L’esperienza del lavoro compiuto nel 2016 per il numero 7 di Futuri ha confermato la giustezza di quanto Eleonora Barbieri Masini, decana degli studi di previsione, mi disse in una intervista: ovvero che, volendo agire positivamente su di un contesto, pensando a miglioramenti non solo di breve e medio, ma anche di lungo e lunghissimo termine, la situazione demografica sia la prima cosa che occorre conoscere. Il noto episodio del Primo Ministro che, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, non la volle ascoltare, quando lo avvertiva dei problemi che il nostro Paese avrebbe avuto, nei decenni a venire, per l’inadeguatezza del sistema pensionistico, a fronte di una popolazione sempre più vecchia, è emblematico del link potente che lega previsione sociale, anticipation, welfare e demografia. Sappiamo bene, oggi, che non si trattava di una profezia catastrofista, ma di un’analisi lucida e fondata. Dovrebbe dunque ormai essere chiaro che i futuri non sono (solo) un affascinante terreno per congetture a vario titolo, ma di un vero e proprio oggetto di ricerca. Parliamo, in tal senso, di una ricerca teoricamente forte, che può avvalersi strategicamente, proprio per la sua peculiare interdisciplinarità, anche di metodi e tecniche storicamente consolidati. In particolare, della caratteristica robustezza degli scenari demografici.
Si tratta di un apporto indispensabile ai Futures Studies, che, a partire dai settori in cui tradizionalmente la demografia si articola (analisi dell’invecchiamento, della fecondità, delle migrazioni, ecc.), possono elaborare un quadro complessivo di scenari di previsione, in un’ottica che potrei definire sistemica – non solo in quanto costruzione di modelli di simulazione (cosa che non escludo affatto), ma senz’altro come analisi prospettiva di come fattori apparentemente distanti tra loro (ad es., i flussi migratori e la fecondità) possano interagire per far evolvere la società in una direzione che può essere (e qui entrano pesantemente in gioco i criteri che guidano le politiche attuate), da totalmente positiva (equilibrio demografico, pacifica e reciprocamente utile convivenza, integrazione, miglioramento generalizzato della qualità della vita) a totalmente negativa (squilibrio demografico, convivenza problematica, mancata integrazione, peggioramento generalizzato della qualità della vita). In questo senso, per sue caratteristiche, demografiche e non solo, in questo momento storico il nostro Paese è, senza dubbio, un fecondo laboratorio di futuri possibili. Un Paese fecondo, purtroppo, solo in termini di ipotesi di lavoro, come sarà poi evidenziato dai dati. Senz’altro, per i futuri possibili del nostro Paese, quello verso il 2030 è un viaggio che si prospetta complesso.
Come emergeva già dalle interviste del 2016, le criticità sono molte. Innanzi tutto, perché l’Italia è sempre più vecchia. I (relativamente pochi, rispetto alla pressione numerica degli anziani) giovani non si trovano di fronte quelle prospettive di miglioramento delle generazioni precedenti, tant’è che fanno pochi figli, o non ne fanno affatto. D’altro canto, le dinamiche (legate sia al clima che alla situazione geopolitica) rendono inevitabile l’emigrazione dai paesi dell’Africa Sub-sahariana verso i paesi a nord del Mare Mediterraneo. Checché se ne dica, non possiamo pensare di poter fare a meno degli immigrati: invece di essere considerati una minaccia, dovrebbero essere valorizzati come una possibile ricchezza. Come far interagire tutti questi elementi in un quadro previsivo coerente e volto al benessere del Paese, considerando il 2030, anno cruciale per gli obiettivi stabiliti dalle Nazioni Unite? Considerando l’approccio temporale dei Futures Studies, è veramente difficile pensare a tale anno come a un tempo futuro, visto il pochissimo tempo che ci separa da quella data. Tuttavia, proprio per la sua relativa vicinanza temporale, è evidente che quanto vogliamo accada di positivo nel 2030, in Italia come nel mondo, va pensato e attuato, di necessità, oggi. Potremmo definirlo un raffinato esercizio di anticipation, se non fosse l’urgenza di risolvere certe istanze, evitando ricadute negative a livello socio-politico. Un compito di estrema difficoltà, considerando l’inerzia caratteristica di molti fenomeni demografici.
Soffermandoci allo specifico caso italiano, fare un salto nel tempo e guardare l’Italia dalle piramidi – non quelle egiziane, ma quelle delle età – è un’operazione molto utile per capirne le future problematiche. La Figura 1 illustra la distribuzione per classi di età degli italiani negli anni 1861, 1911, 1961 e 2010.
Fig. 1 – Piramidi delle età negli anni 1861, 1911, 1961 e 2010. Dati in migliaia (fonte: ISTAT).