Io sono un razionalista. Con il termine razionalista intendo dire un uomo che desidera comprendere il mondo e imparare discutendo con gli altri. (Si noti che non dico che un razionalista sia un sostenitore dell’errata teoria che gli uomini sono completamente o prevalentemente razionali).
Karl Popper (1994, p. 36)
Quando si parla di scienza e tecnologia, si è persuasi di avere a che fare in modo esclusivo col dominio del razionale. In quale forma difatti la ragione manifesta massimamente la sua essenza, se non nelle scoperte scientifiche e nelle relative applicazioni tecniche? Di primo acchito quest’equazione appare inconfutabile. Eppure le cose non stanno esattamente così. Lungi da chi scrive sottostimare i grandiosi benefici prodottisi per mezzo dell’avanzamento scientifico. Sin dagli albori di questo processo esploso ai tempi della Rivoluzione Scientifica ma avviatosi già nel Basso Medioevo, incredibili trasformazioni e migliorie – non solo materiali – hanno interessato la vita umana associata. Si pensi alla grandezza delle riflessioni cosmologiche che portarono Copernico sul letto di morte a licenziare il testo che capovolse l’intera struttura dell’universo per come essa era stata vista e pensata sino a qual momento. Si pensi a Galileo che con il suo geniale e intraprendente modo di procedere – sia a livello scientifico che politico – consegnò il mondo naturale al governo della matematica. Si pensi a Cartesio, il quale – al riparo di una stufa – riformulò l’intera architettura del pensiero per come questo aveva fino a quel momento irreggimentato il ragionamento umano. Straordinarie conquiste della ragione – e l’elenco potrebbe continuare a lungo (cfr. Camorrino, 2012).
Tuttavia, sin dalla sua fase aurorale la scienza si avvalse di una spinta psicologica – di una premialità morale, potremmo dire – che contribuì notevolmente al suo sviluppo. Sin da subito la scienza fu circonfusa di una profonda carica etica che sgorgava dai campi del religioso, soprattutto nella sua derivazione protestante (cfr. Merton, 2011; Weber, 2006). Gli uomini ritenevano, per mezzo della scienza, di operare in alleanza con Dio: l’attività scientifica serviva, a un tempo, a disvelare la grandezza della Creazione (specchio e testimonianza della maestosità e perfezione dell’Altissimo) e a elevare l’uomo alla sua edenica condizione originaria (a emanciparlo cioè da quello stato di minorità e corruzione che ne avviliva l’esistenza in conseguenza del peccato originale). La missione cui si consacrò Bacone – vero e proprio «annunciatore» (Koyrè, 1973) della scienza moderna – era quindi intrisa di significati escatologici (cfr. Farrington, 1952; Shapin, 2003). Caratterizzato da tali robuste radici religiose, il progresso scientifico venne identificato con il progresso morale tout court. Si diffuse la convinzione che la produzione crescente di congegni tecnici e l’incipiente disvelamento delle leggi naturali – cui l’uomo doveva imporre il proprio volere per maggior gloria di Dio e in accordo con una rinnovata interpretazione di alcuni passi biblici – eo ipso emancipasse gli uomini dalle contraddizioni e dai guasti che da sempre ne caratterizzavano le alterne vicende.
Di certo l’umanità si giovò considerevolmente dei risultati ingenerati da un’attività scientifica che si impose gradualmente come un’istituzione sociale riconosciuta e legittimata. Agli scienziati venne attribuita una crescente autorevolezza che li avvicinava non poco a veri e propri ministri di un culto laico. Accademie, laboratori, facoltà scientifiche cominciarono a fiorire e a ritagliarsi un ruolo strategico sempre maggiore. I maggiori Stati occidentali (e in seguito l’Unione Sovietica, naturalmente) compresero e foraggiarono l’attività scientifica che divenne volano dell’economia, dell’ammodernamento e potenziamento degli eserciti nazionali e, più in generale, del processo di modernizzazione e industrializzazione (cfr. Ben-David, 1975). Un’aura di infallibilità rese impermeabile la scienza a qualsiasi attacco esogeno, al punto che essa appariva ai più alla stregua di un’attività extraculturale, una sfera non soggetta all’incessante divenire che invece connotava l’intera impresa umana (cfr. Prigogine e Stengers, 1999). Divenne difatti il sogno di molti – da Comte a Marx, solo per citare alcuni dei teorici più celebri – applicare anche al governo degli uomini i principi vigenti nelle scienze esatte. Se la storia e la società, si diceva, sono assoggettate al corso di leggi «naturali» non può che essere uno spirito positivo ad amministrarle, a precorrerne il corso e a prevederne gli effetti. L’intera impalcatura di questa “cosmologia scientifica” (Descola, 2014), si rese possibile in virtù delle promesse materiali che essa sembrava poter formulare e mantenere. La civiltà occidentale era stupefatta dal grado di benessere, il cui livello era assolutamente impensabile in precedenza, che il genio scientifico al servizio dell’industria poteva garantire. Un incredibile aumento della produzione fu assicurata dall’utilizzo di macchine sempre più sofisticate, alimentate da forme di energia non umane (cfr. Mumford, 2011; Landes, 1993). Seppure il coro di entusiasmi non fu unanime – si pensi al luddismo (Noble, 1993) – sembrò veramente di essere entrati in una stagione nuova dell’umanità, che nulla aveva a che spartire con la miseria, le barbarie e le superstizioni dell’epoca trascorsa. Anche a livello simbolico, però, la scienza divenne catalizzatore di energici slanci utopici allorché assurse a «grande narrazione» (Lyotard, 2008) della modernità. La scienza, proclamata vettore dell’emancipazione universale, si impegnò a recidere i lacciuoli che costringevano l’umanità all’arretratezza materiale e spirituale.
Soprattutto i grandiosi successi della medicina – vera e propria punta di diamante della concezione miglioristica tipica dell’ideologia del progresso – contribuivano a rinfrancare gli spiriti, illudendoli in ultimo di una possibile immortalità. Il rapporto col dolore fisico, che dalla notte dei tempi aveva regolato in modo assai severo l’esperienza terrena, viene radicalmente riformato dagli avanzamenti della medicina moderna (cfr. Serres, 2010). Nella scienza medica risuona fortissimo l’eco dell’ethos demiurgico che più in generale permea la modernità. Le facoltà creatrici di cui l’uomo si fa erede dal suo più titolato predecessore, rappresentano lo spirito che insuffla l’impresa moderna. L’immaginario scientifico – e in specie quello della medicina – si caricano di questi significati ulteriori, la cui origine è certamente extrascientifica. L’intensificazione di senso prodotta da un tale immaginario ha risvolti ambivalenti (si pensi al mito di Frankenstein [Lecercle, 2002] o alla metafora dell’apprendista stregone), ma senza dubbio produce un sovradimensionamento simbolico dell’attività dello scienziato. Le aspettative sociali rispetto a ciò che la scienza può realisticamente offrire – che peraltro non è affatto poco – risentono di questo sovraccarico affettivo: si chiede alla scienza e alla tecnologia di gratificare istanze dell’inconscio prima esclusivo magistero della religione (Camorrino, 2016). In fondo l’illusione è sempre la stessa: vellicare il desiderio di immortalità costitutivo della coscienza umana.
La salute diviene nella modernità uno dei massimi universi di senso, un «health project» (Beck e Beck-Gernsheim, 2002) intorno a cui costruire la propria traiettoria biografica. Erose le «strutture di plausibilità» (Berger e Luckmann, 2007) che garantivano la tenuta dei dispositivi di senso religiosi, l’orizzonte della salute si sostituisce a quello della salvezza (Foucault, 1969). Per queste ragioni la sfera della salute eredita la carica escatologica propria delle narrazioni sacre: au fond essa rappresenta un’immanentizzazione delle speranze profuse anteriormente dal dominio del religioso. I significati ultimi dell’esperienza, sempre più schiacciati nella dimensione individuale a scapito di quella collettiva – è giusto parlare, come fa Lyon (2002), di una vera e propria post-moderna «sacralizzazione del sé» – confluiscono nel culto del corpo di cui l’arte medica (e l’intero corollario delle possibili cure del sé), diviene una delle incontrastate amministratrici. Si coltiva e si afferma, in questo peculiare scenario sociale, la preminenza culturale della «etica dell’estetica» (Maffesoli, 2009). La salute «guadagna» un primato simbolico nella gerarchia dei valori al punto che nuovi scenari di colpa irretiscono la malattia: si assiste a un peculiare processo, peraltro non sconosciuto nelle società premoderne, che si presenta nella forma della «moralizzazione del male fisico» (Camorrino, 2015). L’afflizione di un male – con picchi simbolici specifici di alcune malattie rispetto ad altre – porta con sé un precipitato di vergogna e «blaming» in tal senso assai significativo (Sontag, 1989; Douglas, 1996). Data questa retorica dominante, che tocca però profondissime corde psicologiche, pare sempre giusto investire nella ricerca medica, anche quando risultati e benefici effettivi si dimostrano nient’affatto proporzionali ai finanziamenti accordati (cfr. Callahan, 2009; Cavicchi, 1988). È evidente che, se non si attivasse il pensiero magico innanzi a questi riscontri empirici, un differente atteggiamento, magari più ragionevole, si imporrebbe sulla ribalta sociale.
Quanto detto non vuole affatto promuovere un abbandono o un ridimensionamento degli studi in un campo di vitale importanza per l’intero genere umano, significa piuttosto – in un mondo di risorse scarse – castrare i reclami inconsci all’immortalità, ispirando al principio di realtà la regolazione dell’organizzazione sociale. La stella polare delle attività umane non deve essere rappresentata, anche se in modo inconsapevole, dalla ricerca del superamento della finitezza, ma da una realistica, per quanto faticosa e meno gratificante, riforma possibile e graduale dell’esistente. Ma è noto agli studiosi che in presenza di un forte coinvolgimento emotivo può non essere sufficiente argomentare in modo razionale e sulla base di evidenze anche schiaccianti per avere la meglio sulle pulsioni che condizionano l’agire e il pensiero (Elias, 1988). Zygmunt Bauman (1995) ha magistralmente descritto la strategia di senso adottata dagli uomini al cospetto di un mondo in cui svanisce la prospettiva concreta dell’aldilà. L’angoscia prodotta dallo spettro della finitudine cui non è concesso nessun appello, spinge gli uomini a confidare in sostituti funzionali di senso. Ecco allora che – sostiene il celebre sociologo – attraverso la «decostruzione della mortalità» si scompongono le ragioni della morte in una serie indefinita di cause la cui incessante aggiornabilità riduce quest’ultima a un evento controllabile e, dunque, infine superabile.
È vero che nella società contemporanea un forte sentimento di sfiducia colpisce l’attività scientifica al punto da delegittimarla seriamente, ma la medicina – ad avviso di chi scrive – rappresenta un caso particolare. La prossimità simbolica con la «situazione marginale par excellence» (Berger e Luckmann, 2007) – la morte per l’appunto – la pone in uno stato d’eccezione, per così dire. Certo l’orizzonte degli specialisti della salute, in virtù del discredito che ha interessato anche la medicina ufficiale (si pensi agli scandali della sanità pubblica o alle controversie crescenti tra esperti sui metodi e la prassi della loro disciplina) si è ampliato in modo considerevole inglobando pratiche polimorfiche (si pensi ai chiacchieratissimi casi Di Bella e Stamina; ma anche alle concessioni alla tradizione orientale o, più in generale, alle pratiche non-standard).
Inoltre la medicina non esaurisce la sfera dello star-bene. Basti pensare all’importanza sempre maggiore attribuita alla alimentazione sana o alternativa (con tutto il corollario estetitizzante della cultura della buona cucina che vediamo oggi sovraesposto nei media); o alla pratica del fitness che diventa anche sport estremo come prova massima della resistenza individuale corporea e emotiva (Le Breton, 2002).
È importante segnalare quanto i fenomeni sociali sinora descritti costituiscano un indicatore robusto di alcune tendenze proprie dell’immaginario tardo-moderno. L’intero spettro di queste particolari disposizioni verso il mondo recupera dimensioni irrazionali dell’essere, anche quando queste ultime rappresentano il frutto dei campi più avanzati della produzione umana. Il mito della salute – se così possiamo dire – traduce su scala individuale ciò che l’orizzonte di senso della salvezza offriva a livello collettivo. Alla storia sacra che inglobava l’intera umanità cristiana, si sostituisce una «sacralizzazione del sé» che però, almeno inconsciamente, reclama le medesime gratificazioni di immortalità. Ecco allora che la ricerca dell’allungamento della durata della vita appare come la meta più desiderabile, non importa a quale prezzo per la collettività. Va considerato che ciò che il pensiero magico fa oggi apparire come il migliore dei mondi possibili potrebbe, nel lungo periodo, anche non dimostrarsi affatto tale. Hans Jonas (1990) ha sostenuto che il processo di crescente sovrappopolazione avviatosi negli ultimi decenni, derivato tra l’altro dai tentativi di un indefinito allungamento della vita, rappresenta una questione della massima importanza e gravità. L’illimitatezza di quest’impresa si scontrerebbe fragorosamente con la limitatezza fisica del pianeta, costringendo infine gli uomini a scelte etiche, se non “cosmiche”, la cui portata trascende di gran lunga l’orizzonte immediato delle decisioni. Tutto ciò – conclude l’autore – a detrimento del ciclo di ricambio generazionale con cui dalla notte dei tempi, in modo cadenzato e sostenibile, si è riprodotto il mondo umano e non-umano.
In conclusione è bene sottolineare un aspetto più generale della questione. Ogniqualvolta gli uomini si sono lasciati cullare da utopie palingenetiche alimentate da slanci onnipotenziali, niente di buono si è mai verificato. Anche quando le intenzioni che animavano questi piani erano le più autentiche, giuste e buone. Questo non significa affatto gettare il bambino delle grandiose conquiste scientifiche con l’acqua sporca delle potenziali implicazioni negative di scenari apocalittici. Significa invece progettare il presente e il futuro della vita associata sulla base di prospettive realistiche, riducendo il più possibile il condizionamento delle istanze inconsce. In fondo significa nient’altro che appellarsi a una condotta razionale, capace di limitare al massimo la profonda fascinazione dei richiami all’immortalità.
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