È possibile prevedere il futuro? Sulla base dell’oggi? O siamo condannati al senno di poi e all’esercizio – consolatorio, ma forse futile – dei “controfattuali”, cioè di quei ragionamenti fondati sul “se fosse successo questo…”, “se non si fosse verificato quest’altro…”? Esercizio romanzesco e romantico, se vogliamo, su cui già si è esercitato, fra gli altri Milan Kundera in L’insostenibile leggerezza dell’essere: ragionando sulla simmetria dei rapporti fra romanzo e vita, lo scrittore ceco riconosce che questa può apparire troppo “romanzesca”, ma subito dopo obbietta di poter essere pure d’accordo, «… ma a condizione che la parola “romanzesca” non la intendiate come “inventata”, “artificiale”, “diversa dalla vita”». E, in fondo, ogni romanzo non è che una lunga catena di “controfattuali” concatenati insieme, e la pratica di questi nella vita quotidiana assomiglia molto a quella del romanziere che comincia a imbastire una trama, specie se scrive fantascienza.
Questo ragionamento può valere per le vite dei singoli – e in qualche modo condirle con un tratto di mistero – ma può valere anche per i popoli, per i grandi fatti storici, per quegli eventi che si collocano agli snodi del mutamento sociale e determinano cambiamenti epocali nella configurazione degli equilibri fra gli stati, nella definizione del destino delle nazioni?
È uno degli interrogativi che possono presentarsi alla nostra riflessione leggendo 1913. Prima della tempesta del tedesco Florian Illies, storico dell’arte e giornalista, che ci narra lo scorrere di questo anno quasi fatidico attraverso gli eventi che interessarono le vite di molti degli intellettuali e artisti – e non solo – principalmente di lingua tedesca, che in pratica hanno fatto la cultura del Novecento, da Thomas Mann a Rainer Maria Rilke, da Lou Andreas Salomé a Alma Mahler, Else Lasker-Schüler e Gertrude Stein, da Robert Musil a Franz Kafka, da Karl Kraus a Oskar Kokoschka, Egon Schiele, Vasilij Kandinsky, Arnold Schönberg, Adolf Loos, praticamente quasi tutto il Gotha della cultura mitteleuropea, fino a Sigmund Freud e Arthur Schnitzler, senza dimenticare però Pablo Picasso, Marcel Duchamp, Marcel Proust, fino a due dei peggiori farabutti del secolo scorso, Adolf Hitler e Josif Stalin.
Col senno di poi potremmo tirare in ballo quelli che Anthony Giddens in Identità e società moderna (1991) definisce “momenti fatali”: «A volte, comunque, una particolare situazione o un episodio possono essere contemporaneamente finalizzati e problematici; sono questi episodi che costituiscono i momenti fatali […] in modo tale che l’individuo si trovi come ad un incrocio della sua esistenza […] I momenti fatali, o piuttosto quella categoria di possibilità che l’individuo definisce come fatali, hanno un particolare rapporto con il rischio […] Le decisioni fatali sono, quasi per definizione, solitamente difficili da prendere, a causa delle caratteristiche trascendentali e problematiche» (corsivi nostri).
Qui, è vero, il sociologo inglese si riferisce ai percorsi e alle esistenze degli individui nel momento in cui si trovano a dover prendere delle decisioni che prevedono possano offrire svolte radicali alle proprie vite, ma è anche vero che può valere per le grandi svolte storiche, ed è altrettanto vero che alcune persone dell’anno di cui scrive Illies furono proprio al centro di momenti di questo tipo, e che se anche non li riconobbero subito, sicuramente – se ne avessero avuto il tempo – a posteriori li avrebbero definiti come tali. A cominciare dall’arciduca, nonché erede al trono dell’Austria-Ungheria, Francesco Ferdinando, che nel febbraio 1913, estremamente agitato da ciò che sta succedendo in Serbia, si precipita dall’imperatore: «Laggiù nei Balcani infuria una guerra che lo inquieta […] Arrivato a Schönbrunn, Francesco Ferdinando più che scendere balza fuori dalla macchina […] Dichiara che è urgente darsi da fare per mettere un freno alla Serbia […] L’imperatore ascolta impassibile il nipote sbraitare, urlare, accalorarsi. “Solleciterò una riflessione in merito”. Poi un freddo arrivederci. Il resto è silenzio» (Illies, 2013).
Conosciamo, col senno di poi, l’epilogo della vicenda, che ebbe luogo a Sarajevo, in Bosnia il 28 giugno del 1914: l’attentato mortale contro Francesco Ferdinando, lo scoppio della Prima guerra mondiale, l’apocalisse di un mondo, di un tempo, di un sistema di vita.
Fra i testimoni delle reazioni all’avvenimento c’era Stefan Zweig, che in Il mondo di ieri (1994) le descrive così: «La folla attorno all’avviso (dell’attentato, n.d.a.) si faceva sempre più fitta, l’uno trasmetteva all’altro l’inattesa notizia. Ma in omaggio alla verità debbo dire che non si leggeva sui volti particolare sdegno o commozione, perché l’erede al trono non era mai stato amato dal popolo». Ma qui siamo già al dopo: Zweig ci racconta ciò che è già successo: l’evento scatenante è avvenuto, il “crepuscolo di un mondo”, come si esprimerà Franz Werfel (1950), già è calato. Siamo a quel “tramonto dell’Occidente” al cui battesimo Oswald Spengler (2008), come ci ricorda sempre Illies, «sta già lavorando». O almeno, dell’Occidente come fino ad allora era stato conosciuto.
Perché, prima del “crepuscolo” del “mondo di ieri” di Werfel e Zweig, in attesa del pronosticato “tramonto” di Spengler, l’Occidente sembrava aver raggiunto il massimo del suo glorioso – gioioso – sviluppo: il modernismo si afferma con la sua «… fede nel progresso lineare, nelle verità assolute, nella pianificazione razionale di ordini sociali ideali e nella standardizzazione della conoscenza e della produzione» (Harvey, 2002); Vienna – all’epoca “la centrale della modernità” secondo Illies – consuma la sua “gaia apocalisse” come ebbe a definirla Hermann Broch; esplodono le avanguardie storiche; Freud, proprio nel 1913 pubblica Totem e tabù, mentre Igor’ Stravinskij rappresenta a Parigi per la prima volta La sagra della primavera scatenando l’entusiasmo di Maurice Ravel e le ire dei passatisti; gli artisti del “Blaue Reiter”, quelli della “Secessione viennese”, e gli espressionisti tedeschi si organizzano per allestire un’unica, collettiva, grande mostra a Berlino… Si respira un’aria nuova, moderna, fatta di sperimentazioni artistiche, ricerca scientifica, riconoscimento ed esplosione della sensualità femminile attraverso le opere di Arthur Schnitzler e di pittori della Vienna dell’epoca come Gustav Klimt, Oskar Kokoschka, Egon Schiele (cfr. Kandel, 2012)… Insomma, il mondo sembra andare avanti, grazie alle scoperte scientifiche e ai progressi della tecnologia da una parte, e ai riflessi dei mutamenti che queste comportano nel campo dell’arte, ma anche della vita quotidiana e della percezione del Sé. È l’anno in cui – a proposito – Max Weber conia il termine “disincantamento del mondo”, perfetta definizione dell’esito dei processi in corso.
Così, dopo aver esplorato con Illies come guida l‘andamento dell’“anno prima della tempesta”, viene spontaneo chiedersi, come siamo abituati a fare con noi stessi con un esercizio futile ma imperioso dopo che ci è capitato qualcosa di grave, o comunque di significativo, “cosa sarebbe successo se…?”, giocando con i “controfattuali”, le evenienze possibili ma mai successe, spostando l’attenzione dalle nostre vite individuali ai fatti storici e alle svolte epocali. Insomma, ci si potrebbe chiedere com’è possibile che questa atmosfera euforica, ottimista, quasi fantasmagorica, sia stata il preludio ad una guerra che avrebbe fatto milioni di morti e avrebbe cambiato il volto di un intero continente? C’erano state delle avvisaglie?
Sì e no… intanto, sempre col senno di poi, c’era stato lo scontro – unidirezionale, a dire il vero – fra l’arciduca e l’imperatore sulla situazione nei Balcani. Ancora, lì la guerra c’era già: fra la Serbia e la Bulgaria – che aveva subito coinvolto Turchia, Romania e Grecia. Contemporaneamente, c’era chi scriveva che una guerra mondiale ormai era impossibile, proprio perché i progressi nelle tecnologie della comunicazione avrebbero reso molto più facile capirsi e spiegarsi… Mai previsione fu meno azzeccata. Per inciso, dopo la Seconda guerra mondiale Norbert Wiener, il padre della cibernetica, la rilanciò. Anche lui si sbagliava completamente. Ancora, Thomas Mann cominciava a progettare La montagna magica, che all’epoca immaginava come un racconto colmo di ironia. La sua penna prese tutt’altra strada…
Allora, lasciando da parte la metafisica, il destino, i “momenti fatali” e le facili profezie, come possiamo spiegarci, noi posteri, questo scarto così netto fra il culminare di una atmosfera sociale, culturale, psicologica, e quello che avvenne subito dopo? Lo storico dell’economia David Harvey, prendendo spunto dalle parole che Friedrich Nietzsche dedica all’Illuminismo, scrive del capitalismo, trionfante in quegli anni, come di una forza «distruttivamente creativa» e «creativamente distruttiva». Ed è esattamente quello che sta succedendo: l’affermazione del capitalismo industriale, la nascita delle metropoli, lo sviluppo della società e della cultura di massa entrano in frizione, fra loro, e con il vecchio ordine del mondo che ancora resiste, abbattendosi come una tempesta, appunto, sulle vite degli individuali, sulla stessa percezione che si ha di sé e del proprio rapporto con il reale – come ne danno prova praticamente tutta la letteratura (Fattori, 2013) e l’arte dell’epoca, e lo sviluppo delle forze produttive e delle tecnologie non possono che trovare sbocco in una risoluzione violenta, apocalittica dei conflitti in corso: la guerra. La guerra con la scontata distruzione veloce e massiva di risorse – umane, sociali, economiche – e le prevedibili sperimentazioni e miglioramenti delle tecnologie esistenti – e delle contromisure relative: una guerra cubista, come la definì Gertrude Stein (Kern, 2007) realizzando un mirabile sposalizio fra le pratiche di distruzione della vita e i cambiamenti nella creazione artistica, guardando alle mimetizzazioni di mezzi e divise per rispondere da terra all’uso degli aerei e dei binocoli, giusto per fare un esempio.
Il punto è proprio questo: proprio nel momento in cui, nel clima ottimista e del modernismo, sembra che l’umanità sia destinata ad un cammino finalmente luminoso e di progresso infinito, scoppia la guerra, la prima guerra davvero totale. E allora, pensando all’oggi, ammesso pure che ormai da anni le grandi potenze e il grande capitale internazionale hanno “delocalizzato” le guerre, piazzandole fuori del primo e del secondo mondo, c’è da chiedersi, comunque, Cosa ci riserva il futuro? Siamo in grado di prevederlo?
Per approfondire:
- Fattori A., Sparire a se stessi. Interrogazioni sull’identità contemporanea, Ipermedium, S. Maria Capua V., 2013.
- Giddens A., Identità e società moderna, Ipermedium, Napoli, 1991.
- Harvey D., La crisi della modernità, Net, Milano, 2002.
- Kandel E. R., L’ età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Raffaello Cortina, Milano, 2012.
- Kern S., Il tempo e lo spazio. La percezione del mondo tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna, 2007.
- Spengler O., Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano, 2008.
- Werfel F., Nel crepuscolo di un mondo, Mondadori, Milano, 1950.
- Zweig, S., Il mondo di ieri, Mondadori, Milano, 1994.