Ogni volta che si effettua un aggiornamento importante del sistema operativo del nostro computer, o si installano nuovi software, si è soliti fare un backup, una copia di sicurezza dell’originale, che in qualsiasi momento successivo potrà essere ripristinata, qualora gli aggiornamenti si rivelino dannosi o creino conflitti tra altri software, impedendo il corretto funzionamento del computer. Poter “ripristinare” il computer è sicuramente un grande vantaggio nella gestione di un sistema complesso come l’insieme dei programmi che girano sul nostro pc. Un piccolo errore, come un file copiato male o una libreria danneggiata, può compromettere l’intera infrastruttura software. Anche la civiltà umana nell’epoca in cui viviamo può risultare compromessa da un aggiornamento difettoso o da un’innovazione pericolosa. Un virus o un batterio particolarmente resistente possono compiere un’ecatombe tra gli esseri umani, o annientare elementi vitali della nostra catena alimentare, compromettendo la sopravvivenza della civiltà. Questi rischi esistenziali non sono esclusivamente di origine naturale. Danni estesi legati al cambiamento climatico, prodotto dall’azione inquinante dello sviluppo tecnologico, sono di evidente origine antropica. Recentemente alcune voci eminenti, come quelle del filosofo Nick Bostrom, dell’astrofisico Stephen Hawking e dell’imprenditore Elon Musk, hanno preso posizione contro l’ipotesi di sviluppare intelligenze artificiali, che potrebbero potenzialmente assumere il controllo del mondo, mettendo a rischio l’esistenza dell’umanità (cfr. Bostrom, 2014). Un po’ meno recentemente, alcuni studiosi hanno lanciato un analogo allarme nei confronti delle nanotecnologie, in grado teoricamente di sfuggire al nostro controllo e scatenare un processo distruttivo di autoreplicazione (cfr. Drexler, 1986). Il Future of Humanity Institute dell’Università di Oxford definisce “rischi esistenziali” quei rischi che possono produrre la prematura estinzione dell’umanità, o una permanente e drastica distruzione del potenziale in grado di assicurare all’umanità il suo sviluppo futuro. In un recente rapporto stilato per il Government Office for Science del Regno Unito, gli studiosi dell’istituto indicano tra i più probabili rischi esistenziali prodotti dallo sviluppo tecnologico la geoingegneria – l’insieme di quei metodi artificiali suggeriti per la riduzione del riscaldamento globale –, agenti patogeni ingegnerizzati per scopi di studio scientifico, intelligenze artificiali (cfr. Beckstead e Ord, 2014). Nessuna di queste innovazioni nascerebbe con lo scopo esplicito di arrecare danno (a differenza, per esempio, della bomba atomica), ma se sfuggissero al nostro controllo o rivelassero effetti collaterali distruttivi, cosa potremmo fare? Se non fossimo in grado di trovare immediate soluzioni, potremmo attingere a un backup da cui tentare il “ripristino” del sistema alle condizioni antecedenti?
La domanda sembra fantascientifica, ma alcuni “punti di ripristino” della civiltà esistono già. Il più noto è forse lo Svalbard Global Seed Vault, in Norvegia, che conserva esemplari di migliaia di specie di sementi. Un progetto ambizioso nato con l’obiettivo di preservare la biodiversità vegetale, già oggi a rischio, da una serie di elementi: gli effetti del cambiamento climatico, che distruggono specie meno adattabili; gli incroci genetici compiuti per secoli dagli agricoltori, che hanno ridotto la diversità delle specie coltivate per usi alimentari; e gli OGM, che sul lungo termine potrebbero condurre all’estinzione numerose specie vegetali. Proprio perché non sappiamo quanto sarà estesa questa “estinzione di massa”, lo Svalbard Global Seed Vault è particolarmente utile. La riduzione della diversità, infatti, aumenta la possibilità di diffusione di agenti patogeni letali per le specie più estesamente coltivate; epidemie di questo tipo possono anche compromettere l’alimentazione su scala mondiale (come nel film Interstellar).
Esistono diversi progetti che, seguendo l’esempio della volta dei semi di Svalbard, intendono creare sistemi di backup di alcuni strumenti vitali della nostra civiltà. Il progetto Rosetta della Long Now Foundation, per esempio, ha portato allo sviluppo di un archivio di ben 1500 lingue parlate attualmente nel mondo, in grado di resistere all’erosione del tempo per circa diecimila anni. Il progetto è nato dalla consapevolezza che, nel corso di questo secolo, diverse centinaia di lingue parlate solo da pochi gruppi umani scompariranno insieme ai loro ultimi native speakers. Un patrimonio linguistico che rischia di andare scomparso, soprattutto considerando che quasi tutte quelle lingue hanno prodotto opere scritte che un giorno potrebbero rivelarsi indecifrabili. La Long Now ha così realizzato una “stele di Rosetta” del futuro, un disco in nickel e silicio dal diametro di pochi centimetri su cui sono state effettuate microincisioni. Su quel disco, ingrandendo le incisioni di 1000 volte attraverso un potente microscopio ottico, si potrà avere accesso a un vocabolario di base di tutte le lingue, a una loro coincisa grammatica, alle istruzioni sulla pronuncia e ai primi tre versetti della Genesi tradotti nelle 1500 lingue conservate. Istruzioni nelle otto lingue più parlate oggi sono state incise per essere visibili a occhio nudo sull’altra faccia del disco. Piccola e resistente, questa “stele di Rosetta” del terzo millennio non è un dispositivo di conservazione digitale e può essere letta senza far ricorso a strumenti elettronici. L’idea è infatti quella di creare sistemi di backup che siano accessibili anche a strumenti a bassa tecnologia.
L’interesse per questo progetto consiste nel farci riflettere sulla necessità di salvare e conservare l’oceano di dati digitali a cui oggi abbiamo accesso, ma che in futuro potrebbero risultare non più leggibili. Quando ci capita inavvertitamente di cancellare dalla macchina fotografia digitale o dallo smartphone tutte le foto scattate durante una vacanza prima di averle salvate su un altro dispositivo, o stampate su carta, perdiamo una testimonianza significativa di un momento del nostro passato. Se, per tante possibili cause, Internet non fosse più accessibile, perderemmo l’accesso al più ricco database mai prodotto dalla nostra civiltà. Altre informazioni conservate in passato su supporti come i microfilm o i floppy disk sono già oggi difficilmente recuperabili, perché tali supporti – e i loro strumenti di lettura – sono ormai fuori produzione. Istituzioni come l’Internet Archive lavorano per conservare la “memoria del web”, salvando il contenuto di miliardi di pagine web e rendendole consultabili a tutti. È possibile trovare copie di siti che oggi non esistono più, e la cui scomparsa – legata anche semplicemente al mancato pagamento dell’hosting – potrebbe comportare la perdita di informazioni preziose.
Sicuramente il “buco nero” della memoria digitale è uno dei più grandi rischi della nostra civiltà, perché rischia di privarci di un’enorme mole di conoscenza che oggi è disponibile solo online. Se ci trovassimo a vivere un nuovo medioevo, verremmo privati di quel fondamentale apporto per la conservazione della memoria della civiltà antica che furono le biblioteche dei monasteri. La carta, infatti, è ancora un supporto più durevole, oltreché di facile consultazione, del digitale. Alcuni progetti più ambiziosi di quello di Rosetta stanno studiando la possibilità di conservare i dati all’interno di molecole di DNA. La doppia elica che conserva il nostro patrimonio genetico all’interno di ogni cellula del nostro corpo è infatti, nel mondo naturale, il più perfetto supporto di archiviazione esistente. Un grammo di DNA può memorizzare l’equivalente di 3 milioni di CD. Non solo: una molecola di DNA si deteriora dopo cinquecento anni, se non sottoposta a tecniche di conservazione; ma in condizioni di maggior protezione, può resistere anche decine di migliaia di anni. La compressione di dati all’interno del DNA è una tecnologia ancora immatura. Sono stati fatti significativi passi avanti negli ultimi anni, ma non al punto da renderla economicamente conveniente, benché ci lavorino anche alcune compagnie con l’interno di trasformarla in una tecnologia commerciabile. In futuro, però, potremmo immaginare di salvare tutta la memoria degli Internet Archive in pochi grammi di DNA, così da conservarla per migliaia di anni.
Alcuni progetti stanno prendendo in considerazione l’idea di costruire “santuari” in tutto il mondo, all’interno dei quali raccogliere quel materiale che potrebbe essere utile ai nostri discendenti nel caso in cui siano necessario “ripristinare” la civiltà tecnologica dopo un improvviso collasso. Sebbene si tratti di progetti meno realistici, il loro utilizzo come “esercizio mentale” è tuttavia utile, perché ci porta a immaginare di cosa avrebbero bisogno i nostri discendenti per far ripartire lo sviluppo umano. Informazioni sulle tecniche di agricoltura, sul modo di produrre energia, schemi per la costruzione di computer sarebbero certamente utili. Negli anni della Guerra fredda, si diffuse negli Stati Uniti la moda di costruire “capsule del tempo”, da conservare sottoterra o in altri luoghi comunque al riparo dalle conseguenze di un armageddon nucleare. Al loro interno venivano conservati non solo oggetti di uso quotidiano, ma anche istruzioni per rimettere in moto la civiltà. L’idea, quindi, non è propriamente nuova.
Istituzioni come la Lifeboat Foundation stanno da tempo lavorando all’individuazione di metodi in grado di mitigare il rischio esistenziale. Queste realtà perorano ancora un migliore utilizzo del principio di precauzione nello sviluppo di nuove tecnologie e nella ricerca scientifica di frontiera, sostenendo che la ricerca debba, se necessario, essere rallentata, per permettere uno studio a monte sulle sue possibili conseguenze per la civiltà. Tali prese di posizione, sostenute anche da eminenti studiosi come Martin Rees (cfr. Rees, 2012), devono essere accolte con cautela, dal momento che rischiano di prestare il fianco a una pericolosa critica anti-scientifica in crescita in questi anni (si pensi, per esempio, all’improbabile querelle sulla possibilità che l’acceleratore di particelle LHC del Cern producesse un mini-buco nero in grado di inghiottire la Terra, dibattito che tenne banco sui media nel 2008 nonostante l’ipotesi fosse destituita di qualsiasi fondamento scientifico). Più realisticamente, la comunità scientifica e i policy-makers devono prendere confidenza con l’idea dei rischi esistenziali associati all’accelerazione tecnologica, e riflettere sui metodi che possono permetterci di sviluppare “punti di ripristino” qualora la situazione sfugga al nostro controllo. Non si tratta di affrontare solo i rischi esistenziali antropogenici, ma anche quelli naturali, come pandemie virali, asteroidi ed eruzioni di supervulcani. La civiltà tecnologica è meno resiliente oggi rispetto al passato, per l’evidente vulnerabilità di un pianeta sovraffollato, interdipendente e fondato su una fragile infrastruttura. Fenomeni come l’influenza del 1918 metterebbero oggi a rischio la sopravvivenza della nostra specie.
Come scrivevo in un precedente articolo, la mitigazione dei rischi esistenziali è una strategia-chiave per la sopravvivenza dell’umanità su lungo periodo. Naturalmente, il sistema di backup definitivo andrà costruito su un posto fuori dalla Terra, come suggeriscono alcuni studi che progettano siti di conservazione sulla Luna. Ciò ci spinge a un’ultima, inevitabile riflessione: solo estendendo la nostra specie oltre la Terra otterremo la necessaria garanzia di poter sopravvivere a qualsiasi catastrofe di livello estintivo sul nostro pianeta. Una ragione in più per riprendere il discorso dell’espansione nello spazio, da troppo tempo messo in pausa dall’incapacità della nostra specie di progettare sul lungo termine.
Per approfondire:
- Bostrom N., Superintelligence: Paths, Dangers, Strategies, Oxford University Press, 2014.
- Drekler K.E., Engines of Creation, Doubleday, New York, 1986; tr. it. disponibile su http://www.estropico.com/id171.htm.
- Beckstead N. e Ord T., Managing Existential Risks from Emerging Technologies, in Government Chief Scientific Adviser (a cura di), Innovation: managing risk, not avoiding it, Government Office for Science, UK, 2014.
- Rees M., Da qui all’infinito. Una riflessione sul futuro della scienza, Codice, Torino, 2012.