Un visionario che non può essere accusato di parlare a vanvera, Elon Musk, qualche tempo fa ebbe modo di dire la sua sul grande trambusto intorno ai cosiddetti “big data”: «Mi interesserebbero di più se servissero per portare l’uomo su Marte». Un commento tranchant da cui traspare una certa insofferenza sul modo in cui siamo abituati a pensare ai vantaggi che ci porterà l’industria dei big data, ossia la capacità di analizzare e manipolare, grazie all’evoluzione dell’informatica e al perfezionamento degli algoritmi, le enormi quantità di dati che noi utenti produciamo ogni giorno, dai post su Facebook agli acquisti al supermercato.
Una delle proprietà più affascinanti dei big data è la possibilità di usarli per “anticipare” il futuro. Non a caso uso la parola “anticipare”, piuttosto che “prevedere”, anche se alcuni strumenti di analytics dei big data promettono davvero di riuscire a prevedere i possibili futuri. Il concetto di anticipazione, come dirò meglio più avanti, non è solo più neutrale – non promette capacità miracolose, come invece chi sostiene di poter prevedere il futuro – ma anche più corretto. Diverse aziende e start-up nel mondo hanno deciso di gettarsi in quest’affare. Il caso-scuola che le ha spinte a farlo è quello raccontato molto bene da Viktor Mayer-Schönberger e Kenneth Cukier nel loro libro Big Data: il caso Wallmart. Nel 2004, grazie alla consulenza della compagnia Teradata, i dirigenti di Wallmart scoprirono alcune correlazioni interessanti tra fenomeni esterni e picchi di vendita di taluni prodotti. In particolare scoprirono, incrociando dati di vendita con quelli forniti dai bollettini meteo, che all’approssimarsi di un uragano i clienti non solo acquistano più torce elettriche ma anche più merendine dolci. Una correlazione incomprensibile che però portò Wallmart a organizzare i suoi punti vendita, uno o due giorni prima dell’arrivo di uragani nella zona, allestendo all’ingresso dei supermarket uno scaffale di torce elettriche e uno di merendine dolci, così da massimizzarne le vendite.
Questo è uno degli usi comuni delle proprietà anticipatrici dei big data. A nessuno importa, sostengono i data scientist (gli esperti di analisi dei big data), perché gli americani vogliano le merendine dolci prima di un uragano. È così e basta, tanto vale vedere se se ne può ricavare un guadagno. Il fatto che possa esserci un’altra correlazione che non abbia nulla a che vedere con gli uragani non li interessa. Sul dibattito riguardante la “fine delle teorie” che i big data annuncerebbero, si è detto già parecchio. Quello che qui preoccupa è piuttosto l’uso che viene fatto dei dati in questione. Davvero dovremmo usare la straordinaria capacità di calcolo dei supercomputer e i potenti algoritmi messi su da scienziati di primissimo livello per vendere più merendine dolci (in un paese, tra l’altro, detto tra parentesi, con altissimi livelli di obesità?).
Dal caso Wallmart hanno preso spunto diverse altre start-up. Per esempio Blab, una compagnia fondata a Seattle due anni fa. Blab sostiene di poter anticipare l’esplosione di un trend sociale di circa 40 ore, attraverso l’analisi delle conversazioni su Facebook e Twitter, le foto su Instagram, i video su YouTube. Anticipando l’esplodere del trend, un’azienda potrebbe progettare e lanciare la sua campagna pubblicitaria con qualche preziosissima ora di anticipo, sbaragliando la concorrenza e massimizzando i guadagni. «Quello che facciamo è dare ai brand oggi il giornale di domani», spiega Randy Browning, CEO di Blab. Il suo esempio è quello di Oreo, la famosa marca di biscotti che, durante la mezz’ora di blackout che bloccò il Super Bowl del 2013, twittò ai propri clienti lo slogan coniato sul momento: “Potete inzuppare i biscotti anche al buio”. Poiché non tutti i brand possiedono social media team così responsivi in tempo reale, anticipare il futuro può essere una buona idea per non lasciarsi sfuggire occasioni del genere (anche se c’è da dubitare della capacità di Blab di anticipare il blackout dello stadio). Blab ha ottenuto a oggi 6 milioni di dollari di finanziamenti e lavora con almeno 10 grandi brand di primo piano a livello internazionale, sostenendo che le sue “predizioni” hanno un’affidabilità del 70% e possono trarre dati da conversazioni sui social network in qualsiasi lingua, Klingon incluso.
Chi osa ancora di più è certamente Recorded Future, una compagnia nata grazie a generosi investimenti di Google Ventures e di In-Q-Tel, il ramo d’investimento della CIA. Recorded Future vende ad analisti privati e agenzie governative come appunto la CIA un proprio servizio di anticipazione degli scenari futuri fino a 7 giorni attraverso la scansione del web. L’analisi prende in considerazione, assicura l’azienda, solo fonti pubbliche, dalle notizie dei quotidiani alle ultime analisi di mercato, e può permettere di conoscere in anticipo la data di lancio di un nuovo prodotto commerciale o il rischio che entro una settimana scoppi una rivolta da qualche parte nel mondo. L’interesse nei confronti di queste analisi è quindi estremamente ampio e coinvolge anche i governi, non più solo il mondo del business.
Un modello simile è alla base di EMBERS, un sofisticato programma messo a punto da un team di ricercatori diretti da Naren Ramakrishnan del Virginia Tech. Con EMBERS, Ramakrishnan e il suo gruppo hanno tenuto d’occhio per anni tutti i tweet, gli articoli online, i post sui blog e su Facebook prodotti in America Latina e hanno previsto correttamente con anticipo le sollevazioni in Venezuela e i tumulti in Brasile. EMBERS è il programma che ha vinto la competizione indetta dalla IARPA (Intelligence Advanced Research Projects Activity), agenzia governativa americana che lavora nello sviluppo di più sofisticati sistemi d’intelligence. L’interesse dei servizi segreti nelle capacità anticipatrici del web è evidente. Tuttavia, anche in questo caso, l’uso che si sta facendo dei big data è sbagliato. Che differenza c’è, dopotutto, tra l’utilizzo di questi dati per favorire una catena di supermercati o un’agenzia di intelligence piuttosto che un’altra?
Chi invece continua a non utilizzare le straordinarie potenzialità dei big data è la politica, il governo delle nostre democrazie. Roberto Poli, docente di previsione sociale all’Università di Trento e primo titolare della cattedra di Anticipatory Sytems dell’UNESCO, sostiene la necessità di rendere i sistemi politici “anticipanti”, ossia in grado di anticipare situazioni che si verificheranno in futuro. Poli, citando Leon Fuerth, definisce una governance anticipante (anticipatory governance) come «una governance capace di capire e implementare cambiamenti in anticipo sul presentarsi dei maggiori eventi, per diminuire i pericoli e sfruttarne le opportunità».
Ecco un uso intelligente dei big data. Sistemi di questo tipo sono allo studio da diversi centri di ricerca europei. È il caso per esempio del progetto FuturICT, giunto terzo nella competizione da un miliardo di euro promossa dall’Unione europea per scegliere i due grandi progetti di ricerca europei del decennio. FuturICT mette insieme le capacità di calcolo dei supercomputer, la scienza dei sistemi complessi e le analisi di previsione sociale per creare un sistema in grado di impiegare i big data forniti dagli utenti e anticipare fenomeni che vanno dalla diffusione delle epidemie alle rotte dei trafficanti di droga. Rosaria Conte, che si occupa di simulazioni sociali all’Istituto di Scienze e Tecnologie Cognitive del CNR ed è responsabile per l’Italia del progetto FuturICT, sostiene che nel giro di dieci anni sarà possibile anticipare in modo scientifico le future crisi a livello sociale: «Crisi finanziarie ed economiche, conflitti, criminalità organizzata, epidemie e pandemie e i meccanismi di contagio che ne determinano la diffusione, problemi ambientali», elenca. Alla base di FuturICT c’è quello che viene definito il “simulatore what if”, in grado di realizzare «previsioni anticipatorie, mostrandoci cosa succederà se modifichiamo la situazione attuale per misurare l’efficacia di politiche di intervento».
Se davvero i governi iniziassero a impiegare simili strumenti per l’elaborazione delle proprie politiche di lungo termine, avremmo finalmente trovato un valido utilizzo della rivoluzione dei big data. Non ci faranno andare su Marte, come vorrebbe Elon Musk, ma meglio di nulla. La sfida in questo caso sarà quella della trasparenza, della privacy e dell’etica. Agenzie di intelligence e governi autoritari potrebbero utilizzare gli scenari anticipanti per reprimere sedizioni; governi democratici e “open” dovrebbero servirsene per favorire il benessere futuro dei propri cittadini. In una società guidata dal paradigma del guadagno, l’impiego commerciale dei big data è il primo a venire in mente: ma sarebbe il caso che la politica iniziasse a occuparsene, perché i big data sono troppo importanti per lasciarli ai data scientist.