Questo pezzo è una risposta all’articolo Whitey on Mars di Lee Vinsel e Andrew Russell, pubblicato su Aeon il primo febbraio 2017.
Sono uno dei pochi ingegneri aerospaziali afro-americani ad aver contribuito a progettare le navicelle Apollo che hanno portato l’uomo sulla Luna. Il mio bisnonno era uno schiavo a Claiborne, Alabama, che usava strumenti primitivi per lavorare la terra. Mio padre è nato in Alabama prima che i fratelli Wright compissero il primo volo dell’umanità. Ha vissuto vedendo gli uomini camminare sulla Luna, due laboratori biologici robotizzati atterrare su Marte, e una flotta di quattro sonde spaziali viaggiare verso le stelle. Ma molte persone di colore, come il reverendo Ralph Abernathy, pensavano che il denaro speso per fare queste bellissime cose sarebbe stato meglio spenderlo per aiutare i discendenti più poveri degli schiavi Americani.
Nel luglio del 1969, quando l’Apollo 11 decollò dalla costa orientale della Florida, ero nella area d’osservazione VIP a 4 chilometri e mezzo dalla piattaforma di lancio. Era travolgente. Urlai: “Aspettatemi!”. Altri osservatori nelle vicinanze, compreso l’imperatore etiope Haile Selassie, dissero più o meno lo stesso. Anche Abernathy, a molti più chilometri di distanza, fu sormontato da un senso di meraviglia, dimenticando per un momento la sua protesta in nome dei bisognosi.
Fui rapito dalla curiosità dello spazio da adolescente, nei primi anni Cinquanta, leggendo gli articoli di Werner von Braun nella vecchia rivista Collier riguardanti l’invio di una flotta con equipaggio su Marte. Fu allora, in quella era pre-Sputik, che ho saputo cosa avrei voluto fare per il resto della mia vita.
I miei insegnanti e i miei amici ridevano. “Nulla di quella roba accadrà mai: nessuno manderà niente nello spazio durante la tua vita”, dicevano “per non parlare di un uomo”. Ma mentre ero al college, l’Unione Sovietica lanciò lo Sputnik, innescando la corsa allo spazio della Guerra Fredda. Eppure spesso mi capita di sentire, anche tra le amiche di mia moglie, che il grande costo dell’esplorazione spaziale era immorale quando così tante persone nel nostro paese non avevano accesso al minimo indispensabile. Tutto quello che sapevo era che, come il commento di George C. Scott sulla carneficina della guerra nel film Patton (1970), “Dio aiutami, mi piace così.”
Non so perché Elon Musk voglia mandare delle persone nello spazio. È chiaro, però, che vuole farlo con meno persone e con meno denaro di quanti ce ne siano voluti per lanciare le navicelle Apollo e i giganteschi razzi Saturn V.
Forse Musk ha avuto il suo “momento Collier” ascoltando gli ammonimenti di Stephen Hawking sulla condanna dell’umanità se alcuni di noi non lasceranno presto questo pianeta. Forse è preoccupato che ci sia qualcosa di vero nel Paradosso di Fermi citato spesso dalla comunità SETI: “Allora, dove sono tutti?” (forse Musk pensa che siamo sul punto di un disastro nucleare ora che molti pazzi hanno le loro mani su scorte di armi nucleari). O forse ha letto The Pathology of Power (1987) di Norman Cousins e si è talmente spaventato da mettersi a lavoro per salvare la specie umana. Non lo so. Ma posso dire che programmi romantici come Apollo ispirano le persone, e che portano i bambini ad amare la scienza e la tecnologia, per tutta la vita.
Quarantacinque anni fa portai due aerei pieni di ragazzi delle scuole medie dell’area di Minneapolis-St.Paul al Kennedy Space Center in Florida, lo stesso posto dove presenziai al primo volo di Neil Armstrong verso la Luna. Eravamo lì per vedere partire Apollo 17, l’ultima missione Apollo. Lì i ragazzi ebbero la possibilità di incontrare scienziati e ingegneri della minoranza nera, come il dottor George Carruthers, un fisico del Laboratorio di Ricerca Navale che progettò e costruì l’osservatorio astronomico portato sulla Luna dalla missione Apollo 16. Carruthers è un afro-americano. La maggior parte di quei ragazzini non aveva mai sentito delle carriere scientifiche, ma molti si avvicinarono alle varie discipline scientifiche grazie a quella visita. Da allora, io e i miei soci ci siamo occupati di produrre altri “decimi di talento”, come W.E.B. Du Bois li chiamò nel suo saggio del 1903 (il riferimento è a The Talented Tenth, nel quale Du Bois sostenne che la minoranza migliore tra gli afro-americani – il decimo talentuoso – avrebbe un giorno guidato l’emancipazione dei neri, N.d.R.).
Sappiamo che alcuni credono che i nostri sforzi e le nostre iniziative di micro-finanza come il fondo Acumen di Jacqueline Novogratz non possano scalfire la povertà estrema; specialmente in un’epoca in cui sembra che il mondo si stia dirigendo verso un’oligarchia globale. Sappiamo anche che nel 1948 Du Bois mise in discussione la sua filosofia del “decimo di talento” con la preoccupazione che, invece di essere aiutati, i poveri sarebbero stati abbandonati da una classe di neri egoisti altamente scolarizzata alla Gordon Gekko, persino peggiore del personaggio interpretato da Michael Douglas nel film Wall Street (1987).
Musk potrebbe, come hanno sostenuto Andrew Russell e Lee Vinsel, liberarsi delle sue auto sportive e comprare centinaia di migliaia di pasti per i poveri. Ma poi cosa ci sarebbe per pranzo il giorno dopo? Io sono della scuola di pensiero “insegna a un uomo a pescare”. L’era Apollo ha visto un’ondata di persone interessarsi alla scienza e alla tecnologia. Potrebbe sembrare banale, ma l’aspetto romantico della missione ha ispirato un’intera generazione. In seguito, questa “corte” altamente scolarizzata ha inventato cose nuove, creato nuovi lavori, si è fatta una famiglia e ha dato vita a una classe media flessibile. Era un’epoca di ricerca interdisciplinare a tutto campo inaugurata dall’amministrazione di John F. Kennedy, che il mondo probabilmente non vedrà più.
Ecco perché io e i miei colleghi abbiamo lanciato campi e studios scientifici per tutti gli Stati Uniti, e perché tanti di noi si dedicano alla formazione dei giovani. Recentemente, una ragazzina di terza media mi ha chiesto: “Visto che Marte non ha più un campo magnetico, i coloni impazziranno proprio come i ratti bianchi protetti da quello della Terra negli esperimenti russi? E mi aiuteresti a replicare quell’esperimento?” La aiutai, ed ebbe lo stesso risultato: i ratti provarono a uccidersi a vicenda.
Ho aiutato alcuni ragazzini di un’accademia d’arte ad andare a Parigi per partecipare a una competizione internazionale di tech-design con l’idea di intensificare l’insegnamento delle discipline scientifiche e dell’arte nelle scuole prive di risorse intorno al mondo. Ho aiutato giovani di zone rurali povere ad avvicinarsi alla ricerca sulla fisica nucleare al Fermilab di Chicago, alla progettazione di droni per il controllo delle colture e a tanti altri campi. Il mondo è pieno di ragazzi curiosi, e almeno il 5% di loro si dedicherà alle sfide poste dal futuro per aiutare a rendere migliore la vita del resto dell’umanità.
Infine, è importante parlare della raccomandazione che Vinsel e Russell hanno fatto sull’abbandonare lo spazio e dedicare l’attenzione agli indigenti. Negli anni Settanta un mio conoscente, ricercatore in una delle Fortune 500, andò in vacanza e rimase impressionato dalle condizioni abitative degradanti del Sud America e del Sud Africa. In entrambi i posti trovò capanni Quonset donati da ONG ben intenzionate. Con quelle temperature le strutture erano dei forni: nessuno le usava. Notò, invece, che il suolo argilloso locale sarebbe stato ideale per costruire edifici più freschi, se solo fosse stato possibile costruire i blocchi in modo economico e usando tecnologia semplice. Il suo progetto ricordava una stampante 3D. Decise di lavorarci quando tornò a casa.
La sua compagnia permise generosamente ai dipendenti di compiere le proprie ricerche negli edifici dell’azienda. Gli diedero l’intero piano di uno dei loro edifici per lavorare al suo “Progetto abitativo low-cost per il Terzo Mondo”. Inventò e brevettò una piccola macchina che prendeva l’argilla rossa e la resina dell’Alabama trasformandole in piccoli cuscinetti di ceramica pieni di aria. Questi potevano essere versati in degli stampi e messi in forno. Ma alla sua azienda non piaceva la sua applicazione. Non c’era alcun modo di trarre profitto dalla costruzione di case per poveri. Trovarono però un modo di guadagnare un sacco di soldi vendendo questa macchina all’industria del vetro. Anch’io ebbi un fermacarte cilindrico fatto di cuscinetti di ceramica.
Anni dopo, mentre lavoravo per mettere su un impianto di produzione elettrica, mi accorsi delle misere condizioni abitative nelle aree rurali del sud del sub-continente. Pensai al mio fermacarte. Contattai la compagnia che possedeva il brevetto e ottenni il permesso di chiedere all’India se fosse interessata all’applicazione in ambito abitativo. Feci una presentazione al consolato indiano di New York, gli donai il mio fermacarte e tutti i contatti tecnici e commerciali per avviare in India un programma abitativo a basso costo ed ad alta qualità. Non successe niente. Forse era troppo noioso. Forse fu perso tra i processi burocratici.
Certo, ci sono ancora grandi aree dell’India con pessime condizioni abitative. Ma l’India ora si contraddistingue per essere il solo paese al mondo ad aver lanciato con successo, al primo tentativo, una missione robotica su Marte. In particolare, la missione indiana Mars Orbiter, in parte grazie a una tecnica di guida, costa solo 74 milioni di dollari, una frazione dei 671 milioni spesi per l’ultimo satellite USA per Marte. ISRO (la corrispettiva indiana della NASA) è un’organizzazione dinamica e che guarda al futuro che sta facendo cose sbalorditive. Stanno contribuendo in modo significativo non solo nello spazio, ma anche per quanto riguarda il supporto della ricerca scientifica e tecnologica, e per portare una nuova generazione di giovani a lavori più ricchi e gratificanti.
La ragione per cui scrivo è che, mentre rispetto la posizione di Russell e VInsel e le loro ragioni per opporsi al programma marziano di Musk, sono fondamentalmente in disaccordo. Sì, lo spazio richiede molti soldi. Ma porta a nuove grandi tecnologie con un potenziale molto ampio. È un’ispirazione per quel talentuoso 5% che alla fine aiuterà l’umanità a crescere e camminare tra le stelle. È anche molto più economico della guerra.
L’articolo originale è apparso su Aeon. Traduzione di Bruno Formicola.
E’ una giusta analisi, non nuova perche’ noi del San Marco e del Sirio 50 e 40 anni fa fummo attaccati dai vari giornalisti italiani contrari a che l’Italia facesse parte del novero di Nazioni (3a in termine di tempo) che aveva contribuire alla ricerca spaziale anni avanti Francia, Germania e Inghilterra. Peccato che poi abbiamo regalato ad altri il nostro know how!