In apertura: ripresa del pubblico durante lo spettacolo Segnale d’allarme-La mia battaglia VR di Elio Germano e Omar Rashid (2019).
El diámetro del Aleph sería de dos o tres centímetros, pero el espacio cósmico
estaba ahí, sin disminución de tamaño. Cada cosa […] era infinitas cosas,
porque yo claramente la veía desde todos los puntos del universo.
(J. L. Borges, El Aleph)
Nel maggio del 2019 al Wired Next Fest di Milano viene presentato Segnale d’allarme-La mia battaglia VR, film in realtà virtuale diretto da Omar Rashid ed Elio Germano, che ne è anche il protagonista. L’opera, in origine monologo teatrale scritto dallo stesso Germano con Chiara Lagani, rientra nell’edificio teatrale per espressa volontà degli Autori: lo spettatore è difatti ancora “costretto” a recarvisi fisicamente e a incontrare la comunità parimenti interessata allo spettacolo. Accade tuttavia che, una volta indossati il visore e le cuffie in dotazione, ci si ritrovi catapultati in un ennesimo teatro, in una nuova scena e che oltretutto si abbiano, di conseguenza, vicini di poltrona differenti da quelli effettivi, solitamente conosciuti. Circostanza da molti avvertita come straniante, dal momento che obbliga a ricalibrare di continuo le percezioni di un esterno sostanzialmente in contrasto con la visione virtuale. Quanto si sa e si avverte consiste in un’esperienza ben diversa da quella che si vive nell’assistere allo spettacolo. Il “tema” di quest’ultimo è un cosiddetto “meta-tema”, una riflessione sui media e sul loro potere orientante l’individuo fino alla coercizione. Lo spettatore sperimenta in prima persona la forza sia delle parole e dei gesti dell’attore sia dello strumento con cui deve seguire le une e gli altri, costretto all’interno della realtà virtuale a questo preciso scopo confezionata (Palmieri, 2020). Tuttavia – questo sembra essere il punto fondamentale – la visione offerta da quella stessa virtualità è a 360°. Filmata da ogni direzione dello spazio, la scena che “induce” coincide tecnicamente in potenza con uno spazio di inedita libertà. L’occhio conquista il diritto di scegliere tra un’immobilità o una mobilità premeditata da altri, e un’esplorazione autonoma dello spazio.
Sulla base di tale esemplare proposta drammatica, di tutti gli interrogativi che reca con sé, si tenterà di accennare a un nuovo (o rinnovato) “soggetto”, già formatosi nel darsi dell’opera d’arte, al solito precorritrice, talvolta inconsapevole, di una forma del pensare e del pensarci che il tempo a venire saprà pure pienamente esperire e teorizzare. Di quella forma si comincia tuttavia a scorgere un carattere “originario”, che richiama l’attenzione dell’interprete proprio quando questi cominci a investigare tutta l’inopinabile alterità e originalità dei mezzi in cui essa ha oggi iniziato a mostrarsi.