La tentazione più forte quando si ha a che fare con un problema molto complesso è di semplificare: l’esempio più lampante è quello delle pulsioni populiste di stampo xenofobo in risposta al drammatico problema migratorio. Un altro esempio lo abbiamo visto negli scorsi giorni con l’imbarazzante campagna di sensibilizzazione lanciata dal Ministero della Salute per favorire l’aumento del tasso di natalità in Italia: il “fertility day”, idea davvero infelice accompagnata da slogan così mal pensati da aver bruciato in pochi giorni in modo forse definitivo ogni tentativo di questo governo di risolvere un problema che sta assumendo aspetti drammatici per il nostro futuro. Perché senza dubbio il “fertility day” è stata una campagna semplificatoria e lesiva dell’immagine delle donne e del loro diritto all’autodeterminazione, dai toni inquietantemente simili a quelli della propaganda fascista; ma il problema esiste e va affrontato di petto.
La demografa Viviana Egidi, intervistata da Carolina Facioni per il dossier ospitato su FUTURI, denuncia livelli di fecondità che in Italia «hanno raggiunto valori patologici tra i più bassi del mondo». Un’emergenza che ha un numero preciso: 1,35. È la media dei figli per donna in Italia; la soglia di sostituzione, com’è noto, è di 2,1 figli per donna. Solo con un livello del genere potremmo pensare di mantenere stabile la composizione demografica del nostro paese, evitando il dramma di un invecchiamento costante della popolazione. Ma siamo lontanissimi da questa soglia e quasi certamente non la raggiungeremo mai più. Anzi, come spiega Viviana Egidi in quell’intervista, il numero medio di figli per donna sarebbe anche più basso se non considerassimo l’apporto dei cittadini stranieri: 1,1-1,2 al massimo. Perché si fanno pochi figli? Il tema è vastissimo e complesso, quel tipo di complessità che appunto non può essere riassunto in pochi slogan. Sappiamo che esiste un trend globale per cui, all’aumentare del reddito pro capite, diminuisce la natalità; ciò dipende dal fatto che redditi più alti consentono alle donne un più facile accesso ad alti livelli di istruzione e una più ampia autodeterminazione, tale da renderle economicamente e professionalmente indipendenti. Aumenta pertanto il numero di donne nel mercato del lavoro, aumenta la propensione a stabilizzarsi professionalmente prima di pensare a mettere su famiglia: lo stesso pattern di comportamento degli uomini, di cui dalla metà del secolo scorso si nota, nei paesi occidentali, un aumento dell’età media in cui si diventa padri. Stiamo dunque assistendo a un fenomeno di graduale parificazione sessuale, di gender equality, su scala mondiale.
D’altro canto, tuttavia, un conto è la libera scelta di non fare figli, o di averli un po’ più tardi (l’età media in Europa è di 28,7 anni, in Italia è la più alta, 30 anni), un conto è non poter mettere su famiglia per altri tipi di problemi. Esattamente quelli che la campagna “fertility day” non ha voluto prendere in considerazione. Potremmo discutere a lungo sul fatto che i modelli sociali diffusi in Occidente a partire dagli anni Ottanta abbiano o meno favorito un individualismo esasperato che ha ridimensionato il desiderio di donne e uomini di avere figli, con il risultato che nei paesi europei le famiglie mononucleari stanno aumentando a vista d’occhio (nel Regno Unito sono il 35%, e città più internazionali come Milano raggiungono punte del 51%). Ma non si può ignorare il fatto che i tassi di natalità sono molto più alti in paesi come Germania o Norvegia, per non parlare del fatto che in tutti gli altri paesi europei si diventa genitori a un’età inferiore alla nostra, mediamente. E la differenza è quella costituita da problemi che conosciamo bene: disoccupazione giovanile, assenza di politiche famigliari, mancanza di garanzie lavorative per la maternità e la paternità. Un insieme di problemi che producono l’altrettanto noto fenomeno dei NEET: in tutta Europa gli under-30 che non studiano e non lavorano solo saliti a oltre 15 milioni, spiega il demografo Alessandro Rosina nell’intervista pubblicata su FUTURI, di cui 2,3 milioni solo in Italia: «Nessun altro paese in Europa ne ha, in valore assoluto, così tanti. Sono l’equivalente di una regione italiana di media grandezza».
È chiaro che una condizione NEET non permette di pianificare una famiglia. Ma questo il governo non sembra averlo preso in considerazione. Sempre Rosina fa notare un altro aspetto che la campagna del “fertility day” ha ignorato: la paternità: «Il numero di figli desiderati dai ventenni italiani, sia maschi che femmine, è attorno a 2,1. Ma se si chiede quanti figli realisticamente si pensa di riuscire a realizzare, si scende a 1,6 per le donne e a 1,5 per gli uomini. Le difficoltà legate all’occupazione sembrano quindi agire maggiormente sul lato maschile, mentre quelle sulla conciliazione pesano di più su quello femminile. Esiste però anche un aspetto psicologico che si combina con i vincoli dell’orologio biologico. Mentre per le donne il fatto di posticipare in avanti la scelta di avere figli costringe a un certo punto, quando ci si avvicina ai 40 anni, a prendere comunque una decisione, gli uomini possono invece pensare di tenere indefinitamente aperta l’eventualità di diventare padri, ma così si scivola progressivamente nella non scelta, che diventa spesso una rinuncia di fatto». Diventa pertanto fondamentale, se si vuole davvero costruire una strategia politica (e non una mera campagna mediatica) per favorire la ripresa delle nascite, rivolgersi a entrambe le parti della coppia, non solo alle donne. Spesso la rinuncia alla genitorialità parte dagli uomini.
Il problema accennato da Rosina potrebbe inoltre aggravarsi con il progresso della ricerca scientifica. È vero infatti che le donne intorno ai 40 anni si trovano di fronte alla necessità di fare una scelta sulla natalità, perché la loro fecondità crolla rapidamente superata quella soglia (nei 30 anni si ha 1 possibilità su 5 di restare incinte ogni mese in cui si ha un rapporto, nei 40 le possibilità scendono a 1 su 20). Ma è vero anche che già oggi esistono soluzioni di ripiego, come la fecondazione in vitro, che in linea teorica (ossia nei paesi che lo consentono) permette alle donne giovani di conservare congelati i loro ovuli fino al momento in cui decidono di avere figli, così da ovviare al problema dell’invecchiamento degli ovuli. Ed è notizia recentissima che un centro di ricerca greco, Genesis Athens, ha sviluppato un metodo basato sulle cellule staminali in grado di restituire la fecondità alle donne in menopausa: una notizia accolta con un certo grado di scetticismo nella comunità scientifica internazionale, e che dovrà essere replicata con altri test indipendenti per dimostrare la reale fattibilità; ma ci sono molte aspettative sulla possibilità che una di queste donne che hanno ripreso ad avere il ciclo mestruale dopo la terapia possa restare incinta grazie alla fecondazione in vitro. Se davvero la scienza renderà possibile invertire la menopausa, ci troveremo di fronte a numerosi dilemmi etici, ma il problema principale riguarderà la possibilità di posporre ulteriormente – per le donne e non più per i soli uomini – la scelta di avere o meno figli.
Naturalmente ci si potrebbe chiedere se abbia davvero senso preoccuparsi così tanto di fare figli in un pianeta in preda a una crescita fuori controllo della popolazione. Nei decenni scorsi ci si preoccupava molto più della sovrappopolazione, e l’idea di un crollo delle nascite sarebbe stata accolta da molti demografi con enorme sollievo. Il problema è tuttavia – ancora una volta – più complesso: se guardiamo al pianeta nel suo insieme, ci troviamo senza dubbio di fronte a un problema di sovrappopolazione; se guardiamo alle diverse aree geografiche, invece, scopriamo che l’Occidente (termine con cui comprendiamo le aree dell’Europa, Russia, Giappone, Stati Uniti e Canada) sta sperimentando da tempo un calo delle nascite laddove invece Asia e soprattutto, recentemente, Africa, vedono una crescita accelerata della popolazione. Tutto ciò è destinato a produrre gravi squilibri, in particolari future grandi ondate migratorie dall’Africa all’Europa. Fenomeno, quest’ultimo, che certamente non fa bene alla stabilità dei nostri sistemi socio-politici, ma che da più parti si ritiene positivo per invertire il processo di invecchiamento della popolazione, in particolare in Italia. Pagare le pensioni a un numero crescente di over-65 (o over-70, quando l’età pensionabile sarà portata a questa soglia) è impossibile in un paese in cui il rapporto tra lavoratori attivi e lavoratori inattivi (ossia i pensionati) è destinato a squilibrarsi in favore dei secondi. Oggi per molti i migranti sono una minaccia all’occupazione degli italiani, ma in una prospettiva di medio termine il loro ruolo diventerà inevitabile: le tasse che pagheranno serviranno a sostenere i sistemi di welfare. L’alternativa? Se vogliamo andare verso una limitazione degli ingressi di cittadini stranieri in Italia, dobbiamo aumentare le nascite, per riequilibrare in futuro il rapporto tra lavoratori attivi e inattivi e rendere sostenibile il sistema previdenziale.
Ma non è solo questo. Una popolazione che invecchia progressivamente è una popolazione che perde competitività, capacità d’innovazione di cambiamento. L’Italia sta già subendo le conseguenze di una sclerotizzazione persistente del mondo del lavoro. Si può investire sulla cosiddetta ageing society, ossia sul miglioramento delle condizioni di vita degli over-65, per favorire il loro contributo attivo nella società di domani; si può puntare sulla ricerca scientifica per posporre sempre più la soglia dell’invecchiamento. Ma il ricambio generazionale è un’esigenza imprescindibile e gli effetti negativi di questo mancato ricambio sono già davanti ai nostri occhi. Il vero problema della natalità in Italia, in Europa e nel resto dell’Occidente è questo: ed è forse la più grande sfida del nostro futuro, perché prospetta scenari difficili da gestire. Una sfida complessa che la retorica politica vorrebbe rendere semplice, con il solo risultato di peggiorare ulteriormente la situazione.