In questi giorni la mia quotidianità è cambiata, come quella di tutti noi. È diversa soprattutto per il senso di impotenza che un civil servant prova in ogni situazione poco gestibile dalle Istituzioni: la povertà, le guerre, le epidemie. Una sensazione già provata di fronte allo spettro di una terza intifada in Terra Santa, vissuta in prima persona pochi anni fa a Gerusalemme. Ma, oggi come allora, sono disarmata. E allora uso l’unico strumento che oggi ho tra le mani per combattere un nemico invisibile: una penna, per condividere le evidenze scientifiche più interessanti sull’origine del virus, svolgere alcuni rilievi sulle carenze del sistema sanitario nazionale italiano e divulgare i dati economici della crisi che ha colpito i mercati internazionali. Successivamente, per analizzare con i lettori di Futuri i provvedimenti che il Governo italiano ha adottato per contenere la pandemia, che ho seguito con maggiore competenza professionale. Infine, per commentare il clash insorto tra una riscoperta dei valori nazionali e uno spirito anti-europeistico sorto a seguito del dibattito sulle misure da applicare per ovviare alla crisi, cercando di immaginarne le possibili conseguenze a venire.
Siamo a marzo 2020, il Direttore generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), Tedros Adhanom Ghebreyesus, annuncia la diffusione su scala globale di «Un nuovo virus (…) contro il quale la maggioranza degli uomini non ha difese immunitarie», caratterizzandola per via della sua portata come “pandemia”. Si tratta del SARS-CoV-2, un tipo coronavirus che provoca una malattia chiamata Covid-19, acronimo di Co (corona), Vi (virus), D (disease) e 19 (l’anno di identificazione del virus). Ma facciamo un passo indietro: dove e come ha avuto origine l’emergenza epidemica? Tra le molte voci di corridoio, servizi e giornali, la più interessante appare la spiegazione dell’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie che, a partire dallo studio della sequenza genetica del virus – inizialmente chiamato Wuhan novel Coronavirus (nCoV) perché isolato nella città di Wuhan, capoluogo della provincia di Hubei, nella Cina centrale – ha rinvenuto enormi diversità di coronavirus in molte specie di mammiferi e uccelli e ne ha ipotizzato il passaggio dal pipistrello a un altro animale all’uomo (cfr. Cui et al., 2019). Un’ipotesi non del tutto irrealistica, se si pensa alla pratica largamente diffusa a Wuhan di vendere molti animali vivi, appartenenti a specie allevate ma anche catturate dal loro ambiente naturale, al mercato del pesce, lì dove potrebbe essere avvenuto il contagio di un ospite intermedio che avrebbe fornito al virus la chiave giusta per l’immissione. Una pratica persistente, quella di vendere animali vivi in piccoli mercati in Asia e Africa, sebbene già da tempo riconosciuto come un fattore di rischio per la sanità globale (cfr. Kamins et al., 2011, Greatorex et al., 2016).
Prima della sua dichiarazione, Ghebreyesus aveva inviato gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nei Paesi più colpiti: al tempo, Cina (81.661 casi, secondo gli ultimi dati raccolti e rielaborati da un gruppo di scienziati americani fondatori del Center for Systems Science and Engineering presso la Johns Hopkins University), Italia e Iran, per incontrare virologi ed epidemiologi, analizzare le statistiche e valutare la situazione degli ospedali. Proprio Cina e Italia oggi sono «onde dello stesso mare, foglie dello stesso albero, fiori dello stesso giardino» (Seneca), per usare le parole dei responsabili dell’azienda cinese Xiaomi Italia in un post su Facebook in cui veniva annunciato il dono al Dipartimento Protezione civile italiana di un lotto di decine di migliaia di mascherine di elevata classe protettiva, all’indomani delle dimissioni dell’ultimo paziente guarito dal COVID19 in Cina.
Per far fronte all’emergenza, nella maggior parte delle Regioni italiane i Dipartimenti di prevenzione delle ASL hanno attivato le procedure per l’acquisizione delle notizie anamnestiche ed epidemiologiche, inviando tutti i test positivi all’Istituto superiore di sanità per la conferma di seconda istanza. Una tra le tante misure di controllo e prevenzione che non è bastata a far emergere nodi critici del sistema sanitario italiano, noti da ben prima dello scoppio dell’emergenza: dapprima un sistema caratterizzato da una carenza endemica di posti letto negli ospedali, sia per pazienti “acuti” che “postacuti” (soggetti a lungodegenza e riabilitazione) e già rilevata dal Ministero della Salute in riferimento a un ulteriore calo nel 2017 rispetto al 2016, con un peggioramento dello standard, previsto dal DM 70/2015, di 3,7 posti letto x 1.000 abitanti (il più basso d’Europa, rispetto ai 6 posti letto x 1.000 abitanti in Francia e 8 in Spagna). Un problema irrisolto – benché noto ai vertici del Ministero della Salute e del personale medico italiano – che è riemerso con ogni evidenza in tempi di pandemia: in Lombardia, dove il virus si è propagato prima e con maggiore rapidità, i posti letto disponibili per le terapie intensive erano di base circa 500 nelle strutture pubbliche e 160 nelle strutture private, ai quali si sono sommati 470 posti in più recuperati da altri reparti. Numeri esigui, nel rapporto con i 3852 ricoverati con sintomi e 560 in terapia intensiva nella Regione, secondo dati di pochi giorni fa della Protezione civile.
Una malattia tanto severa quanto pericolosa per la rapidità della sua trasmissione, causa di un’epica crisi sanitaria che si prevede investirà ogni settore, dopo aver già posto i Paesi coinvolti in una situazione di estrema gravità: dapprima economica, dopo un “giovedì nerissimo”, quello di metà marzo, sui mercati azionari europei, per un calo del 12,35% dell’indice azionario Euro Stoxx, che raggruppa i principali titoli quotati sulle Borse europee rappresentativi di società di grande, media e piccola capitalizzazione di undici Paesi dell’Eurozona, e il peggiore ribasso nella storia del FTSE MIB, il principale indice di benchmark del mercato azionario italiano, con una variazione del 16.9% (corrispondente a una perdita di circa 84,27 miliardi di euro di capitalizzazione). L’impatto sul sistema economico italiano è devastante. Tra le misure necessarie a superare la crisi sanitaria ed economica, secondo il leader di Azione ed ex Ministro dello Sviluppo Economico, Carlo Calenda, vi sarebbe dapprima un piano di sostegno alla tenuta economica del Paese, articolato in misure per fornire liquidità alle imprese e mantenere i livelli occupazionali e misure per rilanciare gli investimenti pubblici e privati, insieme al rifinanziamento del Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese con due miliardi di euro. Ma per l’ex Ministro servirebbe anche la dotazione di almeno un miliardo di euro del Fondo per le emergenze nazionali per finanziare un massiccio intervento della protezione civile e il rafforzamento del Servizio sanitario nazionale (SSN).
È proprio su questa linea che il Governo avrebbe agito di lì a giorni, dapprima attraverso la delibera del Consiglio dei Ministri del 5 marzo 2020 con la quale è stata prevista un’integrazione di cento milioni di euro, a valere sul Fondo per le emergenze nazionali (che è voce di bilancio autonomo della Presidenza del Consiglio dei Ministri) delle risorse inizialmente stanziate per la realizzazione degli interventi urgenti di protezione civile in relazione all’emergenza relativa al rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili. Inoltre, attraverso il piano straordinario previsto dal DL 9 marzo 2020, n. 14 recante “Disposizioni urgenti per il potenziamento del Servizio sanitario nazionale in relazione all’emergenza COVID-19”, che prevede il potenziamento delle risorse umane del SSN (Capo I) e delle reti assistenziali (Capo II), oltre che incentivi per la produzione di dispositivi medici e misure di semplificazione per il loro acquisto (Capo III). Una misura più che mai necessaria, se si osservano i dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e Sviluppo in Europa (OCSE) di luglio 2019 sulla spesa sanitaria pro capite in Italia di 3248 USD, ben inferiore rispetto a quella media OCSE di 3806 USD, anche a causa della decurtazione del finanziamento pubblico alla sanità di oltre 37 miliardi in 10 anni, di cui circa 25 miliardi nel periodo 2010-2015 ed oltre 12 miliardi nel 2015-2019, Quest’ultima, secondo il Report della Fondazione Gimbe, si traduce in un calo del livello di assistenza, con una perdita di oltre 70.000 posti letto, 359 reparti chiusi e numerosi piccoli ospedali riconvertiti o abbandonati.
Misura che fa parte di un pacchetto di ben 18 atti recanti misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 varati con urgenza dal Governo italiano dal 31 gennaio scorso ad oggi; su questi possono essere opportune alcune valutazioni in punto di diritto alla salute e alla libertà, così come anche su varie problematicità, giuridiche e pratiche, del farraginoso processo di normazione delle procedure d’emergenza esaminate in questa sede. Tra questi, il principale, il DL 23 febbraio 2020, n. 6 recante “Misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”, successivamente convertito con modificazioni in Legge 5 marzo 2020, n. 13, ha introdotto misure urgenti di contenimento per evitare la diffusione del COVID-19 (Art. 1), prevedendo che queste misure siano adottate con successivo/i d.P.C.M. (Art. 3.1) e che il mancato rispetto delle stesse sia punito ai sensi dell’articolo 650 del Codice penale (Art. 3.4). Con la previsione di cui all’Art. 3.1 veniva in buona sostanza anticipato un maggiore dettaglio di tali misure, che sarebbe da lì a giorni stato regolamentato tramite l’emanazione di ben cinque d.P.C.M. (del 25 febbraio, 1 marzo, 4 marzo, 8 marzo, 9 marzo, 11 marzo e 22 marzo) su “Ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, applicabili sull’intero territorio nazionale”. Ciononostante, il DL già indicava nell’Articolo 1 alle autorità competenti dei Comuni nei quali risultasse positiva almeno una persona al Covid 19 l’adozione di ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica (comma 1), riassumendole in un catalogo (comma 2), che ricomprendeva tra gli altri: il divieto di accesso e di allontanamento dal Comune (lett. a e b), la sospensione della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore (lett. d) e la sospensione o limitazione dello svolgimento delle attività lavorative nel comune o nell’area interessata (lett. o), ma soprattutto la sospensione di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato (lett. c) e la limitazione all’accesso dei servizi del trasporto di persone terrestre, aereo, ferroviario, marittimo e nelle acque interne, su rete nazionale e locale (lett. m).
Si ricorda a tale proposito che lo strumento legislativo di base per regolamentare le nuove misure di contenimento dell’emergenza, il decreto legge, è un provvedimento con valore di legge adottato dal Governo nei casi straordinari di necessità e urgenza, che viene emanato dal Presidente della Repubblica e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed entra in vigore il giorno stesso o il giorno successivo alla pubblicazione. Il d.P.C.M., invece, è un mero atto amministrativo alla stregua del decreto ministeriale adottato da un Ministro nell’ambito delle materie di competenza del suo dicastero: non ha pertanto forza di legge e ha il carattere di fonte normativa secondaria e serve per date attuazione a norme o varare regolamenti. Il valore del d.P.C.M. è dunque meramente amministrativo e pertanto esclusivamente impugnabile dinanzi al Tribunale amministrativo competente (nel caso del d.P.C.M. in questione, il T.A.R. del Lazio avendo il decreto un’efficacia ultraregionale; cfr. Trabucco, 2020) (Trabucco, 2020).
Il riferimento è in particolare al d.P.C.M. 8 marzo 2020, con il quale il Governo aveva disposto significative limitazioni alla libera circolazione dei cittadini della Regione Lombardia e di ulteriori quattordici Province limitrofe e forti limiti alla mobilità in entrata e in uscita e all’interno delle aree indicate, anche attraverso l’apposizione di posti di blocco lungo le autostrade, nelle stazioni e negli aeroporti, per invitare chi non fosse strettamente obbligato a muoversi a non uscire dai confini di zona. Una misura estesa con d.P.C.M. 9 marzo 2020 all’intero territorio nazionale, accompagnata dal divieto (art. 2) di ogni forma di assembramento di persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico (art. 2), già anticipata dal DL 23 febbraio n. 2 (v. supra).
Ebbene, una personale perplessità attiene proprio alla scelta, indubbiamente dettata dalle ragioni di necessità e urgenza in re ipsa contenuti nell’emergenza, del ricorso massiccio al d.P.C.M., valutato da più costituzionalisti (cfr. Mirabelli, Ainis et al., 2020) come uno strumento troppo debole per incidere sulle limitazioni alle libertà costituzionali come quella di movimento, di riunione, di libertà di culto (protette dalla riserva di legge della Costituzione), svilendo della sua più autentica funzione il sistema delle fonti italiano, come forse mai prima d’ora nella storia repubblicana italiana (Trabucco, 2020). La rapidità con la quale il Governo ha emanato un così cospicuo numero di decreti e le misure stringenti da questi previsti fa pensare quindi al difficile bilanciamento – indubbiamente a favore del primo – tra il diritto alla salute dei cittadini italiani, ex art. 32 Cost., e la tutela dei diritti alla libera circolazione e soggiorno, limitata dei motivi di esclusione espressi dalla formula «salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza» (art. 16) e dei diritti alla riunione e associazione garantiti ex artt. 16, 17, 18 Cost. Infine, un rilievo va svolto sul possibile svilimento del ruolo del Parlamento come supremo organo legislativo, delle sue prerogative, tra i rischi connessi all’accentramento del potere di intervento nelle mani del solo Presidente del Consiglio, evitabile con una consultazione delle Camere, se riunite da remoto in videoconferenza.
Un netto revirement alla tendenza del Governo ad accentrare nelle proprie mani la gestione dell’emergenza tramite lo strumento del d.P.C.M. sembra tuttavia riscontrabile con l’emanazione del DL 25 marzo 2020, n. 19, recante “Misure urgenti per fronteggiare l’emergenza epidemiologica da COVID-19”, i cui contenuti – insieme a importanti precisazioni – sono stati annunciati in un discorso del premier Conte alla Camera dei Deputati. In particolare, il Presidente del Consiglio ha confermato le esitazioni sopra rilevate circa l’utilizzo dello strumento del d.P.C.M., definendolo «un percorso normativo per il Governo del tutto nuovo», allo stesso tempo motivandolo con una modulazione in itinere delle misure rispetto all’obiettivo di ridurre il contagio. Nello stesso discorso è stata altresì evidenziata la doverosità del coinvolgimento del Parlamento, annunciando la trasmissione di tutti i decreti al Parlamento e una puntuale informativa alle Camere con cadenza quindicinale, come stabilito all’art. 5 c. 5 del DL n. 19. Un significativo passo in avanti verso la tutela sostanziale dei princìpi e valori della partecipazione democratica su cui la Repubblica italiana è largamente fondata, che tuttavia ancora sembra non garantire l’applicazione dell’art. 16 Cost., che com’è noto prevede una riserva di legge in sede parlamentare in materia di libertà di circolazione delle persone, evidentemente non prevista da un atto dell’esecutivo.
In relazione a una corretta riorganizzazione delle competenze, si è infine ricordato che «l’organizzazione della sanità è di completa competenza delle Regioni, mentre allo Stato spetta dettare i princìpi fondamentali di tutela della salute e la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni», con ciò anticipando uno dei contenuti più rilevanti (ma allo stesso tempo più problematici) del DL n. 19. Si tratta dell’articolo 3 sulle “Misure di carattere regionale o infraregionale” che assegna facoltà delle Regioni, in relazione a specifiche situazioni sopravvenute di aggravamento del rischio sanitario verificatesi nel loro territorio o in una parte di esso, di introdurre misure di contenimento ulteriormente restrittive, esclusivamente nell’ambito delle attività di loro competenza. Tra queste, per l’appunto, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione – avvenuta con la legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001 – e in base alla clausola generale residuale (che assegna alle Regioni ogni materia non espressamente riservata allo Stato), vi è le materie di competenza regionale la programmazione e organizzazione dei servizi sanitari (art. 117 Cost.). Ciò in teoria non esclude però un possibile conflitto in materia sanitaria tra Stato e Regioni, in base alla facoltà dei Governatori di Regioni di emettere un’ordinanza per disciplinare uno o più aspetti legati alla suddetta programmazione e organizzazione, potenzialmente in contrasto con una proposta del Governo per un intervento normativo in materia regionali quando lo richieda la tutela dell’interesse nazionale sulla base della clausola di garanzia: confidiamo in una leale collaborazione tra diversi livelli di potere, per evitare tale scenario.
In un’intervista di qualche anno fa a Ernesto Galli della Loggia sull’identità italiana, lo storico rimandò all’affermazione di Benedetto Croce sul carattere di un popolo nella «sua storia, tutta la sua storia, nient’altro che la sua storia», spiegando che il carattere nazionale italiano è in continuo mutamento, e che la coscienza dell’identità nazionale emerge soprattutto nei momenti di crisi. Di fronte alla crisi sanitaria ed economica che attanaglia in questi giorni l’Italia, gli italiani ne usciranno forse più coscienti dell’italianità, dell’appartenenza nazionale, che insieme alla propria identità europea sembra prevalere sull’identità di classe, professionale o locale, se è vera la natura “fluida” delle identità collettive. Valori e princìpi che non sostituiscono l’identità europea, né da questa vengono sostituiti, visto che ai sensi dell’articolo 9 del Trattato sull’Unione Europea e dell’articolo 20 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea «la cittadinanza dell’Unione è complementare alla cittadinanza nazionale, ma non la sostituisce».
Proprio in Europa, in questi giorni, il dibattito sulle misure da applicare per fronteggiare la crisi ha causato il sorgere di un sentimento di diffidenza verso le Istituzioni europee, accusate di non impegnarsi concretamente nel concordare gli aiuti europei da erogare agli Stati per fronteggiare l’emergenza pandemica. Sull’iniziale ipotesi di erogazione del credito dal Meccanismo Europeo di Stabilità (MES) con condizionalità più tenui rispetto a quelle previste dall’articolo del Trattato MES vi sono state molteplici esitazioni, soprattutto da parte italiana, principalmente basate sull’asserito carattere anacronistico delle logiche dell’intervento che sottendono al MES stesso. Rimangono quindi aperte le ipotesi di attivare titoli di Stato di debito europei (c.d. Coronabond) e di ricorrere ai piani di supporto agli investimenti della Banca europea per gli Investimenti. La prima, dapprima osteggiata dalla Germania e di riflesso non sostenuta dalla Commissione europea ˗ in ragione dei timori su un’eventuale ripartizione del debito pubblico dei Paesi più in difficoltà su scala europea ˗, è negli ultimi giorni tornata valutabile in vista del prossimo Consiglio europeo. Ciò lascia aperta l’ipotesi di una manovra fiscale realmente efficace e improntata su di uno spirito di solidarietà europea, al di là delle politiche di austerity, in vista forse di un rinnovato federalismo europeo.