Una nuova sociologia del futuro?
Negli ultimi anni un nuovo filone di ricerca nelle scienze sociali a livello internazionale ha posto al centro dell’analisi il concetto di “futuro” e il modo in cui, attraverso le rispettive aspirazioni e orizzonti di aspettativa, le comunità orientano il proprio agire sociale e politico. L’articolo del 2004 di Arjun Appadurai The Capacity to Aspire: Culture and the Terms of Recognition (ora in Appadurai, 2011) è stato il punto di partenza di una riflessione poi ulteriormente approfondita nella più ampia raccolta di saggi Il futuro come fatto culturale (Appadurai, 2014). Centrale nella proposta dell’influente antropologo indiano c’è l’idea che, attraverso lo studio delle aspirazioni degli attori sociali, sia possibile ricostruire il modo in cui tali aspirazioni «partecipano della costituzione culturale o, più propriamente, simbolica della società, e precisamente dei modi di rappresentare il futuro, le configurazioni del possibile e del desiderabile» (de Leonardis e Deriu, 2012). La prima applicazione concreta di questa proposta è rintracciabile nello studio compiuto da Appadurai sui movimenti per il diritto alla casa negli slum di Mumbai. Le azioni messe in campo da questi movimenti costituiscono “esercizi di costruzione” della “capacità di avere aspirazioni”, definita come «una capacità di orientamento nutrita dalla possibilità di fare congetture e confutazioni sul mondo reale» (Appadurai, 2014).
Mentre lo studio di Appadurai è rimasto limitato all’analisi delle aspirazioni dei gruppi emarginati, è evidente che la proposta di studiare il futuro come “fatto culturale” ha un’estensione potenziale molto più ampia. In questo senso è stata letta da diversi sociologi italiani, che in un volume collettaneo del 2012 (Il futuro nel quotidiano. Studi sociologici sulla capacità di aspirare) hanno dimostrato i molteplici ambiti di applicazione della proposta di Appadurai, astraendola dall’ambito antropologico e introducendola nella più ampia ricerca sociologica. Diventa allora possibile analizzare le aspirazioni delle comunità occidentali nell’epoca della crisi del paradigma della modernizzazione (Jedlowski, 2012), per esempio nel confronto tra l’orizzonte di aspettativa della generazione dei baby boomers e quello dei cosiddetti millennials, per i quali «la crescita della velocità brucia il futuro sul nascere, comprimendo lo spazio temporale fra presente e futuro e rendendolo progressivamente più evanescente», al punto che «l’idea di un futuro guidato dal principio del costante miglioramento è sostituita dalla categoria del presente esteso» (Leccardi, 2012).
Particolarmente feconda si è rivelata inoltre l’ipotesi di incrociare la proposta di Appadurai con quella avanzata da Wendell Bell (1996) e Barbara Adam (2010) di fondare una nuova sociologia del futuro. Indipendentemente e in tempi diversi, ma con analoghi obiettivi, i due sociologi, dopo aver dedicato la loro attenzione al boom che il settore dei futures studies visse tra gli anni Sessanta e Settanta del XX secolo soprattutto nel mondo anglosassone, e al suo successivo declino, hanno suggerito di rifondare gli studi sul futuro; in particolare, Adam ha proposto di sostituire al concetto di probable future (“futuro probabile”), oggetto delle analisi della prima sociologia del futuro, quello di preferred future (“futuro ideale”), non più sterile oggetto d’analisi scientifica ma orizzonte continuamente ridefinito e differenziato nel tempo e nello spazio, a seconda delle comunità che ne definiscono il contenuto. La nuova sociologia del futuro, dunque, ha per obiettivo lo studio dei «diversi modi in cui il futuro viene culturalmente costruito attraverso le rappresentazioni sociali, l’immaginario, la definizione degli orizzonti temporali dell’agire» (Mandich, 2012). Un grande convegno internazionale organizzato nel giugno 2015 a Napoli, dal titolo From memories to the future, ha per la prima volta incrociato queste due diverse prospettive, dimostrando i tantissimi potenziali cantieri di ricerca che lo studio del futuro – non più solo “fatto culturale” ma “fatto sociale totale” – può aprire nell’ambito delle scienze sociali.