Estratto da Prophecy and Progress. The Sociology of Industrial and Post-Industrial Society, Penguin, 1979. Traduzione a cura della redazione.
Il pensatore radicale Ivan Illich ha avanzato l’interessante idea che la storia dell’industrializzazione possa considerarsi come marcata da due spartiacque. Nella prima fase, che conduce al primo spartiacque, la scienza viene applicata a una varietà di problemi tradizionali – scarsità, malattie ecc. – risolvendoli con un’efficienza senza precedenti, portando alla fornitura su larga scala di beni e servizi precedentemente disponibili solo per pochissime persone, ricche o potenti. Nella seconda fase, che porta al secondo spartiacque, l’evidente successo della prima fase diventa la base per un’ulteriore espansione e una crescente legittimazione che in ultima analisi inverte le tendenze progressiste della fase precedente. La crescita e l’espansione ora continuano a favorire ampiamente le élite che avevano iniziato e supervisionato la prima fase, e che sono ora al comando della società: “élite specializzate auto-certificatesi”, come le chiama Illich. (Nella terminologia del filosofo della storia Arnold Toynbee, potremmo dire che le “élite creative” diventano le “élite dominanti”.) La popolazione scopre che il suo impegno nel sistema porta a rendimenti decrescenti. Diverse delle principali istituzioni della società industriale si muovono ora, secondo Illich, al di là del secondo spartiacque. “Le scuole stanno perdendo la loro pretesa di essere strumenti efficienti per fornire l’istruzione pubblica; le auto hanno cessato di essere strumenti efficienti per il trasporto di massa; la catena di montaggio ha cessato di essere un modo di produzione accettabile”. La risposta sta nello sviluppo di un modo di produzione opposto che Illich chiama “conviviale”, basato sulla progettazione e sull’uso di strumenti semplici, risorse rinnovabili, abilità personali, operazioni su piccola scala, e sulla “de-professionalizzazione” di servizi quali sanità, educazione e trasporti.
Ciò può sembrare roba un po’ utopica. Quel che ne dà concretezza e un appiglio nella realtà contemporanea sono i diversi indizi che l’industrialismo è oggi in uno stato di autentica crisi, e che di conseguenza certe varietà di pensiero utopico, nuovo o tradizionale, possano avere una rilevanza precedentemente loro negata dalle potenti correnti di un’industrializzazione trionfante. Qualcosa del genere è ogni caso suggerito dal revival della teoria sociale utopica emersa negli anni Sessanta nelle società industrializzate dell’Occidente. Dal punto di vista del più sobrio decennio degli anni Settanta, un certo grado di questo utopismo può senza dubbio sembrare poco più di una posa eccentrica di una generazione che, per la prima volta nella storia, non aveva avuto esperienza nelle loro società dei rigori delle penurie materiali, e per la quale la politica dei consumi eclissava quella della produzione. Le ideologie, tuttavia, non hanno fornito in quel caso un orientamento verso la sobrietà. Come abbiamo visto, l’idea “post-industriale” può essere considerata essa stessa una “utopia della destra” – della moderna destra tecnocratica – con il suo assunto di una società spintasi al di là della politica e dei problemi della scarsità materiale. Anche la sinistra, più notoriamente, ha prodotto alcune utopie poco convincenti, specialmente quella che pensava che l’alienazione potesse essere superata ritirandosi in enclavi “liberate” all’interno delle città, o emigrando verso angoli rurali più remoti, dove praticare la vita libera o un idealizzato sistema pre-industriale fondato sull’agricoltura naturale e tecnologie semplici. Ciò che essi spesso dimenticavano, come ha osservato Peter Harper, è che “molti strumenti considerati semplici e di piccola scala dal lato dell’utilizzo richiedono una produzione su larga scala”, e che molti dei componenti di base che costituiscono “tecnologie semplici” come i mulini a vento, le turbine ad acqua, i pannelli solari e simili, devono comunque essere prodotti da operai di fabbrica in ambienti industriali alienanti.
Ma è troppo superficiale guardare all’intera risposta utopica in questa luce, come fosse il riflesso ideologico di un patinato decennio orientato al consumo. I problemi identificati e i valori celebrati sopravvivono al particolare momento che li ha fatti emergere nella coscienza pubblica. Il deterioramento ambientale, la sovrappopolazione, l’esaurimento delle risorse, i costi di un’organizzazione su larga scala e di una rapida crescita economica, sono tutte questioni che resteranno al centro delle preoccupazioni delle società industrializzate nei decenni a venire. Di continua rilevanza è anche la riscoperta della “qualità della vita” come criterio di valore che tiene conto di fattori imprecisi ma significativi non adeguatamente intercettati dagli indicatori economici e sociali delle burocrazie industriali. Né le élite della società possono permettersi di ignorare il rinnovato interesse verso concetti come la dimensione umana (“piccolo è bello”), il controllo umano, e la soddisfazione personale intesi come requisiti irriducibili di ogni sistema industriale e organizzazione politica. Sono tutti concetti che riflettono tipicamente le preoccupazioni di una generazione che per la prima volta in assoluto si confronta con una società consumistica di massa. È dunque pericoloso considerarli come “lussi”, quel tipo di cose di cui solo le popolazioni ricche possono permettersi di preoccuparsi; ed essere piuttosto impazienti di rivendicarli in un momento in cui tornano ancora una volta a galla i problemi tradizionali della produzione di ricchezza, con tassi di crescita economica relativamente bassi e preoccupazioni relative alla scarsità delle materie prime e risorse energetiche che ricordano alle società industrializzate che i problemi della produzione sono ancora irrisolti. Ma sarebbe un errore fatale supporre che la critica utopica oggi importi meno. Paradossalmente è diventata più importante. L’industrialismo sta affrontando attualmente alcuni dilemmi e scelte fondamentali riguardo al suo futuro sviluppo, e solo intervenendo su quei temi sollevati in quella critica può esserci speranza di trovare un’accettabile soluzione.
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È abbastanza facile trarre la lezione. Se, in un settore così importante, gli argomenti convenzionali riguardo l’efficienza e la tecnocrazia risultano così sospetti, perché non anche in molti altri settori? Come paragone del processo qui discusso, viene immediatamente alla mente l’esempio contemporaneo delle risorse di energia alternative per l’applicazione industriale. Anche qui le persone sostengono la difficoltà e i costi connessi al passaggio all’energia solare, eolica e idroelettrica. Ma buona parte di queste difficoltà consistono nella nostra riluttanza a considerarle reali alternative, e, soprattutto, a investire ragionevoli quantità di denaro e di talento per indagarne le potenzialità. Come con il precedente sistema industriale, il potere e il denaro dettano la continuazione di routine già stabilite, quali che siano le motivazioni originarie. “Niente di ciò che non è ancora stato fatto può essere fatto, se non con mezzi che non sono stati ancora tentati”. Così diceva Francis Bacon. Il futuro resta aperto, infinitamente variabile sebbene infinitamente limitato dalle persistenze del passato. (Gruppi infiniti ne contengono altri, come ha dimostrato Russell.) Se ciò è vero, allora tutto quello che possiamo conoscere sono queste persistenze del passato. Il futuro stesso, strettamente parlando, resta sconosciuto e inconoscibile. Quando tentiamo di prevedere il futuro, sulla base delle tendenze attuali, stiamo tentando di dominare il futuro attraverso il passato. Una previsione che risulti essere vera rappresenta il trionfo della continuità sul cambiamento. L’esercizio di questo procedimento del pensiero è inevitabile, e in realtà generalmente non c’è nulla di sbagliato in esso. Un futuro che non includa continuità con il passato è letteralmente inconcepibile, perciò non c’è nulla da dire o da pensare al riguardo. Ma possiamo e dovremmo provare a far sì che la dominazione del passato sul futuro sia limitata, non assoluta. Il futuro necessita di spazio per la novità, per l’inventiva. I problemi che esso eredita dal passato non possono essere adeguatamente risolti mediante rimedi concepiti e realizzati essenzialmente nel passato. Le soluzioni tecnologiche possono risolvere alcuni dei problemi creati dalla tecnologia, ma essa invariabilmente ne crea di altri che non possono essere risolti. Così per tutti i problemi. Essi emergono come conseguenza delle conoscenze condivise e delle circostanze di un’epoca specifica e che costituiscono pertanto una parte essenziale del problema. Non è possibile inventare il futuro, consentendo ad esso la libertà di trovare nuove soluzioni, conservando i pesi morti del passato.
Il problema di tanta “futurologia” nello scorso decennio stava proprio in questo tentativo di isolare il futuro. Il futuro veniva concepito come una versione più grande, migliore e più efficiente del presente. Logicamente non c’è alcuna ragione per cui questa idea non debba rivelarsi corretta. In pratica quasi certamente sarà disastroso confrontare il futuro con questa visione e quest’aspettativa. La natura dei problemi che si trovano ad affrontare le società industriali avanzate – e pertanto oggi il mondo intero – richiedono risposte che non sono mai state parte della loro tradizione di pensiero dominante. In parte dovremo recuperare le pratiche e le idee che sono state sopraffatte dall’industrializzazione, o che sono sopravvissute come correnti marginali o sotterranee. Avremo bisogno anche, senza dubbio, di inventarne di completamente nuove, o perlomeno di una nuova sintesi di pratiche presenti e passate. Ma non possiamo permettere, né abbiamo bisogno, che il futuro sia considerato come il passato scritto a grandi lettere. Se il passaggio dalla società industriale alla società post-industriale si realizzerà, quest’ultima deve tener fede alla promessa del suo stesso nome. La società post-industriale deve contenere in sé un principio e una direzione ben diversa da quella della società industriale, così come quest’ultima differiva radicalmente dalla sue forme pre-industriali.
Dal 18 novembre al 9 dicembre a Napoli l’Italian Institute for the Future organizza il ciclo di incontri su “Le utopie del domani”. Programma completo: www.instituteforthefuture.it/utopie2016