Il futuro non è una “opinione” ma un “orizzonte di attesa”
La parola “futuro” nel senso comune allude a un insieme molto differenziato di significati. Da un lato, viene utilizzata sia per indicare i “fatti che saranno” – i future presents avrebbe detto Niklas Luhmann (1976) – sia per indicare le rappresentazioni su quanto può accadere che circolano ora, nel presente – i present futures. Ma la cosa è ancora più complicata di così. Come ricorda Barbara Adam (2007), il futuro che vive nel presente non è solo un insieme complesso di produzioni culturali (ciò che lei chiama future told, appunto, il futuro svelato, immaginato, insomma complessivamente rappresentato), ma è anche un insieme di pratiche sociali, come ad esempio i future tamed (le ritualità che riducono l’ansia), traded (le trattazioni economiche che creano denaro dall’ipoteca del tempo) e così via. Insomma, il futuro nel presente non è solo un prodotto simbolico, ma un vero e proprio “fatto culturale”, per citare Appadurai (2013), cioè un insieme di rappresentazioni con le ritualità connesse.
Ci interessa quindi il futuro perché influenza il presente, ma comprendere come lo faccia non è facile. Non è facile comprendere in quali “forme” esso circoli e con quale forza queste forme richiamino le direzioni da prendere.
Vi sono certo anticipazioni più nitide, accreditate e prescrittive (ad esempio, un meteorologo che, a partire da calcoli matematici, dice “domani pioverà”, influenza molto le scelte di viaggio) e anticipazioni più vaghe e oscure, che portiamo con noi senza esserne troppo consapevoli (ad esempio, ciò che ci resta nella mente dopo aver visto con amici un film come Matrix o The Circle).
Il futuro quindi è una coabitazione tra forme diverse di anticipazione che portiamo con diversi livelli di consapevolezza. Su questo insiste, nel suo libro Dopo il futuro, Franco “Bifo” Berardi:
Nella sfera dell’immaginario, conscio e inconscio giocano nello stesso campo. In questo scenario, il possibile sta in qualche modo in seno all’inconscio o comunque a ciò che chiede parole senza averle, le quali permettano ai contenuti di accedere alla luce della coscienza. In tal senso, possiamo dire che l’immaginario sul futuro è un “deposito” nel quale tutto ciò che impressiona la retina della coscienza si sedimenta e si accumula confusamente senza poter pretendere l’ordine. Solo poi subentra il simbolico e cerca di mettere ordine. Ma nel deposito dell’immaginario c’è molto di più. (Berardi, 2013)
Questa problematica è affrontata da altri autori, come per esempio Riel Miller (2018) che, nel nominare il collective intelligence kwnoledge sul futuro (l’intelligenza situata in un collettivo, e in modo specifico nel corpo di una generazione e in un dato luogo), introduce l’idea di “scavo”, cioè di un lavoro necessario per comprendere l’anticipazione come esperienza comune di cui non siamo consapevoli. Miller, nei Future Literacy Lab (i Laboratori di alfabetizzazione al futuro sponsorizzati dall’Unesco in tutto il mondo, di cui egli è uno dei coordinatori)[1], parla di esercizi di anticipazione del futuro conscious but closed (tipo di argomentazioni che io chiamerei sul “probabile”, cioè sui trend probabilistici ritenuti e accettati come se fossero immodificabili); semi-conscious o anche meglio direi conscious semi-closed (speculazioni sul poco probabile ma possibile), e infine anticipazioni non yet conscious (ad esempio, un futuro indefinito legato a proiezioni utopiche o anche distopiche più radicali che, se pur diffuse in modo carsico nella produzione culturale di massa, non sono sottoposte ad argomentazione nello spazio pubblico).