La filosofia si occupa infatti della realtà, ma non di scoprire fatti nuovi su di essa: cerca di migliorare la nostra comprensione di ciò che già sappiamo. Non cerca di osservare di più, ma di chiarire la nostra visione di ciò che vediamo. Il suo scopo è, come sostiene Wittgenstein, di aiutarci a vedere il mondo nel modo corretto.
Michael Dummett (2010)
Perché la filosofia dovrebbe occuparsi degli scenari della città del futuro? La risposta è contenuta nella frase posta in esergo e consiste nel comprendere meglio la città di quanto non siamo in grado di fare attualmente e di vedere il mondo nel modo giusto, attraverso la prospettiva della città riassumibile con la seguente sequenza: 4 – 55 – 75 – 80. Questi numeri rappresentano le percentuali rispettivamente dell’occupazione di territorio da parte delle città, della quantità di popolazione che vive attualmente negli insediamenti urbani, dell’energia utilizzata dalle metropoli rispetto ai consumi globali e della quantità di emissioni nocive, legate alle aree metropolitane, sempre in riferimento alla produzione mondiale.
La filosofia è chiamata a dare un senso alla disruption (prendendo in prestito un termine dalla biologia) dovuta all’esplosione demografica, alla svolta digitale e infine alla non trascurabile emigrazione di quasi cento milioni di persone che, ogni anno, si spostano dalle zone rurali verso le concentrazioni urbane. Questa nuova era, usando le parole di Ulrich Beck, si configura come una metamorfosi del mondo (Beck, 2016). Questo fenomeno non si presenta come un cambiamento sociale, non si delinea come una semplice trasformazione, non si prospetta come una evoluzione lineare, non appare come una crisi, ma si profila come una modalità di cambiamento della natura dell’esistenza umana capace di creare profondi effetti collaterali. Siamo nella condizione del bruco che non sa di diventare farfalla: non è né un cambiamento consapevole, né intenzionale, né programmatico, né finalizzato. La partecipazione digitale rende tutti attori e spettatori allo stesso tempo. Il problema sembra consistere nella poca consapevolezza che dimostriamo; la prova è che stiamo leggendo la realtà con categorie inappropriate e molte volte fuorvianti. Il rischio di tutto questo, spesso confuso con una facile democrazia partecipativa, ci viene indicato da Beck quando scrive che certamente il «web rende possibili la protesta e la partecipazione. Tuttavia, queste possibilità sono altra cosa rispetto alla partecipazione democratica. Sono infatti definite e create da attori di mercato. La comunicazione digitale è nelle mani di grandi imprese transnazionali, perciò, la sovranità sul dibattito pubblico è occupata dal potere di aziende private» (Beck, 2016).
L’identità della città
L’identità personale amplia la propria dimensione con la nascita di una nuova concezione del sé di natura sociale. A questo proposito Luciano Floridi sostiene che «il sé sociale è il principale canale attraverso cui le ITC, e in particolar modo i social media interattivi, esercitano il loro profondo impatto sulle nostre identità personali» (Floridi, 2017). Questa metamorfosi è un vero cambio di paradigma, con il significato che assegna Thomas Kuhn alle rivoluzioni scientifiche. Kuhn descrive il processo di variazione di paradigma come una vera e propria discontinuità, seguita da un periodo di caos, fino a una stabilizzazione temporale sufficiente per un adeguamento del consenso scientifico (Kuhn, 1962). Se possiamo utilizzare la teoria di Kuhn per descrivere la metamorfosi sociale, la struttura discreta non ci permette di riferirci al passato per guardare al futuro e il periodo disordinato e confuso è quello dell’incapacità di comprendere completamente il momento in cui viviamo.
La città è un grande magnete capace di attirare gli individui, un crogiolo in cui si compie la fusione di elementi diversi (economici, sociali, culturali) e una incubatrice nella quale si compie il processo di proliferazione e sviluppo delle idee che possiamo poeticamente rappresentare in quel «dolce umano vortice» che Mario Soldati utilizza per descrivere Times Square (Soldati, 1956). Abbiamo spesso usato la metafora dell’espansione del virus per spiegare come si diffondono le idee in un ambiente particolarmente favorevole come la città. Ora, in epoca di Covid, la situazione ci porta a interessarci di come la città sia lo spazio ideale per il contagio. La città è un sistema adattivo complesso; in altre parole la realtà urbana ha dirette connessioni e dipendenze con l’energia, con le risorse, con i sistemi ambientali ecologici, economici, sociali e politici. Questi rapporti sono facilitati dai meccanismi di retroazione insiti nella struttura metropolitana. La città, semplificando, consta fondamentalmente di due componenti; il primo è l’infrastruttura fisica (fabbricati, strade, fognature, ecc.), che ha delle importanti similitudini con gli organismi biologici, fra le quali un andamento di sviluppo sublineare pari a 0,85, mentre il secondo è di tipo socioeconomico ed evidenzia un andamento di sviluppo superlineare con valore pari a circa 1,15 (West, 2017). In altre parole, questo significa che al raddoppiarsi della popolazione di una città la sua rete di servizi non raddoppia ma subisce un incremento di circa l’85%. Per esempio, il raddoppio demografico comporta un aumento dei distributori di carburante dell’85% e non del 100%, ma ahinoi questo vale anche per i posti letto ospedalieri! Per contro, più è grande la città e tanto più alti (con un incremento del 15%) saranno i salari, più diffuso il crimine e più numerosi i casi di contagio influenzale, compreso il Covid-19.
A questo punto, dovremmo domandarci se la densità urbana possa essere considerata un fattore negativo, tanto da doverlo abbandonare in ambito di pianificazione. Se facciamo riferimento alla città dell’Ottocento ci rendiamo conto del perché Ebenezer Howard (fondatore del movimento per la “Città Giardino”) fosse convinto che il ritorno alla campagna coincidesse con la felicità, la ricchezza e il potere. D’altra parte, è sufficiente leggere i romanzi di Charles Dickens per convincerci delle pessime condizioni igieniche della città e della sua profonda e diffusa disumanità.
La comprensione del cambiamento
Dall’analisi sia del passato sia del presente emerge che le città crescono ed evolvono più rapidamente rispetto alla nostra capacità di comprenderle. Questo senso di impotenza è racchiuso nel grido poetico di Baudelaire nella Parigi hausmanniana, che descrive la disperazione del cigno in un cantiere della città, sconvolta dai Grands Travaux, mentre cerca goffamente l’acqua e di ritrovare il suo volto:
… La vecchia Parigi ormai scompare
(d’una città la forma veloce si rinnova,
più rapida, ahimé, del cuore d’un mortale);
…un cigno che, sfuggito alla sua gabbia, andava
sfregando con i piedi palmati il pavé secco,
sul suolo scabro il bianco piumaggio trascinava.
Presso un rivo senz’acqua l’uccello aprendo il becco
bagnava nella polvere le ali nervosamente
e diceva, sognando il suo luogo natale…
Charles Baudealaire sottolinea lo straniamento dell’uomo in riferimento alla velocità dei cambiamenti della città rispetto al proprio “cuore”. Questa riflessione poetica assume una valenza universale, tanto da poterla “sentire”[1] anche nella città e nella società globale dei nostri giorni.
Tuttavia il cambiamento, la concentrazione demografica e la densità infrastrutturale non sono i sintomi della malattia della città. Quando venne colpita dalla prima pandemia di colera, New York aveva 250.000 abitanti; nel 1849, quando fu colpita dalla seconda epidemia, ne aveva 500.000; oggi ne ha quasi 9 milioni. L’effetto magnete da parte della città, come non si è esaurito dopo l’attentato delle Torri gemelle, non diminuirà a causa del Coronavirus. Ma come possiamo difenderci in caso di emergenza senza abbandonare la città? La nostra evoluzione e la nostra sopravvivenza sono dipese – a partire da duecentomila anni fa, proprio quando Homo sapiens si distinse dalle altre specie – dalla tecnica e dalla capacità innovativa; a queste devono legarsi le nostre speranze e i nostri sforzi di ricerca. Sarà ancora una volta la città a permetterci questi sviluppi e a fornirci le soluzioni.
Il segreto sta nel carattere ambivalente della città. Per modificare l’andamento sublineare della crescita delle infrastrutture (posti letto ospedalieri) sarà sufficiente predisporne un numero dettato dall’attuale situazione. Ma la risposta più efficace ci sarà data dalla capacità di resistenza e adattamento che sapremo sviluppare. La resilienza dobbiamo intenderla come atteggiamento complementare alla forza. Seguendo questa strada, dovremo investire e lavorare per trovare il vaccino (questa azione attiene alla forza), nella consapevolezza che potranno esserci in futuro virus o loro mutazioni per i quali il vaccino sarà inefficace. Il modo di pensare dovrà mutare rispetto all’obiettivo esclusivo di eliminare il pericolo, verso la consapevolezza che il problema non può essere cancellato e che la nostra miglior difesa è la capacità di reazione e di adattamento (questo atteggiamento attiene alla resilienza). È importante sottolineare che l’emergenza è più facile da gestire e da controllare in uno spazio concentrato e denso, rispetto a luoghi dispersi sul territorio. Infatti, più rapidamente reagiamo in maniera coordinata e organizzata attraverso una preventiva pianificazione di compartimentazioni[2] dei luoghi, un’efficace distribuzione dei presidi sanitari, un’organizzazione delle forniture essenziali, una diffusione della cultura dell’uso dei dispositivi individuali di protezione, e meno permetteremo la diffusione degli agenti patogeni.
Per maggiore protezione, sicurezza e controllo abbiamo strumenti molto efficaci legati ai nostri smartphone. Ricordiamo a questo proposito che a livello europeo è stata sviluppata, già nel 2011, un’app denominata “fluphone” che non è stata utilizzata per ragioni legata alla privacy. Senza entrare nelle polemiche sorte dall’utilizzo dei dati da parte della Cina, della Corea del Sud e di Singapore – uso che peraltro ha avuto un incontestabile successo – ricordiamo quanto siamo disponibili a riversare i nostri dati personali per futili motivi sui social network (Facebook, Twitter, TikTok, Instagram) senza nessun controllo per poi, improvvisamente, preoccuparci della nostra privacy in caso di emergenza sanitaria.
Per comprendere l’utilizzo della tecnologia e dell’innovazione è interessante ricordare come è stata scoperta la ragione del contagio e di conseguenza anche la natura della diffusione del batterio che, aveva messo a dura prova, nell’Ottocento, le città di Londra e New York. Nel 1854 a Soho (sobborgo londinese) si sviluppò uno dei maggiori focolai di colera. In questa zona della città viveva un medico condotto, John Snow, che già da quattro o cinque anni sosteneva che il colera si trasmettesse attraverso l’acqua contaminata, senza però riuscire a convincere nessuno. Le autorità sanitarie pubbliche avevano largamente ignorato le sue parole. Egli aveva osservato che gli abitanti nei pressi di una particolare pompa d’acqua morivano con una frequenza maggiore. Snow risiedeva proprio nei pressi e aveva sospettato che un focolaio tanto concentrato potesse avere una sola sorgente, alla quale molti attingevano, in quanto l’infezione non aveva la progressione, tradizionalmente lenta, che si aspettava. Per analizzare la situazione si avvalse di Henry Whitehead, un ministro locale che non era assolutamente un uomo di scienza, ma era incredibilmente “connesso socialmente”. Egli conosceva infatti tutto il vicinato e fornì le informazioni sugli abitanti in modo che Snow potesse “tracciare” i casi di persone che avevano bevuto l’acqua dalla pompa. Il passo successivo e definitivo fu quello di disegnare una mappa che rappresentasse in maniera chiara la situazione. La diretta conseguenza fu che, convincendo la popolazione a bollire l’acqua, il focolaio si esaurì e negli anni successivi Londra e altre grandi città incominciarono a dotarsi di fognature per impedire che le falde acquifere fossero oggetto di inquinamento. La mappa di Snow non fu l’unica ragione che spinse le città a dotarsi di tecnologie igieniche, ma ha certamente contribuito a migliorare la vita nelle aree urbane. Non sappiamo cosa potremo imparare dalla situazione attuale, né se emergeranno tecnologie atte a migliorare le attuali condizioni di vita, ma certamente l’utilizzo intelligente della mappa del dottor Snow ci indica come anche una semplice app potrebbe esserci d’aiuto nel caso in cui sulle nostre global smart cities, in futuro, incombesse nuovamente il pericolo.
Se siamo d’accordo a considerare la città come il luogo privilegiato (seppur non privo di problemi) dell’interazione fra le persone, allora è del tutto legittimo sottoporla a un’analisi filosofica, ma a condizione che venga – seguendo le indicazioni di Luciano Floridi – «intesa come design concettuale, che forgia nuove idee, teorie, prospettive e, più in generale, la cornice intellettuale che può essere usata, dunque, per comprendere e gestire le questioni di fondo che risultano, oggi, più pressanti» (Floridi, 2020).
La descrizione della città
Ci serviamo di numerose metafore per rappresentare o descrivere la città; fra queste la più illuminante, tratta dalla natura, è il reef. La barriera corallina è uno spazio di competizione per accaparrarsi le risorse come già Darwin aveva fatto notare, ma la sua caratteristica più interessante è la straordinaria capacità di connessione fra i suoi componenti. Come sostiene Steven Johnson «la barriera corallina ci aiuta a comprendere altri enigmi dai quali siamo partiti: l’innovazione esponenziale delle città e della Rete. Anche questi sono ambienti che collegano e mescolano compulsivamente la risorsa più preziosa: le informazioni» (Johnson, 2010).
La svolta digitale e l’aumento di dimensioni delle realtà urbane ci inducono a non considerare più la città come documento, ma come un’entità documediale, e quindi la necessità di pensarla come un processo sociomediale. Le ragioni di questa variazione di paradigma sono dovute al passaggio dalla materia alla memoria, dalle merci ai documenti e dal lavoro alla mobilitazione come suggerito da Maurizio Ferraris (2009, 2016, 2018). La città negli ultimi duecento anni ha subito almeno due trasformazioni ontologiche: la prima da oggetto sociale a sistema (con la rivoluzione industriale) e la seconda da sistema a processo documediale (con la svolta digitale). Definire la città un processo non è un nuovo tentativo di individuarla attraverso un’ulteriore figura retorica, ma, come sostiene Achille Varzi (2019), «è una risposta metafisica informativa sostanziale». Le città non sono oggetti durevoli, bensì processi. Si estendono nel tempo così come si estendono nello spazio. Possiamo quindi camminare due volte attraverso la stessa città così come possiamo fare due volte il bagno nello stesso fiume: camminando attraverso diverse parti spazio-temporali di un unico insieme esteso nello spazio. Questo passaggio paradigmatico richiede un vocabolario alternativo a quello tradizionale. Lo sguardo futuro sulla città sarà condizionato soprattutto dall’asimmetria, dall’incertezza, e dalla complessità.
Le caratteristiche della città del futuro
La simmetria è legata al rapporto azione-reazione della fisica classica: la forza di un esercito determinava l’andamento della guerra, la forza economica indicava le potenzialità aziendali. Con l’avvento della digitalizzazione è sufficiente un hacker per mettere in serio pericolo le organizzazioni amministrative, basta un algoritmo per ingannare migliaia di investitori finanziari e un terrorista è in grado di sfidare un esercito. Questa situazione asimmetrica, come affermano Joi Ito e Jeff Howe, non permette più di «presupporre che i costi e i benefici saranno proporzionali alle dimensioni. Semmai, è probabilmente vero l’opposto: le più grandi minacce allo status quo provengono oggi dai posti più piccoli, dalle startup e dai malviventi, i dissidenti e i laboratori indipendenti» (Ito e Howe, 2017). Il caratterizzarsi dell’asimmetria sconvolge l’ordine del mondo e come prima conseguenza produce incertezza che si esprime nel passaggio dalla sicurezza del verificarsi di un evento alla probabilità del suo manifestarsi.
L’incertezza si può tradurre nella nostra incapacità di prevedere il futuro. Come sostiene Maurizio Ferraris
il futuro non è più quello di una volta, e la matrice di tante profezie irrealizzate è sempre una: si diceva che la scrittura sarebbe scomparsa, in favore della radio, della televisione, del telefono, ed eccoci qui a scrivere e a leggere tutto il santo giorno, a picchiare sui tasti di computer e telefonini. Da questa profezia mancata ne erano discese tante altre. Per esempio, che la televisione si sarebbe mangiata il computer (vi ricordate quando proponevano di usare come schermo il televisore?), mentre è successo esattamente il contrario. O anche che la carta sarebbe scomparsa dai nostri tavoli, mentre proprio la possibilità, che si è presentata per la prima volta dopo tanti secoli, di scrivere senza carta, ha moltiplicato le valanghe di carta che ci investono ogni giorno. (Ferraris, 2009)
Le nostre previsioni assomigliano più a speranze che non a certezze, soprattutto se prendiamo come assunto di base che l’improbabile (il cigno nero) governi le nostre vite. Nassim Nicholas Taleb, ponendoci alcune domande, evidenzia come l’incertezza regni sovrana: «Si poteva prevedere il successo di Google? E l’11 settembre? E il crollo di Wall Street? Perché ci ostiniamo a pianificare il futuro in base alla nostra conoscenza quando le nostre vite vengono sempre modificate dall’ignoto?» (Taleb, 2014). Possiamo citare almeno tre elementi che sono alla base dell’incertezza globale relativamente ai quali ci eravamo illusi di poter governare: virus (anche prima del Covid-19), riscaldamento globale, crisi economiche. A proposito di queste ultime, neanche i premi Nobel per l’economia avevano previsto la crisi del 2008 e il Wall Street Journal ha dimostrato come le previsioni economiche abbiano performance inferiori alla previsione casuale; il giornale economico «pubblicò per anni una nota rubrica in cui gli esperti nella selezione dei titoli azionari venivano messi in competizione con i tiri casuali di una freccetta sulle pagine dedicate alla borsa; le freccette avevano quasi sempre la meglio. Se prevedere il futuro era un’attività futile prima, lo è ancora di più oggi che abbiamo messo il turbo al quoziente di complessità del mondo» (Taleb, 2014).
Il contributo che la filosofia può dare allo sviluppo di una teoria della città viene suggerita da Edgar Morin (2019) quando, nel suo tentativo di strutturare un’argomentazione complessa, sostiene che la filosofia è un tipo di pensiero in grado di collegare le conoscenze e di calarle nel concreto e nella complessità per permetterne una riflessione globale andando al di là delle iper-specializzazioni. Le relazioni fra noi, le città e il mondo posseggono un carattere complesso. Di conseguenza è attraverso la complessità che possiamo conoscerne i nessi. Non è corretto quindi analizzare i fattori separatamente, perché il risultato finale è più ampio della somma delle singole parti. Inoltre, come abbiamo visto, vi è un’ulteriore variabile che unisce, condiziona e modifica i rapporti fra vita quotidiana, città e mondo: la disruption digitale. L’approccio complesso ci permette di considerarne i fattori in gioco nella loro “co-evoluzione” e attraverso le regole di “auto-eco-organizzazione”, secondo il concetto di autopoiesi (Maturana e Varela, 1980). La complessità riconosce l’evento e il contingente, indica la strada per superare l’alternativa fra unità e molteplicità, e considera proposizioni contrarie come complementari: continuo/discontinuo, individuo/società, città/mondo. Il motto latino di Niels Bohr contraria sunt complementa rivela come queste apparenti antinomie siano la base del complexus (secondo il suo significato etimologico di “tessuto insieme”) nell’analisi degli individui e negli individui, delle società e nelle società, delle città e nelle città. Oggi la forma del mondo è data dalle interrelazioni complesse fra società, città e informatizzazione globale. che sono caratterizzate dall’eterogeneità, dalla rete, dall’interdipendenza e dalla capacità di adattamento.
Le città sono incubatrici di idee ma, come abbiamo evidenziato sopra, anche di virus. Le realtà urbane sono luoghi ambivalenti dove le infrastrutture fisiche si sviluppano in maniera sublineare mentre le attività socio-economiche e le epidemie procedono in modo superlineare. La densità abitativa e le dimensioni demografiche delle città possono sembrare uno dei maggiori nemici, anche se si rivelano un vantaggio enorme a livello di risparmio energetico: un abitante di Manhattan, infatti, consuma un sesto di energia rispetto al suo omologo di Houston (Owen, 2014) e ogni abitante di Santa Fe immette nell’atmosfera una quantità quasi doppia di carbonio rispetto agli abitanti di New York (West, 2017). In tutti i casi il pensiero di abbandonare la città, come durante l’epidemia di colera dell’Ottocento o dopo gli attentati terroristici, è una suggestione momentanea che non modifica minimamente la tendenza a considerare la polis il luogo privilegiato del logos. Proprio il pensiero e la ragione ci indirizzano a considerare la città del futuro in termini di programmazione e di resilienza.
Un processo si programma e non si progetta. La programmazione appartiene a un livello più generale rispetto alla progettazione. Il programma deriva etimologicamente da “scritto prima”, mentre il progetto ha il significato implicito di “gettare avanti”. L’atto di “scrivere prima” conserva la parte di casualità che emerge dallo storico sviluppo delle città, mentre il “gettare avanti” ha senso solo se l’oggetto è già definito e non è soggetto a previsione di varianti. Possiamo definire la progettazione, seguendo le intuizioni di Edgar Morin in relazione alla complessità del sapere, come un’intelligenza cieca che rende incoscienti e irresponsabili in quanto crede fermamente nelle pertinenze e nell’affidabilità delle sue azioni che però spesso non tengono conto delle condizioni reali, dei limiti, delle possibilità e del contesto. Essa si appoggia sui quattro pilastri di certezza denunciati da Morin: i principi d’ordine, di separazione, di riduzione e il carattere assoluto della logica deduttivo-identitaria (Morin, 2019). La progettazione nasconde dietro l’ordine una concezione deterministica e meccanicistica dei suoi effetti. La razionalità e la funzionalità delle scelte urbanistiche contemplano l’esigenza di varianti e di modificazioni come carenza di indagine e di conoscenza, mentre l’utilizzo della “bussola”, anziché della “mappa”, non è di per sé un errore e può condurre all’obiettivo seguendo strade alternative. Per spostarci da un luogo all’altro possiamo scegliere una delle due modalità, nella consapevolezza però che «la mappa implica una conoscenza dettagliata del territorio e l’esistenza di una rotta ottimale; la bussola è uno strumento molto più flessibile e richiede all’utente di usare la propria creatività e autonomia per scoprire il percorso da seguire» (Ito e Howe, 2016). Il pianificatore deve predisporre, in maniera alternativa alla figura tradizionale, dei piani che aiutino il territorio a emergere secondo le particolari potenzialità ambientali e culturali, alla stregua di un giardiniere che concima il terreno, pota le essenze vegetali per poi lasciare liberamente sbocciare i fiori.
Resilienza significa possedere strutture e organizzazioni capaci di reagire in maniera rapida e precisa nei confronti di cambiamenti e minacce. Uno dei principi è sapere come rispondere, non pensando di eliminare il “nemico”, ma adattandosi alle situazioni. L’atteggiamento fondamentale in ambito di resilienza, come sostiene Alex Pentland, è la diversificazione: «Per sopravvivere ai rischi sistemici c’è bisogno di una serie di sistemi diversi, anziché di uno solo ritenuto il migliore. Così facendo, se uno dovesse crollare, quelli rimasti in piedi possono propagarsi rapidamente per sostituirlo. La cybersicurezza è basata su principi di resilienza e la città digitale ha i presupposti per diventare resiliente» (Pentland, 2015). A titolo di esempio, Pentland ci ricorda la tragica vicenda provocata dall’uragano Katrina a New Orleans nel 2005, che spazzando via l’infrastruttura telefonica mise in serio pericolo l’intera struttura sanitaria pubblica, salvata grazie al network dei radioamatori attraverso il quale fu possibile coordinare le operazioni di salvataggio e le consegne dei medicinali. Ma c’è di più: la resilienza ha infatti effetti che ricordano i sistemi immunitari: «Così come un sistema immunitario sano reagisce a un’infezione sviluppando nuove difese dagli agenti patogeni, un’organizzazione resiliente impara dei propri errori e si adatta all’ambiente in cui si trova» (Ito e Howe, 2016). La città del futuro dovrà quindi essere in grado di programmare le proprie qualità resilienti non cercando di prevedere il futuro, ma sviluppando le capacità di continuare a combattere anche in caso di sconfitta. Questa programmazione si avvale della trasformazione digitale e in particolare della diffusione di sensori che non solo raccolgono dati, ma possono reagire in tempo reale. Per fare un esempio, si può pensare ai dati del traffico provenienti dai GPS delle auto e dei loro passeggeri, dai sensori posizionati lungo i tragitti e dalla autoregolazione per effetti retroattivi dei percorsi dettati alle singole auto. Questo è solo uno dei singoli sistemi che compongono il processo digitale di una città. Singapore ha sperimentato un sistema che unisce i dati meteo agli orari degli spettacoli teatrali e alla disponibilità di taxi. L’effetto è che, uscendo dal teatro in una serata piovosa, l’utente si ritiene fortunato di trovare immediatamente un taxi, inconsapevole che questa casualità è frutto di un algoritmo.
Nel lontano 1975 Italo Calvino scriveva:
gli antichi rappresentavano lo spirito della città, con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’operazione comporta, evocando i nomi degli dèi che avevano presieduto alla sua fondazione: nomi che equivalevano a personificazioni d’attitudini vitali del comportamento umano e dovevano garantire la vocazione profonda della città, oppure personificazioni d’elementi ambientali, un corso d’acqua, una struttura del suolo, un tipo di vegetazione, che dovevano garantire della sua persistenza come immagine attraverso tutte le trasformazioni successive, come forma estetica ma anche come emblema di società ideale. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, veder cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi. (Calvino, 1980)
Oggi possiamo dire che la città deve cercare i suoi dèi nell’Olimpo della programmazione digitale: le loro interfacce si nutrono di dati in tempo reale, capaci di condizionare le nostre vite, tanto che stiamo passando dal vivere in una città a vivere con una città.
Bibliografia
- Beck U., The Metamorphosis of the World, Polity Press, Cambridge, UK – Malden, USA, 2016.
- Calvino I., Una pietra sopra: Discorsi di letteratura e società, Mondadori, Milano, 1980.
- Dummett M., The Nature and Future of Philosophy, Columbia University Press, New York, 2010.
- Ferraris, M., Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari, 2009.
- Ferraris M., Emergenza, Einaudi, Torino, 2016.
- Ferraris M., Paini G., Scienza nuova, Rosenberg & Sellier, Torino, 2018.
- Floridi L., The 4th Revolution, 2017; trad. it. La quarta rivoluzione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2019.
- Floridi L., The Logic of Information. A Theory of Philosophy as Conceptual Design, 2019; trad. it. Pensare l’infosfera, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2020.
- Ito J., Howe J., Whiplash: How to Survive our Faster Future, 2016; trad. it. Al passo col futuro, Egea, Milano, 2017.
- Jonhson S., Where Good Ideas Come From: the Natural History of Innovation, 2010; trad. it. Dove nascono le grandi idee, Milano, Rizzoli, 2014.
- Kuhn S., The Structure of Scientific Revolutions, 1962; trad. it. La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 2009.
- Maturana H.R., Varela F. J., Autopoiesis and Cognition. The Realization if the Living, Reidel Publishing Company, Holland, 1980.
- Morin E., L’intelligence de la complexité, L’Harmattan, Parigi, 2000.
- Morin E., La sfida della complessità, Le Lettere, Firenze, 2019.
- Owen D., Green Metropolis, 2009; trad. it. Green metropolis, Egea, Milano, 2014.
- Pentland A., Social Physics, 2014; trad. it. Fisica sociale, Milano, Egea, 2015.
- Soldati M., America, primo amore, Garzanti, Milano, 1956.
- Varzi A. C., What is a City?, «Topoi» , 2019.
- West G., Scale, 2017; trad. it. Scala, Mondadori, Milano, 2018.
Note
[1] Nel senso della poesia di Alda Merini Mi piace il verbo sentire “…sentirne la voce, sentirlo col cuore …”.
[2] La compartimentazione, se fatta coincidere con le reti delle acque reflue, potrebbe permettere il monitoraggio di zone suburbane e quindi sviluppare un sistema di allerta rapida prima ancora che la popolazione accusi i sintomi manifesti del contagio. L’analisi delle acque reflue (già attiva per censire batteri e parassiti), oltre che anticipare l’emergenza, sarebbe in grado anche di monitorare l’andamento della diffusione del virus.