Hence it is with a certain feeling of urgency
that I seek the nature, subject, words of the other story,
the untold one, the life story.
(Le Guin, 1986, p. 168)
Contemporaneità reale dell’opera d’arte
La misura della pertinenza dell’opera d’arte al proprio tempo è spesso data dalla sua inattualità, vale a dire dalla sua forza prospettica, in grado di costruire il fondamento ermeneutico delle concezioni del futuro. Ancor prima degli scienziati sociali, sono stati e continuano ad essere gli artisti a mostrare una palese capacità di acquisire la coscienza storica della transitorietà in cui si sono dissolti i saperi forti del XX secolo e a edificare una «contemporaneità reale» (Augé, 2009, pp. 53-54), una simultaneità scambievole di orizzonti temporali, costituita da intrecci tematici e iconici tra passato, presente e avvenire. Si tratta di autori fisiologicamente sensibili al mutamento epocale, che hanno reperito il proprio fulcro d’interesse nei corpi umani, i quali, intenti al proprio fare, abitano il mondo poieticamente, offrendo preziose testimonianze dell’età trascorsa e altrettanto utili previsioni delle probabili, prossime svolte della via all’artificiale.
Ineludibilmente abili nell’intendere come le immagini del corpo condizionino la visione del mondo sono stati gli scrittori di science fiction, genere che rappresenta forme di intelligenza «estetica», sociologica, antropologica, filosofica (Fabozzi e Fattori, 1992, p. 319).Oscillando tra sfera empirica e investigazione controfattuale, la fantascienza si è da sempre configurata come il tentativo di comprendere l’esistente oltre i confini dell’indagine rigorosamente razionale (Suvin, 1979), la quale è risultata spesso inadatta ad analizzare le dinamiche della società in generale e dell’arte in particolare. Con l’esternazione dei turbamenti di una straniante immaginazione, operante dalla fine dell’Ottocento all’attualità, molte narrazioni metastoriche, da una prospettiva eccentrica, hanno svolto una funzione conoscitiva che ha consentito un’indubbia libertà polisemica promuovendo processi di significazione intertestuale.
Attraverso l’avvicendamento di fenomeni vagheggiati, come il potenziamento della forza umana, sia fisica sia intellettuale, la telepatia, la teleportazione, l’immortalità, è stata soprattutto la science fiction dispiegantesi dalla seconda metà del secolo scorso a preannunciare nonché a concettualizzare, benché in modo eterodosso e anarchico, il perpetuarsi di linguaggi costantemente socializzantisi al presente, schegge di senso che palesano il resistente legame con «forme di sapere» mutate, strutturate su altrettanto mutevoli «forme di vita» (Abruzzese 1992, p. 265), configurazioni identitarie futuribili, disvelamenti dell’eterogeneità dell’esperienza vissuta e vivente, Erlebnis intrisa di fantasia, che reinterpretando l’esistenza la ricrea. Creature artificiali collocate nella zona di confine tra sensibilità e intelletto, raffigurazione e precognizione, hanno illuminato aspetti dell’eterna diatriba tra «Terra» e «Mondo» (Heidegger 1968, pp. 28-31), tra trionfo e disfatta, tra fondazione e rovina.
Nell’osservare le figure abitanti l’esercizio degli studi sulla tecnoscienza, da intendere in maniera più appropriata come «studi culturali», narratori come Joanna Russ, James Tiptree, Jr., Samuel R. Delany, John Varley, Octavia Butler, Vonda McIntyre si sono chiesti che cosa significasse avere un corpo nei mondi ad alta tecnologia e hanno interpretato l’immaginario del tardo Novecento presagendone il portato, segnato da battaglie «locali/globali» convergenti su specifici oggetti di dissidio, tra i quali vanno contemplati i «significati» e le «incarnazioni» della «natura». Tali scrittori, interessati a una ricognizione narrativa della diversità, hanno posto in rilievo le categorie della relazione dialogante tra identità e alterità, individuando le caratteristiche da rifondere in insiemi compositivi contaminati. Essi hanno delineato una Weltanschauung funzionale alla rinascita di una cultura finalizzata alla costruzione di «collettivi più potenti» nonché alla legittimazione di creature transitanti, mutanti, fluide, che, avendo visto negarsi la «strategica illusione dell’autoidentificazione» (Haraway, 2019a, pp. 109-110, 131, 135, 230-231), si propongono come foriere di più promettenti realtà.
Storie necessarie e fabulazioni speculative
Sistema dinamico di immagini, visive o acustiche, interrelate tra loro e capaci di contribuire all’instaurazione di un rapporto tra l’essere umano e il cosmo, la pratica immaginifica possiede una matrice di tipo sia estetico sia euristico. Una delle sue funzioni fondamentali corrisponde da sempre al tentativo di comprensione, scoperta e riproduzione della realtà nella sua «ricchezza dispiegata di contenuti e di forme», coincidendo con una sorta di «rispecchiamento» (Lukács, 1957, p. 146), spesso precognitivo, dei processi materiali. L’immaginario profetico, concepito nella pluralità delle sue declinazioni e nella convergenza dei suoi media, costruisce dispositivi di senso, promuove dinamiche sinaptiche e ingranaggi operativi che ingenerano teorie, contrasta i momenti critici con strumentazioni culturali inusuali e costellazioni emotive inusitate.
Il riverberarsi dell’arte letteraria sull’espressione audiovisiva esprime modalità finora ignorate di considerazione di tutte le forme di vita che abitano il pianeta, mentre l’umana, concreta attività di co-creazione realizzata insieme a dispositivi elettronici o a varie specie animali induce a interrogarsi sulle caratteristiche peculiari di intelligenze dissimili. La fantascienza, nei suoi versanti umbratili, esorta a pensare all’urgenza della formulazione di un «quadro etico» (Floridi, 2017, p. 253) del pensiero narrante, che faccia delle ferite forme di vita e lavori con i resti rendendoli generativi.
Al centro della presente riflessione, focalizzata sulla valenza strategica di un operare immaginativo valutabile come il precipitato ultimo di nutrite serie di elaborazioni teoriche e letterarie, è Chthulucene, un lavoro coreografato da Mareva Minerbi, Sheenru Yong e Theo Steinman su musiche di Lu Wang dk, ideato e diretto da Jiabao Li, che sonda le intersezioni tra gli orizzonti artistico, tecnologico e organico. Avviluppandosi a vicenda e assimilandosi reciprocamente, sinuose e striscianti danzatrici metaforizzano l’amalgamabilità dei corpi umani con entità ontologicamente differenti, e, con l’interpretare in maniera fantasiosa il co-divenire sia senso-informazionale sia multispecifico, evidenziano la gravità dei preconizzati esiti della Storia.
Con sistemi di design speculativo che esplorano le implicazioni culturali delle scienze emergenti, Li,nelle sue opere, grazie a studi ingegneristici, sviluppa utili prototipi tecnici, sollecitando negli spettatori inedite percezioni mediante inediti stimoli sensoriali provenienti dal digitalizzato panorama mediatico.La sospensione della dualità semantica tra materialità e immaterialità, che segna l’opera dell’artista, amalgama il reale all’irreale ed estende il soggetto nell’oggetto, contribuendo ad accendere dibattiti concernenti gli effetti sortiti dal sofisticatissimo processo di tecnicizzazione. Incentrandosi sulla confluenza di mezzi informatici e ispirazione immaginativa, l’autrice interpreta lo Zeitgeist contemporaneo, rilanciandone le dinamiche in un avvenire non lontano dal realizzarsi compiutamente. Asseconda le trame elettrificate della Rete, «coestensive con [l’umana] formazione biologica e neurologica» (de Kerckhove, 1996, pp. 195-196), vivificandole con oggetti wearable, robot e installazioni virtuali[1]. Riflette intorno alla transizione dall’homo sapiens all’homo technologicus (Longo, 2001) e alla trasmutazione di quest’ultimo in elemento costitutivo di una sorta di macroorganismo che invade l’intero globo, una creatura planetaria sortita dalla congiunzione di sistemi viventi e sistemi non viventi, sede di un’«intelligenza collettiva» (Lévy, 1996). Ripropone inoltre un’idea del soggetto come «complesso flessibile organismo-nel-suo-ambiente» (Bateson, 1976, p. 467; Bateson, 1984), punto di vista che rovescia la prospettiva tradizionale del pensiero occidentale riguardante il rapporto tra l’individuo dominatore e gli oggetti utilizzati. Li sembra concepire la tecnica come invio destinale dell’essere, percepirla non in termini ontici bensì ontologici, non riguardanti cioè la mera proliferazione di dispositivi, bensì la comprensione, più che delle cose in quanto tali, dell’essere delle cose. L’artista ribadisce dunque elementi fondamentali della teoresi heideggeriana: la convinzione che l’«essenza della tecnica» non sia «affatto qualcosa di tecnico» e che la tecnica sia in grado di toccare lo sfondo su cui le cose appaiono, infiltrandosi intimamente nell’esistenza umana (Heidegger, 1976, p. 5), fin nei suoi anfratti più celati.
Immersi in una dimensione altra, i danzanti doppi digitali di Chthulucene modificano il proprio assetto prospettico e le proprie articolazioni dinamiche, schiudendo frontiere sia ontologiche sia epistemologiche (Bateson, 1997). In una dialettica interattiva interpretano il rapporto tra ilsoggetto e il mondo, si costituiscono reciprocamente e simultaneamente, ingenerando una realtà non definitivamente data, bensì proteiforme, subordinata alle esplorazioni che vi si compiono. Inserita in una relazione di «autonomia-dipendenza organizzatrice» rispetto al proprio «ecosistema» (Morin, 1974, p. 29), la variabile, dissonante e contraddittoria umanità, prodotto di una coevoluzione costantemente operante, è dunque fonte e destinataria di azioni e reazioni mutevoli, di tensioni e perturbazioni feconde[2].
Chthulucene riflette sul piano della produzione tersicorea le teorie elaborate da Donna Haraway nel testo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto. Sulla falsariga della Weltanschauung della filosofa della scienza, nonché biologa, si tratteggia uno scenario futuribile, contraddicendo i modelli dicotomici con cui per secoli l’epistemologia occidentale ha tentato di spiegare la realtà, ossia le antinomie tra naturale e macchinico, corporeo e mentale, femminile e maschile. Se l’harawayano Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata si conclude con un invito a riscrivere la fantascienza e le sue iperboliche narrazioni, ormai completamente inveratesi nel presente, nel finale di Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, un perturbante racconto descrive un essere umano non più indotto dall’astrazione consentita dal proprio linguaggio a «credere nella realtà» dei propri «concetti», il quale si è ritenuto «libero», ignorando la propria dipendenza dalla «biosfera» (Laborit, 1985, p. 106). Quest’«uomo oltre l’uomo» (Fukuyama, 2002) si presenta come entità compostata, che si coniuga con specie in via di estinzione e che avvia processi evolutivi. Giudicando i termini Antropocene o Capitalocene assolutamente inadatti ad esprimere capacità immaginativa riguardo alla metamorfosi del mondo, la scienziata, per indicare una «tempospettiva» (Haraway, 2019b, p. 19) «innervata da infinite possibilità etimologiche» (Durastanti, 2019, p. 7), inventa il termine Chthulucene, derivato da khthónios e kainós. Tale parola rinvia a un’epoca appena iniziata del «denso presente», a un «tipo di tempo-spazio» evocante la nascita, o la rinascita, di un pianeta abitabile grazie alla valorizzazione di creature ctonie, sommerse nelle grotte, sospinte negli interstizi delle acque contaminate e delle terre desolate, esistenti nell’«humus multispecie», come il Pimoa chthulu, che trae il proprio nome specifico dalle «entità abissali». Producendo «teoria nel fango»,la Harawayscruta la realtà e il suo essere non antropocentrata, con il suo brulicare di entità attraverso la generazione di parentele, «connessioni inventive» (Haraway, 2019b, pp. 13, 52, 53, 85, 105) eccedenti la specie umana, vale a dire gli schemi consolidati della famiglia e della trasmissione genetica. Con intento prescrittivo invita a pratiche che estendano il connubio simbiotico (Longo, 2003), attuato in maniera a volte imprevedibile, «inappropriata» (Haraway, 2019a), trascendente la cerchia antropica e coinvolgente «esseri tentacolari», come le «creature dell’information technology» o le figure corporee quali i «celenterati», i «polpi», le «meduse», i «fasci di miofibrilla», i «grovigli» «microbici e micotici». Vivere insieme all’altro da sé può rappresentare una reazione potente ai «dettami dell’anthropos e del capitale»: l’associazione di «viandanti» umani e non umani, «figure di filo» che perennemente propongono nuove soluzioni, si attualizza grazie all’attività cooperativa di risorse culturali e vocazioni politiche, applicazioni tecniche e progetti artistici. Nell’età chthulucenica, che è storia «necessaria», i «poteri biotici e abiotici» costituiscono la «trama principale del racconto» che viene ridisegnato annullando una «maglia per crearne un’altra» (Haraway, 2019b, pp. 14, 53-54, 85, 86). Li accoglie il consiglio harawayano di ripensare il mondo come «nodo generativo material-semiotico» (Haraway, 1995, p. 59) con cui interagire per condividere sapere nella «simpoiesi» del «compostaggio», nel «con-fare», in una forma «sinctonica» di poiesi che rimanda a una dimensione di coabitazione e coesistenza delle creature ctonie. Il vocabolo simpoiesi fa riferimento a contesti storici «dinamici, reattivi, situati», alludendo al dispiegamento produttivo dell’autopoiesi (Haraway, 2019b, p. 205, n. 14) e a una riconsiderazione del soggetto come entità radicata nella corporeità, campo di iscrizione di codici socio-culturali, schermo di proiezioni immaginarie, sito della costituzione di identità transeunti. Sia la filosofa sia l’artista sanno che, immerso in un contesto di relazioni con le quali contribuisce a costruire la realtà, il soma è elaboratore di informazione nonché produttore di un senso primordiale che precede la coscienza, radicato nelle molecole. Entrambe sono consapevoli di quanto la costruzione di un paradigma che affermi il pensiero ecosistemico sia essenziale alla specie umana, la quale deve promuovere una propensione di tipo collaborativo, capace di superare al contempo sia la visione meccanicistica, radicata nella polarità ontologica asimmetrica di res cogitans e res extensa, sia il binomio economicista uomo-società, al fine di legittimare definitivamente il trinomio uomo-società-natura. Ambedue sono conscie del fatto che le tecnologie della «mente-corpo» (Parisi, 1994, pp. 131-142) riattivano il circolo tra organismo e habitat, riconducendo l’intelligenza scarnificata dalla modellizzazione in termini computazionali e formali del vissuto in una materiale teca ancestrale, calata in una storia culturale che è anche storia biologica. Il corpo codificato, vagheggiato dalla cibernetica, sarebbe dunque, per la scienziata come per l’art designer, un mero simulacro di corpo, incapace di contenerne l’essenza poiché la mediazione filtrante del codice ne negherebbe l’immersione in un contesto di sostanzialità.
Nell’opera firmata da Li,la pesantezza degli atomi ritorna a essere dominante e sostituisce la leggerezza dei bit (Negroponte, 1995), tendendo a confondere azione cognitiva e cognizione attiva, nonché sottolineando come esista una divaricazione sensibile tra un ecologismo di tipo puramente conservativo e uno ispirato a principi socialmente innovatori. Traducendo nell’orizzonte estetico le idee di un’autriceche, a sua volta, ha fatto della finzione, nella forma della fabulazione speculativa o del racconto fantascientifico, un mezzo di produzione conoscitiva, non concepita quest’ultima come esclusiva conquista delle scienze autorizzate a produrre verità, si contraddice il dettato del canone filosofico greco-idealistico. L’animale che reca con sé il logos è da sempre creatore di immagini: il nexus che lega queste ultime alla tecnica è un elemento essenziale dell’umanità fin dal momento antropogenetico fondante. Nell’ineludibilità del rapporto tra ominazione e immaginalità, l’essere umano viene identificato con l’ente che ha plasmato se stesso nel divenire una specifica imago, processo che, in un futuro non poi così remoto, potrebbe non compiersi più soltanto attraverso la tecnica. Potrebbe attualizzarsi mediante unioni simbiogenetiche, quali, ad esempio, la fusione tra gli esseri umani e i molluschi cefalopodi, provocata dall’innalzamento del livello del mare, rappresentata nell’universo fluido e sensuale del danzato Chthulucene, in cui conoscenza immaginata e conoscenza oggettiva si amalgamano, mentre una nuova science fiction diventa medium e ambiente di un’indagine dotata di un potere trasmutativo. Una fiction che sosta nel «trouble», termine quest’ultimo dall’etimo ingarbugliato, che evoca le implicazioni delle sue possibili, molteplici allusioni. Oltre ai vari significati richiamati, la parola rimanda a una «simpoiesi» tra principi generali, deduzioni, previsioni e simboli, allegorie, tropi, consentendo di ancorare i valori espressivi della comunità globale ai valori testuali delle produzioni fantastiche. Di fondamentale importanza risulta «sapere quali storie creano mondi» e «quali mondi creano storie»: (Haraway, 2019b, p. 27): nell’avveniristica narrazione degli effetti prodotti su una Terra «piagata e agonizzante» (Dick, 1997, p. 355), affresco di pensabili diramazioni dell’età ventura, mediante l’estetica si adombra il probabile. La spettacolarizzazione delle azzardate predizioni pone in rilievo le potenzialità adattive dell’uomo -con quella che un tempo era l’irriducibilità del suo corpo- a un pianeta reso ostile dal cattivo uso della tecnica. Il decentramento dell’essere umano in un mondo segnato dall’indeterminazione, dall’incertezza e dal caos esige una notevole tensione ermeneutica, in grado di attraversare le dedaliche traiettorie dell’età attuale, nonché un’interpretazione degli «ordini simpoietici» definibili come «assemblaggi ecologici». L’individuazione nella «simpoiesi» della conditio sine qua non di una sopravvivenza «articolata» presagisce modi altri di «fare mondo», che, per quanto arditi, risulteranno probabilmente realizzabili nell’habitat confuso e torbido di esseri eterogenei, così ben rappresentato dall’espressività di Li. Restare a contatto con il problema, come suggerisce il titolo originale del volume harawayano che ha ispirato l’artista, richiede la capacità degli umani di collocarsi nel «presente», incarnando il ruolo di «specie compagne» che perpetuamente con-divengono in un «mondeggiare» «relazionale», «creature mortali interconnesse in una miriade di configurazioni aperte, fatte di luoghi, epoche, questioni» (Haraway, 2019b, pp. 26, 27, 89).
La ragione scientifica è ragione storica che modifica i propri problemi al variare delle condizioni culturali. Registrando il ricondursi della filosofia al ripensamento della materia, Chthulucene consente di visualizzare la forza di un pensiero finalizzato al ridelineamento del mondo. Costituisce una riflessione danzata sulla misura dell’agire umano, ispirata all’elaborazione di una teoresi, quella harawayana, volta alla liberazione da obsoleti presupposti speculativi e tesa all’analisi di un sapere degno di questo nome, che prenda le distanze da ogni forma di astrazione, da ogni tipo di retaggio metafisico. Si coglie il desiderio di accentuare la necessità animica del contatto con la natura, non più nella forma oggettivante e geometrica delle scienze, bensì in quella simbolica dello sguardo poetico, nonché di restituire il pianeta alla sua genealogia elementale, alla sua tessitura profonda, che attualmente patisce attentati violenti, forse fatali.
La coreografia rivela come l’irrigidimento dottrinale si converta all’estetica, subendo la fascinazione di una materia il cui destino è quello di ricevere il potere rivelatore dell’immaginazione, non quello di essere depurata dai residui di quest’ultima, come vorrebbe un pertinace razionalismo. Una materia che si offre nella sua contaminazione, che si espone nella sua musicalità erotica, e che, non basandosi sulla credibilità teoretica, evoca l’ispirazione immaginativa della conoscenza.
Conclusioni. Vedere sensibile e vedere intelligibile
La rappresentazione della filosofia harawayana nel brano coreutico mette in scena processi ibridanti, metaforizzati al contempo da commerci con alterità digitali e da connubi simbiotici che restituiscono all’universo il suo primato ontologico.
Li mostra come il processo di virtualizzazione sia «movimento del farsi altro» (Lévy, 1997, p. 2) di un nucleo problematico di tensioni, tendenze, potenzialità, dispiegantisi e convergenti in una fisionomia attualizzante, la quale sortisce il cortocircuito delle coordinate crono-geografiche, la riconfigurazione delle dimensioni percettive e cognitive, la trasformazione delle identità sia individuali sia collettive. Racconta come tali riformulate soggettività si disseminino in una domus colonizzata dalla tecnica, l’eterea infosfera, che presenta tratti a volte spaesanti. È lo spazio globale nella sua interezza a essere disorientante e ad invocare un pensiero interrogante, concernente la duplicità del ruolo del soggetto umano, chiamato, nel suo intento poietico, ad operare, in maniera perennemente selettiva rispetto alle forme di produzione e ai modelli di organizzazione sociale costantemente proposti, scegliendo di riconfermarsi come «padrone dell’ente» o di ridiventare «pastore dell’essere» (Heidegger, 1995, p. 73), riconoscendosi, in quest’ultimo caso, non più unico protagonista del continuo prodursi del reale e non più centro absolutus del conflitto tra il formicolio dei microcosmi e le catastrofi della Storia. In Chthulucene di Li, la sublimazione dei traumi in universi metaforici è finalizzata alla sostituzione di forme di esistenza sulla base del recupero di essenze arcaiche, rifunzionalizzate in una prospettiva di ordine pragmatico, nella conversione della razionalità dal piano formale a quello materiale (Weber, 1974, pp. 80-81), vale a dire nel rispetto di un inaggirabile sistema valoriale, nella scelta di un’«etica della responsabilità» (Weber, 1948, p. 109) segnata dal calcolo delle conseguenze delle azioni umane.
Nel brano si mostra come la critica harawayana illumini l’oggetto della scienza e i modi in cui esso si costituisce, mettendo in discussione una ragione considerata organo puro della conoscenza: l’epistemologia, non più dominata dalla scissione tra concretezza e astrazione, si affranca così dalla consegna alla schematizzazione per farsi libera invenzione. Le forme concettuali si stemperano in figure erranti che l’artista fa fluttuare nella coniugazione dialettica tra umanità e non umanità, laddove le narrazioni si intrecciano alla vita della società. L’immaginazione creatrice rende se stessa terreno per una disamina aderente al reale, mentre il linguaggio si fa pregnante espressione poetica e sovversione della discorsività corrente. Nonostante non si possa eludere il contributo fondamentale del pensiero scientifico in ordine allo sviluppo sperabilmente omeotecnico del futuro,la relazione dialogica tra identità e alterità diventa salvifica, mentre la finzione rivolge alla vita uno sguardo comprendente.
Il non ancora compiuto Chthulucene dovrà «raccattare la spazzatura dell’Antropocene», annichilire la propensione al conflitto del Capitalocene e realizzare un «ammasso di compost» «accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili» (Haraway, 2019b, p. 88): se attraverso il vedere sensibile passa il vedere intelligibile, non risulta possibile pensare a prescindere dalla potenza delle immagini, la quale nell’opera di Li, e particolarmente nel suo Chthulucene, si mostra indubitabilmente via alla conoscenza e condizione di possibilità dell’esperienza.
Bibliografia
- Abruzzese A., Il nuovo immaginario, in Abruzzese A. (a cura di), Materiali di sociologia della letteratura, E.DI.SU., Napoli, 1992.
- Augé M., Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo, Eléuthera, Milano, 2009.
- Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1976.
- Bateson G., Mente e natura, Un’unità necessaria, Adelphi, Milano, 1984.
- Bateson G., Una sacra unità. Altri passi verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano, 1997.
- Borghi L., Donna Haraway: se il mondo è un dialetto chiamato metafora, in Haraway D.J., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopoTM, Feltrinelli, Milano, 2000.
- Dick Ph.K., Lettera su Tagore, in Dick Ph.K., Mutazioni. Scritti inediti, filosofici, autobiografici e letterari, Feltrinelli, Milano, 1997.
- Durastanti C., Nota della traduttrice, in Haraway D.J., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019.
- Fabozzi A.-Fattori A., Fantascienza, in Abruzzese A. (a cura di), Materiali di sociologia della letteratura, E.DI.SU., Napoli, 1992.
- Floridi L., La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
- Fukuyama F., L’uomo oltre l’uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, Milano, 2002.
- Haraway D. J., Manifesto cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995.
- Haraway D.J., Testimone_Modesta@FemaleMan©_incontra_OncoTopoTM, Feltrinelli, Milano, 2000.
- Haraway D.J., Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata, DeriveApprodi, Roma 2019a.
- Haraway D.J., Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma, 2019b.
- Heidegger M., L’origine dell’opera d’arte, in Heidegger M., Sentieri interrotti, La Nuova Italia, Firenze, 1968.
- Heidegger M., La questione della tecnica, in Heidegger M., Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1976.
- Heidegger M., Lettera sull’umanismo, Adelphi, Milano, 1995.
- Kerckhove de D., La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa & Nolan, 1996.
- Laborit H., La colomba assassinata, Mondadori, Milano, 1985.
- Le Guin U., The Carrier Bag Theory of Fiction, Ignota Books, 2020 (1° ed. 1986).
- Lévy P., L’intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano, 1996.
- Lévy P., Il virtuale, Raffaello Cortina, Milano, 1997.
- Longo G.O., Homo technologicus, Meltemi, Roma, 2001.
- Longo G.O., Il simbionte. Prove di umanità futura, Meltemi, Roma, 2003.
- Lukács G., Prolegomeni a un’estetica marxista. Sulla categoria della particolarità, Editori Riuniti, Roma, 1957.
- Morin E., Il paradigma perduto, Bompiani, Milano, 1974.
- Negroponte N., Essere digitali, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.
- Parisi D., Tecnologie della mente/corpo, in Capucci P. L. (a cura di), Il corpo tecnologico. L’influenza delle tecnologie sul corpo e sulle sue facoltà, Baskerville, Bologna, 1994.
- Suvin D., Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, il Mulino, Bologna, 1985.
- Weber M., Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano, 1974.
- Weber M., La politica come professione, in Weber M., Il lavoro intellettuale come professione, Einaudi, Torino, 1948.
[1] I lavori di Jiabao Li sono stati esposti ad Ars Electronica, SIGGRAPH, Milano e Dubai Design Week, ISEA. L’autrice ha ricevuto i premi STARTS, NEA, FastCoDesign, iF Design, Core77.
[2] Jiabao Li, in opere come TransVision, sottolinea l’ipersensibilità dei cibernauti al contesto sociopolitico, sortita dalla capillare diffusione delle informazioni, nonché il carattere ossessivo-compulsivo della navigazione on line, che paradossalmente restringe l’ampiezza della visione del mondo, mercificandola, rendendola parte della catena del valore.Dalla messa in scena, in Squid Map, della reinterpretazione, da parte di altre specie animali, delle mappe geopolitiche disegnate dall’uomo civilizzato, «soltanto apparentemente metonimiche», in realtà «risultato di rafforzamenti, interazioni, interferenze» (Borghi, 2000, p. 20), si giunge, in Diffusive Geometry, alla concezione del vapore come elemento funzionale alla creazione di condizioni atmosferiche trasformate in esperienze dinamiche controllabili. Lo spirito ecologista dell’artista è espresso nella rappresentazione dei selvaggi habitat naturali, nella trattazione poetica di tematiche come il cambiamento climatico e la costruzione di un avvenire sostenibile. Altamente metaforico è, a tal proposito, il gesto di cura compiuto dalla protagonista di Once a Glacier, film in Virtual Reality finalizzato a contrastare la terrificante realtà provocata dalla crisi termica. Il surriscaldamento globale viene descritto nella serie Glacier’s Lament, che interpreta la magnificenza di ghiacciai resi ormai fragili. I dati relativi allo scioglimento di questi ultimi, rilevati nell’ultimo sessantennio, vengono usati dalla studiosa per la composizione della musica, animata da suggestive danze: in sintonia con il canto dei ghiacciai stessi, i toni bassi e i movimenti solenni rappresentano l’inverno, mentre le modulazioni alte e i gesti sofferti raffigurano l’estate con il conseguente, aumentato tasso della loro disgregazione.