri gennaio-marzo, aprile-giugno, luglio-settembre e ottobre-dicembre. In ogni trimestre – e per ogni membro della famiglia del campione – venivano rilevate informazioni sui viaggi conclusi nel trimestre di riferimento. Il ventaglio dei dati raccolti dava la possibilità di distinguere i viaggi di vacanza da quelli svolti per motivi di lavoro, così come le vacanze “brevi” (della durata di 1-3 notti), dalle vacanze “lunghe” (4 o più notti). L’indagine forniva informazioni sul movimento turistico, caratterizzandolo in base alla destinazione del viaggio, al motivo per cui si era viaggiato, alla forma di organizzazione del viaggio, al tipo di alloggio utilizzato, al mezzo di trasporto, alla durata, al periodo dell’anno in cui si era viaggiato, ecc. In sintesi, rispetto alle prime esperienze è evidente l’evoluzione degli indicatori, in un costante lavoro di approfondimento e perfezionamento volto a comprendere sempre più l’evoluzione delle abitudini degli italiani. Con riferimento al 2005[7], la popolazione residente in Italia effettuò ben 107 milioni e 100 mila viaggi con almeno un pernottamento, per un totale di 676 milioni e 243 mila notti. Solo il 14% era dovuto a motivi di lavoro: si trattava, nell’86% dei casi, di vacanze. Va però sottolineato un aspetto che si va delineando già dagli anni precedenti: la crescita del numero degli spostamenti andava di pari passo con quella delle vacanze brevi, da una a tre notti, che nel 2005 arrivarono ad essere ben il 46,7% del totale delle vacanze. La destinazione principale era una località italiana (83,4%). Inoltre, i 17milioni e 765mila viaggi all’estero riguardavano, per lo più, paesi vicini, come la Francia (17,7%), la Spagna (10,9%) e la Germania (9%). Poco più della metà dei viaggi (51%) era effettuata senza prenotazione, il 34,3% prenotando direttamente alloggio e/o trasporto, mentre l’utilizzo di agenzie o tour operator riguardava solo il 13,8% dei viaggi. Le prenotazioni erano più frequenti per i viaggi all’estero (76%). Colpisce, nel 2005, l’uso ancora poco diffuso di Internet, che riguardava solo il 10,3% delle prenotazioni. La Rete era utilizzata soprattutto per l’alloggio (80,6%) e solo nel 44,3% per il trasporto. Non ce ne dobbiamo stupire, considerando che il mezzo di trasporto più utilizzato per viaggiare era l’automobile – nel 64,4% dei casi. L’aereo era al secondo posto, ma con una distanziatissima percentuale (13,6%). Dati che colpiscono, considerando quanto siano relativamente vicini nel tempo. Insomma, due foto che ci rimandano, pur in contesti storici e sociali totalmente differenti, un elemento in comune: è comunque l’immagine di un Paese che fatica a modernizzarsi.
Tutti a casa! Il calo del turismo tra crisi e pandemia
L’analisi dei flussi turistici a livello macro descrive, tuttavia, un Paese sempre più interessato all’esperienza turistica. Le indagini Istat sulla domanda turistica (Istat, 2011) indicano infatti che il turismo dei residenti, a partire dal boom economico e fino al 2008, è sempre cresciuto (Dattilo e Di Torrice, 2011). Come si evince dalla Figura 1, il 2008 è stato l’anno di picco, cui è seguita una fase di costante declino dovuto alla crisi economica iniziata nel 2009 e durata fino all’anno 2015, quando l’ammontare dei viaggi tocca il valore minimo. A partire dal 2016, si registra una timida ripresa, ma nel 2020 la pandemia da Covid-19 provoca una catastrofe e i livelli di viaggi e notti non riescono a tornare a quelli pre-crisi (Istat, 2021 e 2022).
La fruizione di turismo non riguarda però tutta la popolazione italiana. Nonostante la costante crescita dei viaggi registrata fino al 2008, è da notare che una parte consistente degli italiani non viaggia affatto. Questo accadeva già prima della crisi economica, infatti secondo l’indagine Istat “Aspetti della vita quotidiana” negli anni dal 2000 al 2008, in media, il 49,4% dei residenti non ha effettuato neanche una vacanza lunga (4 notti o più). La quota di mancato turismo si amplia notevolmente negli anni della crisi, quando si raggiungono picchi che superano il 60% di persone che non partono per le vacanze. In quel periodo, si diffonde il fenomeno della staycation[8], tornato di moda negli anni della pandemia per definire le vacanze di prossimità, ovvero quelle trascorse entro i confini nazionali o addirittura nella propria regione. È quindi evidente come la domanda di turismo sia fortemente condizionata dalle dinamiche storiche ed economiche: ma cosa possiamo dire di quella forma di staycation per così dire «strutturale», ovvero di quella metà circa degli italiani che non ha mai viaggiato? Ebbene, le motivazioni addotte sono fondamentalmente di natura economica (il 40,3% degli individui di età superiore ai 14 anni, in media tra il 2014 e il 2021), quota che rimane consistente perfino negli anni della pandemia, quando l’emergenza sanitaria diventa la prima causa delle mancate partenze per vacanza (circa il 53% nel 2020, 34% nel 2021), come mostra la Figura 2.
Siamo ancora un popolo di viaggiatori?
È interessante anche osservare che circa il 17% delle persone, in media tra il 2014 e il 2021, riporta una cronica «Mancanza di abitudine» a viaggiare, che si concentra, com’è ovvio, tra i più anziani (over65, 30% in media negli anni considerati), ma si riscontra anche nel 14% della popolazione adulta, di età tra 45 e 64 anni. Una certa resistenza a spostarsi dalla propria abitazione caratterizza quindi una parte non trascurabile di popolazione, indipendentemente dal periodo storico contingente. Per comprendere appieno la rilevanza di questa motivazione, è utile un confronto con gli altri Paesi dell’area Ue.
In generale, l’Italia è ai primi posti per percentuale di persone che non vanno in vacanza (55,1% a fronte di una media europea molto più bassa, cioè 35,2%), come evidenziato in Figura 3. Nonostante ciò, tra tutte le persone che non vanno in vacanza, la mancanza di abitudine è una motivazione molto più diffusa negli altri Paesi Ue, principalmente in Portogallo, Austria e Francia. Infatti, nel 2019, nei Paesi Ue in media una persona su 4 non andata in vacanza indica la mancanza di abitudine come motivazione principale, l’Italia invece si pone al di sotto della media europea col 19,3% (Figura 4). La mancanza di abitudine a viaggiare non è quindi un tratto caratteristico dei residenti in Italia, almeno nella componente giovane e adulta della popolazione, rispetto a quanto accade invece negli altri paesi europei.
Dalla folla alla bolla: partire in sicurezza
Negli anni 2020-2021, come già detto, l’emergenza sanitaria diventa il maggior fattore di impedimento alle partenze. Tuttavia, nel periodo estivo del 2021, con l’allentamento delle misure restrittive, la propensione a partire mostra di nuovo una certa ripresa e le vacanze aumentano lievemente (+7,8% rispetto al 2020) dopo essere calate del 18% tra il 2020 e il 2019 (Istat, 2021 e 2022). L’identikit della vacanza però si modifica profondamente, poiché i turisti cercano di riprodurre, anche in vacanza, le condizioni di sicurezza ormai ritenute indispensabili. Si parte sempre di più in automobile, che aumenta rapidamente la sua incidenza a discapito dei mezzi di trasporto collettivi (oltre il 59% delle vacanze nel 2019, 75% nel 2020, quasi il 72% nel 2021). Si prediligono mete all’aria aperta, tra le quali spicca decisamente il mare (circa 48% nel 2019, arriva al 53% nel 2020 e al 58% nel 2021), seguito dalla montagna, che da quasi il 23% nel 2019 sfiora il 30% nel 2020, per poi scendere a circa il 26% nel 2021. Anche le mete di campagna e collina, seppur meno diffuse, mostrano quote in crescita (intorno al 10% nel 2019, 15% nel 2020 e nel 2021). La scelta degli alloggi risulta fortemente condizionata dalle esigenze di distanziamento, rafforzando la preferenza per gli alloggi privati (abitazioni di proprietà/multiproprietà, case di parenti o amici, stanze o abitazioni in affitto), che subiscono meno gli effetti della pandemia (-23% di notti rispetto a -47% degli alloggi collettivi, tra il 2021 e il 2019). La necessità di creare una vera e propria “bolla” protettiva amplia il ventaglio di proposte da parte delle imprese turistiche: maggior digitalizzazione, assicurazioni di viaggio che coprono ogni evenienza medica, per arrivare addirittura ai cosiddetti travel bubbles, ovvero corridoi «sicuri» o «ponti aerei» frutto di accordi formalizzati tra Stati che consentono, durante la pandemia e in alcune destinazioni, di viaggiare liberamente senza sottoporsi a quarantena all’arrivo.
Lavorare a casa, anche in vacanza
Da un lato, quindi, si configura una tipologia di viaggio in modalità “protetta”, durante il quale il turista esce dalla propria abitazione ma replica stili di vita quasi “casalinghi”, dall’altro emerge l’obbligo, successivamente divenuto opportunità, di accentrare nell’abitazione alcune attività che tradizionalmente venivano svolte fuori, per esempio il lavoro. Se nel 2019 il lavoro da casa[9] riguardava solo il 4,8% degli occupati (Istat, 2023), nel 2020 si balza repentinamente al 13,8% e, dopo un ulteriore lieve aumento nel 2021 (14,8%), ancora legato alla stagionalità e all’evoluzione pandemica, nel 2022 la quota di occupati che lavorano da casa è pari al 12,2%. La possibilità di lavorare da casa, con l’avvento dello smartworking, si amplia alla capacità di scegliere postazione e orario di lavoro, vincolandoli solo a obiettivi da raggiungere. Ciò rende possibile, per la prima volta, la sintesi di due attività umane – la vacanza e il lavoro – storicamente in antitesi tra loro, sia nel loro aspetto temporale (il momento della vacanza distinto da quello del lavoro) sia in quello spaziale (il luogo della vacanza diverso dal luogo di lavoro), creando un nuovo fenomeno definito workation[10] o holiday working (Politecnico di Milano, 2022).Almeno per una parte degli occupati, il lavoro entra quindi nel luogo e nel tempo “di casa” per la necessità di distanziamento imposta dall’emergenza sanitaria e poi si introduce nella destinazione e nel periodo “della vacanza”, realizzando una commistione inedita di attività.
Dal punto di vista delle statistiche ufficiali, una prima traccia da seguire per verificare l’esistenza di questo fenomeno si può trovare analizzando le vacanze lunghe svolte in estate. Tra il 2020 e il 2019, nel periodo estivo (giugno-settembre) la durata media delle vacanze lunghe trascorse nelle abitazioni di proprietà passa da 11,7 a 13,9 notti e cresce ulteriormente nel 2021 arrivando a 14,3 notti (Istat, 2021 e 2022).L’analisi mensile, riportata nella Figura 5, evidenzia macroscopiche differenze soprattutto nei mesi di giugno e luglio 2020, quando le durate medie sono molto più elevate degli stessi mesi del 2019 e anche delle medie riscontrate nel periodo 2015-2018. È possibile, quindi, che il periodo della pandemia abbia favorito l’avvio di un cambiamento nelle scelte di una parte dei turisti, riconducibile proprio all’holiday working[11].
La pandemia come «acceleratore» del processo di trasformazione digitale del settore turistico
Un altro effetto della pandemia da Covid-19 e della conseguente crisi socio-economica globale è stata l’accelerazione significativa del processo di trasformazione digitale del settore turistico, in una molteplicità di direzioni e dimensioni, sia sul fronte della domanda che su quello dell’offerta turistica, sia nelle modalità di organizzazione del viaggio che nella costruzione e realizzazione dell’esperienza turistica. L’utilizzo di internet e delle ICT per organizzare le vacanze da parte delle persone era consistente e in ascesa già prima della pandemia. Nel 2019 internet era utilizzato per prenotare l’alloggio in circa il 60% delle vacanze; nel 2020 e 2021 tale quota sale al 67% così come elevate sono le prenotazioni effettuate online per il trasporto (circa il 71%) (Istat, 2022). Con molta probabilità, tale tendenza si è rafforzata in seguito a una maggiore acquisizione e utilizzo da parte delle persone degli strumenti del digitale, resi necessari dall’emergenza sanitaria anche in altri ambiti (lavoro, didattica e formazione, ecc.) (Di Torrice e Facioni, 2021).
Anche sul fronte dell’offerta, le esigenze di distanziamento sociale unitamente ai necessari cambiamenti nelle strategie di business e di gestione del rischio imposti dalla pandemia hanno sostenuto il processo di digitalizzazione del journey (Di Torrice e Sabato, 2022). Grazie al diffondersi delle Tecnologie 4.0 (Pencarelli, 2019),le strutture ricettive hanno, infatti, ampliato la gamma degli strumenti tecnologici e di soluzioni innovative per gestire i processi di organizzazione e gestione dei soggiorni: opzioni di pagamento e check-in da mobile o da remoto, assistenza virtuale tramite chatbot o device, tour virtuali delle camere sul sito, chiavi virtuali per aprire le camere tramite smartphone, ecc.) (Colombo, 2020).
«Viaggiare da casa»: dal virtuale che sostituisce la necessità del turismo al Metaverso per la costruzione dell’esperienza turistica
Dal punto di vista della costruzione e fruizione delle esperienze di viaggio, un’ulteriore area in cui la pandemia ha offerto un’opportunità di potenziale sviluppo è quella del turismo virtuale. Anche in questo caso, la realtà virtuale non è certamente una novità nel settore del turismo; tuttavia, fino a prima dell’emergenza sanitaria, essa è stata concepita soprattutto come un possibile strumento di marketing, di vendita o di teaser. Ciò che ha costituito una novità è stata la spinta verso l’adozione di soluzioni digitali per creare esperienze di turismo live remote (OCSE, 2020), utilizzate per sostituire la necessità del turismo in un momento in cui la possibilità di viaggiare era fortemente limitata. Rimanendo in Italia, ricordiamo che durante la fase del lockdown, il Ministero per i beni e le attività culturali aveva lanciato l’iniziativa “La cultura non si ferma” per consentire ai cittadini da casa di rimanere in contatto con l’arte e la cultura vivendo esperienze turistiche virtuali attraverso tour digitali, riproduzioni in 3D, visite online in realtà aumentata (Monaco, 2020). Musei, siti archeologici (dal Colosseo, al Museo Egizio di Torino, dal Museo delle Ceramiche di Capodimonte al Parco Archeologico dei Campi Flegrei di Napoli), ma anche palcoscenici dello spettacolo, della musica e dell’intrattenimento hanno aperto le proprie porte virtuali ai turisti di tutto il mondo.
L’esperienza digitale ha contribuito a soddisfare il desiderio di turismo in un momento storico in cui la possibilità di fruire di un viaggio reale era limitata e ha rilanciato l’idea del turismo nel cosiddetto metaverso, Volendo darne una definizione sia pure non esaustiva, con il termine metaverso ci si riferisce a uno spazio virtuale in 3D in cui le persone fisiche rappresentate da avatar possono muoversi, fare esperienze immersive e interagire tra loro e con l’ambiente. Tutto ciò è reso possibile dall’utilizzo integrato di dispositivi e infrastrutture ad alto tasso tecnologico, come i visori 3D, strumenti di realtà aumentata e virtuale, connessioni superveloci che consentono di creare mondi virtuali “copie” pressoché fedeli di quelli reali, ma senza limiti spaziali. Il metaverso, dunque, non è una semplice rappresentazione o simulazione della realtà, ma si pone come uno spazio di interazione in cui convergono sia la dimensione fisica che quella virtuale, generando tra loro un flusso bidirezionale di dati (Tagliagambe, 2022) Per il turismo, ciò prefigurerebbe nuovi scenari che spostano la riflessione sul rapporto tra digitale/virtuale e turismo a un livello decisamente nuovo. Non si tratta semplicemente della possibilità di esplorare virtualmente luoghi e destinazioni/attrazioni turistiche lontane stando comodamente a casa, ma, per fare solo qualche esempio, di utilizzare le stesse attrazioni turistiche virtuali per ospitare eventi di intrattenimento, concerti virtuali, di organizzare fiere ed esposizioni online, di creare parchi a tema, musei, zoo virtuali e altre attrazioni simili, in cui il tipo di interazione sociale “fisica” può essere replicato attraverso la realtà virtuale.
Il viaggio: digitale versus analogico
Tutto ciò impone di riflettere sull’effettivo ruolo del digitale nella costruzione di esperienze turistiche e pone degli interrogativi: il turismo può vivere al di là dello spazio fisico? L’esperienza digitale può essere considerata essa stessa la base di un’esperienza turistica? Il metaverso può rappresentare una nuova modalità di vivere una destinazione turistica da remoto, trasformando un’esperienza in presenza in una a distanza, conferendo alla stessa un valore aggiunto? (Di Rosa e Guadagnoli, 2021). E quindi: dopo il lavoro da casa, anche le vacanze del futuro si svolgeranno dentro le mura di una abitazione? Allo stato attuale non sembra possibile rispondere in maniera esaustiva a tali domande e a pervenire a una chiave interpretativa univoca, dal momento che sarebbero diversi i nodi da sciogliere. Certamente a favore dell’ipotesi di una “smaterializzazione” del turismo giocherebbero la vulnerabilità e la fragilità dell’attività turistica resa evidente dalla pandemia, ma che potrebbero riemergere anche in altre situazioni “limitanti” della mobilità delle persone, come le guerre o il terrorismo. Allo stesso modo, appare altrettanto irrealistico pensare che un’esperienza virtuale possa sostituirsi a una “analogica”, dal momento che ciò va ontologicamente in conflitto con la ragione “primordiale” per la quale le persone viaggiano, cioè vedere le cose da vicino e in prima persona. Del resto, viaggiare nella sua accezione classica implica allontanarsi dai luoghi noti e abituali per raggiungere mete lontane, inconsuete e vivere esperienze diverse da quelle quotidiane (McCabe, 2000).
Certamente si può affermare che il digitale nelle sue diverse manifestazioni e strumenti, oltre a sopperire all’esigenza del viaggio “fisico” quando questo non è possibile, può estendere l’esperienza di conoscenza dell’altrove ben oltre la materialità, arricchendo l’offerta turistica e apportando un valore reale per l’individuo e per le destinazioni stesse. Così ad esempio, soluzioni turistiche “digitali” e/o nel metaverso possono concretizzarsi in tour virtuali di hotel, musei, siti e destinazioni in generale ancora più immersivi, inclusivi, fruibili facilmente da casa, per fare esperienze più particolari o personalizzate, per accedere ad attrazioni turistiche “meno popolari” o per raggiungere mete troppo lontane, difficilmente raggiungibili o eccessivamente costose (Rauscher et al., 2020), consentendo una più elevata democratizzazione del turismo. Nondimeno, se implementato in maniera strategica, il turismo virtuale potrebbe essere uno dei possibili strumenti per preservare il patrimonio culturale, naturalistico e artistico di quelle destinazioni che soffrono dell’overtourism offrendo soluzioni sostenibili per godere di certe attrazioni, senza sovraccaricare i residenti (Dewailly, 1999).
Strumenti e tecnologie digitali possono, inoltre, anticipare, completare ed estendere l’esperienza di un viaggio “reale”. Ad esempio prima del viaggio, per un’esperienza di prenotazione più fluida e consapevole, la tecnologia può permettere agli utenti delle strutture ricettive di effettuare sopralluoghi virtuali o simulazioni dell’esperienza fisica in hotel. Sempre prima del viaggio, l’esperienza virtuale può essere alla base di una scelta di viaggio consapevole e responsabile dal punto di vista ecologico, aiutando, per esempio, a decidere quali destinazioni meritano lo spostamento fisico e quali mete invece possono essere fruite e godute da remoto. Durante il viaggio, strumenti e applicazioni della realtà aumentata possono, invece, amplificare e migliorare la fruizione dei luoghi e delle attrazioni turistiche fisici (ad esempio puntando il proprio device verso un edificio o un sito per saperne di più in tempo reale). Dopo il viaggio, il digitale può essere sfruttato in una molteplicità di direzioni, ad esempio attraverso l’acquisto on line di beni e prodotti tipici della meta visitata una volta rientrati a casa, oppure attraverso la raccolta e pubblicazioni di foto, video e racconti del viaggio sui canali social. In questo modo si prolunga l’esperienza turistica e si mantiene il nesso esperienziale con la destinazione visitata, nell’ottica di quello che è stato definito neverending tourism (Politecnico di Milano, 2022a).
È evidente che qualunque riflessione sulla digitalizzazione del settore turistico passi attraverso un’estensione del paradigma del turismo oltre la dimensione della mobilità e della circolazione materiale delle persone: il concetto di viaggio come spostamento dalla propria abitazione a un luogo distante per fare esperienze e incontrare persone si arricchisce di nuove dimensioni, come la possibilità di frequentare spazi virtuali e mondi digitali che diventano a tutti gli effetti luoghi del turismo. D’altronde, il turismo è una pratica sociale e culturale, e come tale ha forme e significati diversi: si configura come un movimento pluristratificato, costituito dallo spostamento sia di persone che di oggetti immateriali e di immagini, che concorrono nel loro insieme a formare la mobilità del mondo contemporaneo (Urry e Sheller, 2006).
Conclusioni
Parlare di viaggi significa toccare corde importanti della nostra vita. Non solo della nostra vita individuale, ma del nostro configurarci come esseri culturali, nel flusso che ha portato la nostra specie fino a questo punto. La parola “viaggio” deriva dal provenzale viatge, che diventa, nel francese antico, veiage; termini che si rifanno comunque al latino viaticum, parola che indica in origine anche il corso di un astro nel cielo – ed è forse dall’osservazione del viaggio degli astri nel cielo che gli antichi hanno iniziato a porsi le prime domande sul senso del nostro essere al mondo. Diversa la storia della parola “vacanza”, che deriva invece dal latino vacantia, termine che sta ad indicare l’«essere privo di qualcosa». La vacanza potrebbe quindi essere interpretata, nel suo senso etimologico, come un vuoto da riempire – presumibilmente, di esperienza. Non possiamo, quindi, pensare al viaggio come ad un semplice spostarsi da un luogo all’altro: si tratta di una azione densa, caratterizzata da un profondo valore simbolico (Di Torrice e Facioni, 2021). Fin dall’antichità, il viaggio viene identificato, non solo nel contesto del pensiero occidentale, come momento chiave della evoluzione interiore di chi lo sperimenta. Nelle tante narrazioni ad esso legate, finisce dunque per divenire esso stesso metafora di evoluzione. La tecnologia non cambia questo aspetto. Semmai, lo moltiplica. Lo ha moltiplicato. La pandemia ha, come è stato detto, accelerato un processo già presente. Cosa ancora più interessante, la pandemia ha toccato in particolare un Paese, l’Italia, che non ha, per motivi anche legati alla sua particolare composizione demografica (Istat, 2022) una particolare propensione per l’utilizzo delle tecnologie. Tuttavia, questa incredibile, tragica vicenda della pandemia, con il conseguente isolamento cui ha costretto moltissimi italiani (più di quanto sia avvenuto nella maggioranza dei paesi esteri), ha avuto l’effetto di avvicinare molti italiani alle nuove tecnologie, anche per viaggi e vacanze. Su questo, i dati sono chiarissimi. E le tecnologie, a loro volta, sono state accelerate, nella loro evoluzione, anche (forse, proprio) dai nuovi bisogni creati dalla pandemia stessa. Il risultato è stato, anche, l’accelerazione della sovrapposizione dei contesti di vita. La pandemia ha fatto sperimentare a molti non solo il lavoro da casa, ma anche lo smart work nelle case di vacanza – per cui lo spazio-tempo del lavoro si è non solo identificato con lo spazio-tempo della vita privata, ma anche, e questo è una novità, con quello della vacanza. Insomma, il nostro Paese, come molti altri, non potrà prescindere da questa esperienza.
È stato fatto un salto di qualità, che non potrà non avere una ricaduta nel senso che avrà il viaggio nei futuri possibili, o la vacanza nei futuri possibili. Concetti che si aprono a possibilità che non saranno limitate necessariamente al solo spazio – al tradizionale concetto di viaggio da un punto all’altro nello spazio. Potranno, ad esempio, riguardare il tempo. Se l’illusione sarà sufficientemente credibile, perché non sperimentare viaggi in epoche differenti dalla nostra, opportunamente ricostruite? Oppure, si potrà viaggiare in luoghi che non esistono nella realtà: contesti “costruiti” direttamente da noi, in un Metaverso che rispecchi i nostri desideri (Needleman, 2021). Come spesso accade, Philip Dick aveva intuito una possibilità – in “We Can Remember It for You Wholesale”, del 1966: la possibilità di viaggiare senza viaggiare, ovvero senza sperimentare direttamente il viaggio, ma fruendo di ricordi artificialmente impiantati, che considereremo nostri a tutti gli effetti. Al di là dell’aspetto immaginativo, di per sé senza confini, denso di suggestioni e totalmente libero da considerazioni di tipo etico, forse una riflessione va fatta. Nei viaggi del futuro sarà possibile l’incontro con gli altri, lo scambio di esperienze e conoscenze che ci rende più umani e saggi – quel percorso interiore che si esalta nel viaggio, narrato in tutte le letterature, in tutti i miti; quella necessità che è da sempre la nostra stella Polare – oppure saremo ognuno chiuso in una bolla, senza spazio né tempo, senza nessuno intorno, forse vivi solo nell’illusione di esserlo?
Riferimenti
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[1] Il presente lavoro va considerato come risultato complessivo del lavoro delle tre autrici. Tuttavia, le parti “Introduzione: capire il futuro guardando il passato” e “Conclusioni” sono da attribuirsi a Carolina Facioni; “Tutti a casa! Il calo del turismo tra crisi e pandemia”, “Siamo ancora un popolo di viaggiatori?”, “Dalla folla alla bolla: partire in sicurezza” e “Lavorare a casa, anche in vacanza” sono da attribuirsi a Mascia Di Torrice. Infine, le parti “La pandemia come «acceleratore» del processo di trasformazione digitale del settore turistico” e “«Viaggiare da casa»: dal virtuale che sostituisce la necessità del turismo al Metaverso per la costruzione dell’esperienza turistica” sono da attribuirsi a Mariangela Sabato. Le opinioni qui espresse vanno considerate a titolo di personale elaborazione intellettuale e non necessariamente rispecchiano quelle delle rispettive Istituzioni di appartenenza.
[2] Agenzia Nazionale Italiana per il Turismo; alla sua nascita, Ente Nazionale per l’incremento delle Industrie Turistiche.
[3] Il nome è dovuto sia al fatto che non erano condotte con cadenza regolare sia in quanto avevano, per i temi trattati, carattere di eccezionalità. Venivano talora svolte quando c’era una domanda di dati su un tema specifico, ad esempio per eventi a livello internazionale.
[4] Per capire il peso del settore agricolo in quel periodo, la classificazione per settore di attività utilizzata prevedeva la condizione professionale divisa in due voci: a) agricoltura e b) altre attività. Tutti gli altri erano in “condizione non professionale”. Un altro aspetto interessante, sul piano storico-sociologico, è la classificazione delle condizioni non professionali: casalinghe, studenti, pensionati e benestanti (corsivo di chi scrive), altre. Sono proprio i pensionati e i benestanti a fruire di un numero mediamente più alto di giorni di vacanza in media: 27,2 giorni.
[5] In questa prima rilevazione la vacanza viene definita come un soggiorno di durata di almeno 3-4 giorni.
[6] Dal 2014, l’indagine è un focus incluso nell’intervista finale dell’Indagine CAPI sulle Spese delle Famiglie. Per approfondimenti si veda (Istat, 2018).
[7] Le stime dell’indagine Viaggi e vacanze sono diffuse nel Datawarehouse dell’Istat http://dati.istat.it/, nel quale sono presenti tutti i dati Istat dal 1997 ad oggi. I dati citati sono qui presentati con gli arrotondamenti presenti su I.stat. Ci è tuttavia sembrato opportuno citare comunque le pubblicazioni dell’epoca per “storicizzare” il discorso.
[8] È un neologismo nato negli Stati Uniti che mette insieme il verbo stare e il termine vacanza (stay + vacation) per indicare originariamente le ferie trascorse pernottando a casa e visitando luoghi molto vicini (https://en.wikipedia.org/wiki/Staycation).
[9] Si rileva se l’intervistato ha svolto presso la sua abitazione ore di lavoro nelle 4 settimane precedenti l’intervista; include gli accordi di telelavoro e smart working.
[10] È un neologismo che mette insieme i due termini “lavoro” e “vacanza” (work + vacation) per indicare l’attività lavorativa svolta da remoto presso un luogo di vacanza. La tendenza è nata nell’estate 2020 ed è stata favorita dalla diffusione dello smart working.
[11] Nell’edizione 2023 dell’indagine Istat “Viaggi e vacanze” è stato inserito un quesito per quantificare direttamente le persone che hanno svolto lavoro da remoto durante le vacanze del 2022